Film: ‘L’Ufficiale e la Spia’

L’UFFICIALE E LA SPIA

Titolo Originale: J’accuse

Nazione: Francia, Italia

Anno: 2019

Genere: Storico, Drammatico, Giallo

Durata: 132’ Regia: Roman Polański

Cast: Jean Dujardin (Ten. Col. Marie-Georges Picquart), Louis Garrel (Cap. Alfred Dreyfus), Emmanuelle Seigner (Pauline Monnier), Grégory Gadebois (Magg. Hubert-Joseph Henry), Mathieu Amalric (Alphonse Bertillon), Melvil Poupaud (Fernand Labori), Éric Ruf (Col. Jean Sandherr), Laurent Stocker (Gen. Georges-Gabriel de Pellieux), André Marcon (Émile Zola), Michel Vuillermoz (Ten. Col. Armand du Paty de Clam), Denis Podalydès (Edgar Demange), Damien Bonnard (Desvernine), Wladimir Yordanoff (Gen. Auguste Mercier), Didier Sandre (Gen. Raoul Le Mouton de Boisdeffre), Vincent Grass (Gen. Jean-Baptiste Billot), Hervé Pierre (Gen. Charles-Arthur Gonse), Laurent Martella (Cap. Ferdinand Walsin Esterhazy), Vincent Perez (Louis Leblois), Luca Barbareschi (Philippe Monnier)

CONTESTO NARRATIVO: Alfred Dreyfuss è un ufficiale ebreo francese e nel 1894 viene pubblicamente degradato con l’accusa di aver passato informazioni sensibili all’addetto militare tedesco, Maximilian von Schwartzkoppen. Il documento recuperato dai servizi segreti, detto ‘bordereau’, viene attribuito, in base alla perizia grafologica eseguita all’esperto criminologo Alphonse Bertillon, al capitano Dreyfus che si proclama invece del tutto estraneo ed innocente. Il maggiore Picquart è stato suo insegnante ed è lui ad accogliere Dreyfuss quando viene convocato al ministero dove, sottoposto a prova grafologica dal maggiore Armand du Paty de Clam, giusto per conservare la forma, gli viene formulata l’accusa e l’arresto, persino il suggerimento del suicidio d’onore ed al suo rifiuto viene esiliato sull’isola del Diavolo, nella colonia della Guayana Francese. Picquart viene nominato poco dopo tenente colonnello e posto a capo dei servizi segreti in sostituzione del colonnello Jean Sandherr, consumato dalla sifilide. Il suo rapporto con il sottoposto maggiore Henry si rivela subito difficile perché quest’ultimo, parte attiva nella raccolta delle prove a carico di Dreyfus, è abituato a godere di troppa autonomia e protezioni altolocate. Picquart scopre invece che la grafia del ‘bordereau’ assomiglia molto a quella di un altro militare, il maggiore Ferdinand Walsin Esterhazy. Convinto dell’innocenza di Dreyfus e che l’accusa è fondata, più che su prove concrete, sulla nascente ostilità nei confronti degli ebrei anche in ambito militare, con l’occasione di trovare un capro espiatorio, riduce le mansioni di Henry ed indaga direttamente, trovando altre conferme ai suoi sospetti. Decide quindi di sottoporre le prove raccolte al suo comandante, il capo di stato maggiore Boisdeffre. Anziché ricevere i complimenti, a Picquart viene suggerito di soprassedere ma insistendo nel suo convincimento, che coinvolgerebbe alti livelli delle forze militari, evidentemente deviate, viene rimosso dal suo ruolo ed inviato nella legione straniera in Africa con un incarico, gli viene detto, di breve durata, che si rivela invece duraturo. Temendo di morire, Picquart al suo ritorno racconta i fatti all’avvocato ed amico Louis Leblois, il quale si fa carico di coinvolgere anche personaggi politici e della cultura, fra i quali lo scrittore Emile Zola, dai quali scaturisce un comitato pro Dreyfus. L’iniziativa di Picquart gli costa però l’arresto. Lo scrittore allora pubblica il suo famoso articolo a tutta pagina nel quotidiano ‘L’Aurore’, intitolato ‘J’accuse’, che di fatto divide la piazza francese fra pro e contro Dreyfus. Processato e condannato a sua volta Zola, il caso Dreyfus assume risonanza internazionale. Picquart viene comunque liberato e sfidato a duello da Henry che rimane ferito, ma rinuncia a finirlo. A sua volta Esterhazy sfida a duello Picquart che però rifiuta perché non intende dare soddisfazione e colui che ritiene il vero traditore. Henry ammette di aver manomesso i documenti d’accusa a Drayfus e posto agli arresti si ‘suicida’. Picquart viene quindi assolto e riammesso al suo grado militare mentre Dreyfus viene ricondotto in Francia per un nuovo processo. Nonostante ciò, la sua vicenda anziché dirsi conclusa, è ancora lontana dalla soluzione.

VALUTAZIONE: una corposa, rigorosa ed in parte libera ricostruzione di uno dei casi più clamorosi che fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo ha scosso la società francese, le sfere militari e politiche ma anche l’opinione pubblica, uscendo persino dai confini nazionali. E’ difficile non considerare quest’opera di Roman Polański, che ripropone una famosa storia di ingiustizia per ragioni di pregiudizio razziale, che nel prosieguo assumono connotati e conclusioni ancora più vaste, come un’allegoria dell’accanimento che da tempo sta subendo lui stesso, in seguito alle note vicende di natura sessuale che lo hanno visto coinvolto sin dal lontano 1978 ed in base alle quali è tuttora ricercato dalla giustizia USA. Comunque la si veda tuttora al riguardo, il film in questione conferma la già nota maestria del regista nel gestire con classe, in questo caso, una delicata vicenda, rendendola di facile comprensione per tutti, pur nei suoi molteplici risvolti e le parti contrapposte in causa. Ineccepibili anche le prove attoriali, compresa la compagna del regista Emmanuelle Seigner. Pluripremiato, ‘L’Ufficiale e la Spia‘ continua comunque ad essere osteggiato, non per i suoi contenuti, quanto semmai per la figura del suo autore, tuttora culturalmente esiliato e perseguitato da parte di alcuni intransigenti esponenti delle accuse nei suoi confronti, nonostante l’appoggio e la solidarietà di molti eminenti personaggi della cultura e della società in generale. Voto

…I romani davano i cristiani in pasto ai leoni, noi diamo loro gli ebrei. Immagino che questo sia un progresso…‘ (Colonnello Jean Sandherr)

Nei riguardi di quest’opera non si può fare a meno di considerare almeno tre aspetti fondamentali: la sua consistenza artistica, il suo significato ideologico e quello allegorico sottesi al tempo stesso ed infine la figura del suo autore, il regista Roman Polański, così particolare per i fatti di cronaca che tuttora lo riguardano, apparentemente esterni al film in oggetto, ma che poi tali sino in fondo non sono.

Partiamo da questi ultimi, perché è un argomento controverso e divisivo, qualunque opinione ci si possa fare al riguardo. Per chi non conoscesse la storia, detta per estrema sintesi, Roman Polański nel 1977 ha avuto un rapporto sessuale consenziente con la quasi quattordicenne modella Samantha Geimer, quindi minorenne, nella villa dell’attore Jack Nicholson. Accusato del fatto, il regista ha ammesso la colpa, dichiarato il suo pentimento e attraverso il suo avvocato ha proposto una riparazione economica. Accettò quindi la reclusione per tre mesi. Dopo 42 giorni venne rilasciato con la raccomandazione di una commutazione in pena condizionale ma essendo venuto a conoscenza che il giudice non l’avrebbe accettata, fuggì dagli USA e da allora oltreoceano risulta contumace. Più volte è stato oggetto da parte delle autorità americane di richieste di estradizione che opportunamente ha evitato, spostandosi in stati che non la concedono, oppure grazie ai cavilli che i suoi avvocati sono stati in grado di produrre con successo laddove si trovava, magari per ritirare uno dei molti premi che si è aggiudicato in qualche Festival del Cinema. Anni dopo la Geimer dichiarò di aver perdonato Polański e di considerare chiuso il caso. In seguito sono spuntate altre testimonianze a suo carico di presunti stupri che Polański però ha sempre negato e nessuno è stato in grado di dimostrare. Sta di fatto che la nomea che si è costruita nel tempo, accresciuta e riproposta sull’onda dei fatti che hanno visto protagonisti il produttore Harvey Weinstein ed il movimento #MeToo sulle molestie nei confronti delle donne e l’attore Kevin Spacey accusato di  violenze omosessuali nei confronti di minorenni, hanno reso ancora più scomoda di quello che già non fosse la posizione del regista di origine polacca. In molte occasioni pubbliche, nonostante i numerosi premi che sono stati assegnati alle sue opere nel frattempo ed il sostegno di numerosi altri autori e rappresentanti della cultura, è tuttora oggetto di manifestazioni ostili. Torniamo ora al suo ultimo film.

L’Ufficiale e la Spia‘ tratta un caso realmente accaduto, che i meno giovani dovrebbero perlomeno aver sentito nominare, se non proprio conoscere nei fatti, non fosse altro per il famoso ‘J’accuse‘ di Emile Zola. Un episodio di clamorosa manipolazione della giustizia e di grande risonanza popolare nell’epoca in cui è avvenuto, che ha diviso l’opinione pubblica nei confronti del capitano Alfred Dreyfus, per ragioni razziali e perciò che vanno al di là della sua stessa persona, ma che per fortuna furono smascherate, generando un terremoto nelle alte sfere militari e politiche della Francia d’inizio secolo scorso. Difficile però a questo punto non associare l’interesse di Roman Polański per questa storia, tratta dall’omonimo romanzo di Robert Harris e sceneggiata a quattro mani con lo stesso scrittore (avevano già lavorato assieme in occasione del notevole ‘L’Uomo nell’Ombra‘, clicca sul titolo se vuoi leggere la mia recensione) alla sua condizione di ricercato dalla giustizia da ben quarantadue anni. Anche in occasione del Gran Premio della Giuria alla 76ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia assegnato a ‘L’Ufficiale e la Spia‘, la presidentessa della manifestazione Lucrecia Martel espresse la sua distanza, proprio per ciò che di negativo a suo dire rappresenta il regista tuttora nei confronti delle donne.

Il ‘caso Dreyfuss’ è un clamoroso esempio di distorsione della verità per pretestuosi fini ideologici, di potere e razziali. Alla fine del XIX secolo i rapporti fra Francia e Germania erano molto tesi e le spie cercavano reciprocamente di sottrarsi informazioni utili, specie di natura militare. Un ufficiale francese non ancora identificato si stava rendendo protagonista di alto tradimento ma grazie ad un’infiltrata nell’ambasciata tedesca era stato possibile recuperare dal cestino dei rifiuti dell’attaché militare, Maximilian von Schwartzkoppen, un documento maldestramente stracciato e facilmente ricostruibile dagli esperti dei servizi segreti, nel quale si parlava di alcune informazioni tecniche segrete, compreso un nuovo cannone in costruzione che, se fosse stato utilizzato, avrebbe dato significativi vantaggi strategici all’esercito francese. L’occasione venne sfruttata al volo per veicolare l’accusa su un ufficiale ebreo totalmente estraneo ma che doveva fare da volano per colpire l’establishment degli ebrei francesi i quali, a detta dei loro nemici, si erano infiltrati eccessivamente nella struttura politica, economica e militare della Francia.

Il film inizia con la ‘spettacolare’ degradazione e pubblica umiliazione del capitano Alfred Dreyfus nella grande piazza del cortile della Scuola Militare, davanti alle autorità militari, i soldati schierati ed una folla trattenuta a stento che inveisce contro il presunto traditore, il quale urla invece la sua innocenza, ovviamente inascoltato, mentre gli strappano le mostrine, i bottoni e le insegne militari dalla divisa e spezzano la sua spada davanti a lui, gettandola per terra. Sequenze al presente s’alternano ad altre che ripercorrono ricordi del passato utili a delineare le figure in gioco e le loro peculiarità, come ad esempio l’assoluto attaccamento di Dreyfus alla patria ed alla disciplina militare ed i rapporti con il suo insegnante, il maggiore Marie-Georges Picquart, un uomo retto ma non propriamente simpatizzante degli ebrei, come ha modo di dichiarare egli stesso durante un confronto a seguito di una valutazione, secondo Alfred, troppo severa nei suoi confronti.

Le differenze fra la storia vera e l’adattamento sul grande schermo ci sono, a leggere le testimonianze di alcuni storiografi al riguardo, ma sono funzionali alla trama, senza sconvolgere la sostanza della vicenda. Ad esempio, la partecipazione di Picquart alla riunione con alcuni parlamentari progressisti e soprattutto in presenza di Emile Zola, nella realtà però non si è verificata, perché i due non si sono mai incontrati di persona, nonostante l’impegno del celebre scrittore nel pubblicare sulla stampa il suo famosissimo atto di accusa di corruzione di alcune sfere militari, in base alle prove raccolte proprio dal tenente colonnello ed a difesa dell’innocenza di Dreyfus.

Grazie alla narrazione di quest’opera si può comprendere, fra l’altro, come i servizi segreti fossero già molto attivi e sofisticati a quell’epoca, nonostante i limiti tecnologici rispetto ai nostri tempi. Dentro un palazzo in centro a Parigi, apparentemente anonimo ed in disuso, risiedevano gli uffici e gli addetti specializzati dei servizi segreti che si occupavano, ad esempio, di leggere la posta dei cittadini sospetti senza farsene accorgere, ovviamente prima che gli fosse recapitata; ricostruivano appunto documenti ritenuti erroneamente distrutti ed effettuavano controlli di vario genere, come appostamenti che spiavano i movimenti di alcune persone, seppure per ragioni comprensibili di prevenzione a difesa della sicurezza nazionale. Tutto ciò ovviamente, se utilizzato per fini diversi, può portare a conseguenze pericolose sotto molti punti di vista, persino riguardo l’integrità della democrazia e della giustizia di uno stato. Indro Montanelli, a proposito di questo storia ebbe a dichiarare: ‘…essa non fu soltanto il più appassionante ‘giallo’ di fine secolo. Fu anche l’anticipo di quelle ‘deviazioni’ dei servizi segreti che noi riteniamo – sbagliando – una esclusiva dell’Italia contemporanea. Ma fu soprattutto il prodromo di Auschwitz perché portò alla superficie quei rigurgiti razzisti e antisemiti di cui tutta l’Europa, e non soltanto la Germania, era inquinata. Allora, grazie soprattutto alla libertà di stampa che smascherò l’infame complotto, quei rigurgiti furono soffocati. Ma la vittoria dell’antirazzismo, che lì per lì sembrò definitiva, fu, come sempre quella della Ragione, soltanto momentanea. Le cronache di oggi dimostrano che nemmeno i forni crematori dell’Olocausto sono riusciti a liberarci dal mostro che si annida nel subconscio delle società cristiane, con rispetto parlando e che proprio nell’affare Dreyfus diede la misura più eloquente della sua abiezione…‘… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’) Continua a leggere…

Serie TV e Libro: ‘Olive Kitteridge’

OLIVE KITTERIDGE (Miniserie TV)

Titolo Originale: Omonimo

Nazione: USA

Anno: 2014

Genere: Drammatico

Durata: 4 Puntate da circa 60′ cadauna 

Regia: Lisa Cholodenko  

Cast: Frances McDormand (Olive Kitteridge), Richard Jenkins (Henry Kitteridge), Bill Murray (Jack Kennison), Zoe Kazan (Denise Thibodeau), Rosemarie DeWitt (Rachel Coulson), John Gallagher Jr. (Christopher Kitteridge), Peter Mullan (Jim O’Casey), Martha Wainwright (Angela O’Meara), Ann Dowd (Bonnie Newton), Brady Corbet (Henry Thibodeau), Jesse Plemons (Jerry McCarthy), Libby Winters (Suzanne), Cory Michael Smith (Kevin Coulson), Donna Mitchell (Louise Larkin), Audrey Marie Anderson (Ann), Maryann Urbano (Linda Kennison), Rachel Brosnahan (Patty Howe)

CONTESTO NARRATIVO: Olive Kitteridge è un’insegnante in pensione che vive a Crosby, un paesino immaginario dello stato del Maine in USA. Olive è consapevole di non aver mai avuto un buon carattere e di aver vissuto sempre sull’orlo della depressione, cronicamente insoddisfatta. Per tale ragione si è procurata una pistola e si è recata in un bosco con l’intento di suicidarsi ma intanto torna indietro con la memoria a venticinque anni prima. Il marito Henry, che è stato per anni il capace e benvoluto farmacista del paese ed ha un carattere diverso dal suo, l’ha sempre amata. Il loro figlio Christopher invece è cresciuto fra l’eccessiva severità della madre e la costante distrazione del padre nei suoi riguardi. Tutti si conoscono nel piccolo paese di Crosby e quindi le vicende familiari dei Kitteridge si sono intrecciate nel tempo con quelle di alcune altre persone e famiglie intorno a loro. Quella di Kevin, ad esempio, coetaneo di Christopher, il quale aveva una madre disturbata ed è diventato, anche per questo, uno psichiatra. Un giorno è tornato in paese, da New York dove si era è trasferito da tempo, con un fucile sul sedile posteriore dell’auto e l’intenzione di rivedere i posti dell’infanzia prima di farla finita a sua volta, avendo scoperto di manifestare anche lui, geneticamente, dei disturbi mentali. Kevin ha parcheggiato l’auto al porto ed è stato riconosciuto da Olive che si è seduta al suo fianco per chiedergli sue notizie ma poco dopo si è accorta che Patty, la cameriera del locale di fronte, amica di Kevin tanti anni fa, avvicinandosi troppo alla scogliera dove è in corso una mareggiata, è scomparsa alla vista. Accorsi prontamente entrambi, Kevin non ha esitato a tuffarsi in mare dove Patty stava annegando fra i marosi e salvarla. Olive è anche stata innamorata di Jim O’Casey, senza che Henry se ne fosse reso conto a lungo. Jim insegnava nello stesso istituto di Olive e per anni ha accompagnato in auto sia lei che Christopher nel percorso casa-scuola. Il loro rapporto si è interrotto definitivamente quando Jim, alticcio, una sera è andato a sbattere con la sua auto contro un albero. Olive ha pianto a lungo da sola nella sua camera per la perdita. Henry, dal canto suo, si è affezionato ed anche di più a Denise, una giovane che ha assunto come aiutante in farmacia: ingenua, fragile, allegra, intelligente, fresca, cioè il contrario di Olive, e felice sposa di Henry Thibodeau, si è ritrovata poco dopo vedova, a causa di un incidente di caccia con il suo amico Tony durante una battuta alla quale ha partecipato anche Henry Kitteridge. Quest’ultimo si è fatto carico a lungo di assistere Denise nel superare il lutto, proteggendola come una figlia e rischiando persino d’innamorarsene. Christopher con il tempo è cresciuto ed è diventato podologo. Si è sposato con Suzanne, una collega, di famiglia benestante. Olive ed Henry hanno allestito per loro una splendida casa, poco distante dalla loro, pregustando il futuro ruolo di nonni, ma Suzanne ha spinto Christopher a trasferirsi in California da dove proviene e risiedono i suoi genitori. Poco tempo dopo però lo ha lasciato. Nonostante ciò, Christopher ha preferito rimanere in California, dove dice che la sua attività ha successo e si è legato ad Ann, già madre di due figli, che ne aspetta un terzo da lui. Henry intanto, a causa di un ictus, è rimasto pesantemente offeso ed è stato ricoverato praticamente in stato vegetativo in una casa di riposo dove Olive va a trovarlo tutti i giorni. Chiamata da Christopher per aiutare Ann durante la gravidanza, Olive resiste solo tre giorni e poi torna a casa, per scoprire che Henry la notte precedente è deceduto nel sonno… e non è ancora finita!

VALUTAZIONE: vedi libro. Voto:

OLIVE KITTERIDGE

Di Elizabeth Strout

Scritto nel 2008

Anno di Edizione 2008; Pagine 383

Costo € 18,00 (tascabile € 12,99; eBook € 12,99)

Ed. Fazi

Traduttrice: Silvia Castoldi

CONTESTO NARRATIVO: la trama è molto simile alla sua trasposizione nella minierie TV, con qualche eccezione. Fra le più significative, l’inizio della miniserie mostra Olive intenzionata a suicidarsi. Una situazione che nel romanzo non c’è. Anche la morte improvvisa della vecchia collaboratrice nella farmacia di Henry Kitteridge, colta da improvviso malore appena fuori dal negozio e che Henry prontamente accorso non riesce a salvare neppure praticandole il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca è una ‘licenza’ della miniserie Tv che nel romanzo non c’è. Inoltre nell’incidente di caccia che vede Henry Thibodeau malaugurata vittima di un tragico errore dell’amico Tony, nel racconto scritto non si parla della presenza di Henry Kitteridge, ma solo di un invito il giorno precedente che lui ha cortesemente declinato. Nonostante tutto sono differenze tutto sommato di poco peso nel contesto globale della storia.

VALUTAZIONE: premio Pulitzer nel 2009, il romanzo di Elizabeth Strout è considerato uno dei più importanti della letteratura americana degli ultimi decenni. Opera di contenuti e di stile, ‘Olive Kitteridge’ racconta, attraverso la figura di una donna consapevolmente scomoda, difficile da sopportare, sferzante nell’esprimere le proprie opinioni, madre severa e mai affettuosa, depressa per costituzione, la storia sua e della sua famiglia, i Kitteridge, in un paese della provincia americana dove tutti sanno tutto di tutti. Un prototipo quindi di una realtà sociale che in molti aspetti riflette una visione universale. L’originalità del romanzo sta nel fatto che è suddiviso in tanti piccoli racconti che narrano, oltreché episodi della vita degli ultimi 25 anni di Olive, anche quelli di alcuni conoscenti ed amici della stessa. In alcuni casi lei compare solo di sfuggita, ma ciò non da mai l’impressione di una disarmonia. Il mezzo voto in più al romanzo rispetto alla miniserie TV è giustificato proprio dal fatto che in quest’ultima questa caratteristica narrativa così particolare ma sorprendentemente efficace viene a mancare, poiché gli autori hanno preferito affidarsi ad una più classica sequenzialità narrativa. Straordinaria l’interpretazione di Frances McDormand che arricchisce, se possibile, la figura di Olive, già così ben descritta da Elizabeth Strout. Una miniserie comunque per il resto che traspone più che adeguatamente il romanzo.  Voto:

Diciamolo, sia il romanzo che la miniserie TV dal quale è tratto non sono di facile popolarità. Nel senso che, soprattutto riguardo quest’ultima, dipende molto da cosa si aspetta lo spettatore che si siede in poltrona, magari dopo una giornata di lavoro e con l’intenzione di distrarsi con uno spettacolo rilassante. Il lettore invece di solito è più consapevole e mirato nella scelta e quindi in questo caso comprende più facilmente che non può aspettarsi una vicenda che ha fra i suoi connotati la spettacolarità, anche se non per questo si può definire meno intensa. Ciò che manca in termini di esteriorità infatti a ‘Olive Kitteridge‘, lo guadagna a livello di interiorità e di emotività.

D’altronde la specificità del racconto inizia dalla figura della protagonista, che non ha nulla di coinvolgente per lo spettatore comune, neanche per quello che tende ad identificarsi, seppure quasi sempre preferisce non ammetterlo, con il ‘cattivo’ di turno (sia che si tratti di Alex, l’interprete principale di ‘Arancia Meccanica‘, oppure Ciro Di Marzio e Gennaro Savastano di ‘Gomorra‘ o Phil Spector di ‘The Fall – Caccia al Serial Killer‘, per citare i primi che mi vengono in mente ora – clicca sui titoli di diverso colore se vuoi leggere la mia recensione).

Olive non è di certo una criminale, bensì una donna dalla forte personalità e di una certa età, pensionata ed affetta da un perenne stato depressivo, anche se al riguardo ha una precisa e tagliente opinione: ‘…la depressione va di pari passo con l’intelligenza!…‘. Il che la porta facilmente ad assumere atteggiamenti altezzosi e scontrosi, sia nell’espressività del viso che nelle parole, spesso caustiche, che rivolge a tutti, senza chiedere mai scusa, come le fa notare il marito Henry, che pure l’ha sempre amata anche se ha un carattere opposto al suo o forse proprio per questo; oppure nei confronti del figlio Christopher che Olive tratta sin da piccolo con severità e senza le espansività tipiche di una madre.

Non risparmia neppure i compaesani della piccola comunità di Crosby (località immaginaria dello stato del Maine, quasi all’estrema propaggine nord-est degli Stati Uniti, vicino al confine del Canada), che si confrontano da sempre con il suo carattere scorbutico, spigoloso e rigido. Ne sapevano qualcosa anche i suoi allievi, quando insegnava matematica nella scuola del paese, che s’adeguavano immediatamente a riservarle il massimo rispetto, grazie ad una ferrea disciplina che non ammetteva deroghe, tanto meno quando infliggeva loro delle punizioni, cui non soprassedeva neppure di fronte ad una specifica richiesta di qualche genitore. Ma Olive era anche determinata nell’infondere loro il coraggio di osare: ‘…non abbiate paura della vostra fame. Se ne avrete paura sarete soltanto degli sciocchi qualsiasi…‘. Forse perché lei non l’ha avuto ad un certo punto della sua vita.

A Crosby si è quindi guadagnata un rispettoso distacco, del quale però non sembra particolarmente soffrire, essendo tutta personale ed interiore la sua irrisolta irrequietezza, che comunque non perde occasione di riversare su Henry, Christopher e chiunque le graviti intorno. Il marito è stato farmacista stimato del paese sino a quando è andato in pensione, cedendo i locali ad una catena nazionale. I suoi clienti non hanno perso nulla riguardo le forniture di medicinali, semmai la sua umanità e pluriennale esperienza. Henry non ha mai sofferto per il carattere suscettibile ed umorale di Olive e l’ha sempre amata, anche fisicamente, con immutata passione: ‘…Henry Kitteridge cadeva preda di un accesso di incredibile frenesia, come se nell’atto di amare sua moglie si stesse unendo a tutti gli uomini nell’atto di amare il mondo delle donne, che racchiudevano nel profondo di se stesse l’oscuro e vellutato segreto della terra…‘… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’) Continua a leggere…

Film: ‘7 Ore Per Farti Innamorare’

SETTE ORE PER FARTI INNAMORARE

Titolo Originale: omonimo

Nazione: Italia

Anno: 2020

Genere: Commedia, Sentimentale

Durata: 104’ Regia: Giampaolo Morelli

Cast: Giampaolo Morelli (Giulio Manfredi), Serena Rossi (Valeria), Massimiliano Gallo (Alfonso), Diana Del Bufalo (Giorgia), Gianni Ferreri (Giuseppe), Fabio Balsamo (Ernesto), Gigio Morra (Gaetano), Salvatore Misticone (l’amico di Gaetano), Andrea Di Maria (Fabrizio Dell’Orefice), Peppe Iodice (partecipante al corso), Raiz (Fabiano), Antonia Truppo (Lina Ciù Ciù), Vincenzo Salemme (Enrico Dell’Orefice), Cinzia Mirabella (Tina), Diletta Leotta (Se Medesima)

CONTESTO NARRATIVO: Giulio è un giornalista esperto di economia che lavora per ‘Mezzogiorno d’Italia’, un quotidiano del sud ed intanto sta seguendo il corso prematrimoniale con Giorgia. Il suo capo Alfonso lo spedisce a Milano per un servizio, ma resta imbottigliato nel traffico e perde l’aereo. Tornato a casa trova Alfonso e Giorgia assieme dentro la doccia. I due promessi sposi si lasciano, seppure Giulio è ancora innamorato e per giunta resta praticamente senza mobili in un bell’appartamento con vista stupenda sul golfo di Napoli e senza lavoro perché per difendere la sua dignità ha dato le dimissioni. Nella ricerca di un nuovo posto trova difficoltà perché il suo curriculum risulta troppo qualificato, così è costretto ad accettare l’offerta del direttore di ‘Macho Man’, una rivista online che si occupa di frivoli argomenti che nulla hanno a che fare ovviamente con l’economia. L’ex collega ed amico Ernesto lo convince ad uscire di casa per voltare pagina e rimettersi in gioco e nel corso di un aperitivo su una terrazza lo spinge ad approcciare una bella donna che sembra sia sorprendentemente sola. Valeria, questo il suo nome, lo asseconda per qualche secondo ma poi chiama a raccolta un gruppo di uomini di varia età, suoi allievi di un corso di ‘rimorchio’, ai quali, davanti a Giulio, descrive tutti gli errori che ha compiuto nel tentativo di fare colpo su di lei. Nei giorni a seguire Giulio capita proprio nel luogo, una sorta di chiesa sconsacrata, dove Valeria tiene il suo corso, allo scopo di raccogliere spunti per scrivere il suo articolo ed assiste alle tecniche della donna, molto sicura di sé, pratica e distaccata nel sostenere che i rapporti fra maschi e femmine sono determinati dalla programmazione genetica che ne guida le azioni e quindi anche le reazioni. Il suo articolo ottiene grande successo sul web ed il direttore di ‘Macho Man’ decide di affidare a Giulio, che non vorrebbe, una rubrica fissa sulle tecniche di seduzione, affiancandogli proprio Valeria che ha accettato la collaborazione. Il rapporto fra lei e Giulio, da conflittuale per via delle loro opposte visioni, trova un punto d’incontro nell’offerta di aiutarlo a riconquistare Giorgia. Partecipando alle lezioni che Valeria impartisce nel suo corso ad una serie di personaggi napoletani del tutto sprovveduti nel riuscire a rimorchiare qualche ragazza, Giulio impara un po’ alla volta a correggere i suoi modi scontati e prevedibili ed a capire sempre meglio la psicologia femminile. Nel frattempo la frequentazione fra lui e Valeria accresce sempre più la loro complicità…

VALUTAZIONE: una commedia leggera ma ben strutturata, che non annoia, neppure nei momenti meno riusciti, senza mai scadere nel becero o nel ridicolo. Giampaolo Morelli scrittore, regista ed attore protagonista al tempo stesso, è stato accorto nell’impostare la storia su un tema, quello della seduzione, al quale difficilmente lo spettatore di entrambi i sessi può rimanere indifferente, con dialoghi molto spesso efficaci e finalità che qualcuno, afflitto da problemi di personalità e di relazione, potrebbe persino trovare propedeutiche. Ambientata in una Napoli spesso raffinata, elegante e propositiva, con un coro di comprimari imbranati e simpatici che, negli atteggiamenti e nel linguaggio dialettale riflettono però anche l’iconografia della città, senza intenti denigratori ma neppure celebrativi, in modo comprensibile comunque per tutti, la vicenda è scontata nella conclusione, ma gestita quasi sempre con garbo. Molto bravi i due protagonisti e per quanto riguarda Serena Rossi è decisamente seducente, con le sue buone ragioni per aver scelto quel curioso mestiere di ‘coach dei rimorchiatori’, fruibile da entrambi i sessi. Voto:

Tu che animale sei? Sto cercando d’inquadrarti ma sei sfuggente…‘ (Giulio)
Sono l’animale più feroce di tutti io…‘ (Valeria)
Ah… il leone…‘ (Giulio)
…No, l’essere umano!…‘ (Valeria)

Uno dei film che è rimasto bloccato dal ‘lockdown’ conseguente alla pandemia del Covid-19 e che è stato distribuito direttamente in streaming nelle varie piattaforme disponibili. E’ tratto da un racconto di Giampaolo Morelli, sul quale l’autore ha così tanto scommesso evidentemente, da scriverne anche soggetto e sceneggiatura di una trasposizione al cinema (assieme a Gianluca Ansanelli), da dirigere e recitare poi in prima persona. Non ha avuto torto perché il film è nel complesso gradevole e persino inconsueto nel panorama nostrano rinunciando alla facili battute sul sesso, nonostante il leitmotiv sia incentrato sul tema della seduzione, gestito da una donna a beneficio degli uomini ma perciò in qualche misura bidirezionale.

Attenzione! Le tecniche di seduzione presentate in questo film sono tutte vere e funzionano!‘, dichiara esplicitamente un post-it della locandina del film ed è la ‘furbata’ che ha pensato l’autore e che sta dentro una trama scontata nelle conclusioni ma che trae innegabilmente beneficio da questa impostazione. La quale vicenda, dopo aver presentato uno dei più classici cliché del cinema, ovviamente ripreso dalla realtà: lui che coglie lei assieme ad un altro in atteggiamento inequivocabile, per giunta in questo caso con il suo datore di lavoro, al rientro a casa da un viaggio mancato, conduce lo spettatore ad una sorta di ‘corso istruttivo’ sulle tecniche di seduzione che anche il povero Giulio ha bisogno perlomeno di aggiornare, avendo oltretutto dalla sua un aspetto niente male (in alcuni momenti mostra persino qualche somiglianza con il Patrick Dempsey di ‘Grey’s Anatomy‘, ‘La Verità Sul Caso Harry Quebert’ e ‘I Diavoli‘) e persino un curriculum da difendere.

La ‘tecnica dei tre secondi’ ad esempio è quella che gli rimprovera Valeria quando s’incrociano la prima volta, dopo essersi prestata una sera, ad insaputa di Giulio, al ruolo di ‘facile preda’, nel bel mezzo di un aperitivo su una elegante terrazza di Napoli frequentata da giovani e meno giovani, dove è facile fare nuove conoscenze fra un drink e l’altro. Giulio sta vivendo un periodo di depressione e di bassa autostima dopo aver scoperto appunto che Giorgia, la donna con la quale stava frequentando il corso prematrimoniale, nel mentre lo tradiva. In un sol colpo ha perso lei (ma ne è ancora fortemente innamorato) e il posto di lavoro, dal quale si è dimesso per dignità personale.

Il suo amico ed ex collega Ernesto (Fabio Balzamo), un personaggio destinato nei modi e nell’immagine che offre di sé ad avere zero possibilità di successo con le donne ma che non perde comunque occasione per provarci, lo spinge a reagire ed a mettere in pratica il vecchio metodo del ‘chiodo schiaccia chiodo’. Il povero Giulio si ritrova invece dopo qualche secondo ad essere additato ad esempio negativo da Valeria, davanti ad una platea di personaggi bizzarri, in quello che si rivela essere un test sul campo, da parte di una insegnante molto particolare della cosiddetta ‘Università del Rimorchio’, la quale sta mettendo in pratica una lezione sugli errori di approccio.

Per prima cosa, dice all’esterrefatto Giulio, quasi fosse uno scolaretto colto impreparato ad una interrogazione, ha atteso più di un minuto prima di avvicinarsi e parlarle, mentre la decisione deve avvenire al massimo entro tre secondi, perché l’azione risulti decisa e credibile. Poi, per rompere il ghiaccio della conversazione ma anche con la pretesa di fare colpo, Giulio ha detto di essere un giornalista economico: è un approccio o un colloquio di lavoro? Noioso, commenta Valeria. Infine, quando gli ha chiesto perché si sia avvicinato proprio a lei, lui ha risposto qualcosa riguardo la bellezza e che in mezzo a quella gente ‘spicchi‘ o… ‘picchi‘, fra l’ilarità del gruppo intorno a loro per un’espressione che lei bolla come anonima e banale, una frase da sfigato. E conclude: ‘…questo è tutto quello che non dovete fare quando provate a rimorchiare una ragazza…‘. Insomma, roba da mettere al tappeto il Mike Tyson dei ‘seduttori’. Ma non è mica finita qua… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’) Continua a leggere…

Film: ‘Yesterday’

YESTERDAY

Titolo Originale: omonimo

Nazione: Regno Unito, Russia, Cina

Anno: 2019

Genere: Commedia, Fantastico, Musicale, Sentimentale

Durata: 116’ Regia: Danny Boyle

Cast: Himesh Patel (Jack Malik), Lily James (Ellie Appleton), Joel Fry (Rocky), Kate McKinnon (Debra Hammer), Ed Sheeran (Se Stesso), Sophia Di Martino (Carol), Ellise Chappell (Lucy), Harry Michell (Nick), Vincent Franklin (Brian), Camille Chen (Wendy), Alexander Arnold (Gavin), James Corden (Se Stesso), Sanjeev Bhaskar (Jed Malik), Meera Syal (Sheila Malik), Karma Sood (Jack Malik da Bambino), Lamorne Morris (Capo del Marketing), Sarah Lancashire (Liz), Michael Kiwanuka (Se Stesso), Robert Carlyle (John Lennon), Ana de Armas (Roxanne)

CONTESTO NARRATIVO: Jack è un musicista e per mantenersi lavora in un grande magazzino della distribuzione. La sera si esibisce nei locali del Suffolk, nella zona est dell’Inghilterra. Ellie Appleton è la sua agente e sembra l’unica a credere nelle sue qualità, lui compreso. Dopo un’altra serata anonima, Jack sta tornando deluso a casa in bicicletta quando improvvisamente, per qualche secondo e oscure ragioni, avviene un blackout sull’intero pianeta Terra. Nel buio totale Jack viene investito da un pullman e si ritrova in ospedale con due incisivi in meno ma tutto sommato ancora integro, con Ellie che lo è venuto a trovare o lo consola. Quando viene dimesso si ritrova con la sua agente ed una coppia di amici, Carol e Nick. Ellie gli ha regalato una nuova chitarra perché quella che aveva Jack è andata distrutta nell’incidente. Invitato a suonare un brano, lui accenna a ‘Yesterday’ dei Beatles ed i tre amici si complimentano per la bella canzone, convinti che l’abbia composta lui. Jack crede che stiano scherzando, dice che è un brano famoso dei Beatles ma Ellie, Carol e Nick lo guardano smarriti. Tornato a casa, si mette davanti al PC ma il campo ricerca di Google non restituisce nulla riguardo ai quattro ‘fabulous’ di Liverpool e molti altri noti musicisti e non, persino oggetti che consumiamo abitualmente sembra che siano del tutto sconosciuti. Superato lo stupore, a Jack non sembra vero di essere l’unico a ricordare le canzoni dei Beatles ed inizia a ricostruirne musica e testi e poi a proporle, suscitando il plauso di chi l’ascolta e soprattutto di Gavin, un produttore indipendente che ne intuisce le potenzialità e gli fa incidere alcune canzoni che vengono proposte nelle radio. E’ l’inizio di una escalation che porta Jack ad essere notato persino da una celebrità come Ed Sheeran, il quale si presenta addirittura a casa sua e lo invita a fargli da musicista di spalla in una tournée in giro per il mondo. Ellie insegna matematica e non se la sente di lasciare il suo lavoro per seguire Jack. I loro rapporti sono sempre sempre stati fondati sull’amicizia ma il distanziamento fa emergere sentimenti più forti. Ed Sheeran ben presto si rende conto che le canzoni di Jack sono migliori delle sue e la sua cinica agente Debra invita quest’ultimo a Los Angeles per proporgli di curarne l’immagine e lanciarlo definitivamente nel mondo dello star system. Jack accetta e la casa discografica programma addirittura un doppio album destinato ad un successo mai visto prima. Jack è confuso da tanta gloria improvvisa ed inaspettata ma ogni volta che propone un nuovo brano è un successo strepitoso. Solo un paio di persone fra il pubblico sembrano osservarlo con stupore e seriosamente. Pur essendo diventato un divo, sente forte comunque la mancanza di Ellie ma anche l’imbarazzo per aver sfruttato la creatività dei Beatles facendola passare per sua. Poiché spesso non sa cosa rispondere riguardo il significato dei testi, decide di fare un viaggio lampo a Liverpool, per risalire alle radici dei quattro e mentre è in hotel viene raggiunto di sorpresa da Ellie. Fra i due c’è oramai una forte attrazione ma quando arrivano al dunque, lei si ritrae perché non si ritiene adatta ad ‘una botta e via’ e posto di fronte alla scelta, Jack decide di continuare la sua carriera di successo. Ma ovviamente è una fase soggetta ad ulteriori sviluppi… 

VALUTAZIONE: da un’idea geniale, seppure forse non del tutto originale, un film molto piacevole e folle che certamente trae linfa dalla musica straordinaria dei Beatles, ma la sceneggiatura e la regia sono anche abili nel tratteggiare, senza scadere nella retorica sdolcinata, una figura d’artista anomalo, anche come prototipo cinematografico di una star in divenire, combattuto fra etica e profitto; fra la rinuncia alla gloria oppure al sentimento, anche se poi uno non esclude l’altra. Non secondario il tema di ripensare ad un mondo nel quale alcuni elementi abituali dovessero improvvisamente e consapevolmente venire a mancare. Le performance ‘live’ del protagonista Himesh Patel sono un valore aggiunto e Lily James è sempre adorabile seppure in una parte limitata. Danny Boyle ha realizzato un’opera che fa il paio con ’28 Giorni Dopo’ nel prefigurare, un po’ alla ‘Walking Dead’, che qualcosa di straordinario è successo sulla Terra, ma stavolta la proposta, pur curiosa ed incredibile, è rilassante e niente affatto catastrofica. La partecipazione di una star come Ed Sheeran nella parte di se stesso è simpatica e umile. Voto:

Un titolo che più azzeccato non potrebbe essere, ‘Yesterday‘. Perché viene naturale pensare alla canzone dei Beatles e per giunta è anche la prima che il protagonista Jack Malick esegue del loro repertorio. Un giorno stranissimo però, che segue un evento misterioso, in conseguenza del quale l’umanità intera e gli strumenti di memorizzazione di massa che siamo soliti utilizzare quotidianamente su Internet, ma anche materialmente al di fuori, si sono dimenticati della loro esistenza. Anzi, è come se non fossero mai esistiti. Su Google la ricerca della parola ‘Beatles’ dà risultati completamente diversi da ciò che Jack si aspetterebbe e di John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr non c’è traccia alcuna. Esistono ancora i Rolling Stones, almeno loro, ma non gli Oasis, ad esempio e se continuasse nella consultazione, il musicista inglese di origine indiana scoprirebbe sicuramente che una fetta della storia umana di ieri (‘yesterday’, appunto) si è come improvvisamente volatilizzata in quei pochi secondi di blackout, durante i quali lui ha rischiato la vita, sbalzato dalla sua bicicletta dopo essere stato investito da un pullman che nel buio pesto non l’aveva proprio visto.

Non solo la sua agente Ellie Appleton che, insomma, una memoria musicale sviluppata dovrebbe averla, visto il ruolo che svolge la sera dietro a Jack, pur secondo rispetto a quello che pratica di giorno insegnando matematica a scuola; ma anche la coppia di amici Carol e Nick lo fissano sbigottiti quando lui, dopo essere stato dimesso ed aver eseguito la canzone del titolo, improvvisata per loro, come ringraziamento e ‘battesimo’ della nuova chitarra che gli ha appena regalato la sua agente, afferma che ‘Yesterday‘ è ‘…una delle più grandi canzoni mai scritte…‘. E loro forse interpretano la cosa come un inconsueto atto di presunzione, magari parte del percorso di convalescenza, dato il personaggio modesto e misurato che sono soliti riconoscere in lui. E quando parla dei Beatles, accalorandosi perché insistono nel sostenere la loro ignoranza, accrescono in tutti e tre i timori che quella botta abbia provocato degli effetti collaterali. Carol prova persino a citare una canzone dei Coldplay ma Jack reagisce malamente al confronto, che ritiene improponibile.

Da quel momento per Jack, che scopre in seguito di essere l’unico, o quasi, sul pianeta Terra ad aver conservato la memoria, non solo dei Beatles, perché a nominare certi personaggi, si ottengono risposte come questa: ‘…chi è Harry Potter?…‘; per non parlare poi del caso della Coca-Cola quando la chiede ad una hostess durante un trasferimento in aereo e di fronte a quel nome sconosciuto lo guarda smarrita, almeno sinché Jack accetta di buon grado una Pepsi: quest’ultima esiste ancora e vai a sapere perché lei sì e l’altra no (beh, una risposta credo si possa trovare senza grande sforzo nella categoria sponsor del film). Insomma s’immagini lo shock iniziale per Jack: tutti i dischi in vinile dei Beatles che aveva nella sua collezione personale, svaniti nel nulla, eppure lui ricorda perfettamente molte delle loro canzoni. Si tratta di farsi ricoverare per un eccesso di memoria anziché, come avviene di solito, semmai per il contrario; oppure di prendere seriamente in considerazione l’occasione straordinaria che il destino pare gli stia riservando?

Proprio a lui poi, che dopo il lavoro in un grande magazzino della distribuzione dove, a sentire il suo responsabile, è tanto simpatico ai clienti per i suoi modi gentili quanto antipatico a lui per la barba che porta e forse anche per altre motivazione meno ‘politicamente corretta’, la sera si esibisce per quattro soldi davanti a chi neppure l’ascolta, a parte Ellie ed i suoi soliti amici, nei pub del Suffolk, in Inghilterra, una contea (una sorta di precursore della provincia) nella quale la città più nota è Ipswich: non ci si deve stupire insomma, se non si è sudditi della corona britannica, nel caso in cui fosse la prima volta che si sente parlare di questa zona del Regno Unito, magari bellissima, ma meno nota di altre, almeno per me.

Sulla scelta di Himesh Patel come protagonista, qualcuno e non solo il suo capo del grande magazzino in odore di sperequazione razziale, potrebbe avanzare delle perplessità: non è bello, dopo l’incidente e senza due incisivi è anche peggio, non è famoso, il personaggio inizialmente dà continui segnali di mancanza di autostima e dopo il blackout di farsi troppi scrupoli, sia in campo musicale che affettivo; mettiamoci pure che è di origini indiane e la sua controparte femminile è un’icona femminile britannica: cioè la brava ragazza che qualunque genitore d’oltremanica vorrebbe s’accompagnasse al proprio figlio. Insomma Jack è il classico personaggio anonimo che di certo non si trasformerà mai in una personalità carismatica e quindi non si capisce cosa diavolo ci veda in lui Ellie, cioè Lily James, che ci ha stregati, prima in ‘Cenerentola‘, poi in ‘Mamma Mia! – Ci Risiamo‘, ma soprattutto ne ‘L’Amore Oltre la Guerra‘ (clicca sui titoli se vuoi leggere le mie recensioni dei tre film). Si sa che l’amore è cieco, ma stavolta pare sia stato colpito anche da un blackout, mi si perdoni la battuta. Oddio i rapporti fra Jack ed Ellie, come afferma lui stesso, sono stati a lungo fondati solo sull’amicizia ma, quasi ad avvalorare la tesi di chi sostiene che fra uomo e donna l’amicizia non esiste, se non proprio allo stadio iniziale della conoscenza, anche in questo caso se ne riceve una conferma… …(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)  Continua a leggere…

Film: ‘Wajib – Invito Al Matrimonio’ e ‘Tutti Pazzi A Tel Aviv’

WAJIB – INVITO AL MATRIMONIO 

Titolo Originale: Wajib

Nazione: Palestina

Anno: 2017

Genere: Drammatico, Commedia

Durata: 100’ Regia: Annemarie Jacir

Cast: Mohammad Bakri (Abu Shadi), Saleh Bakri (Shadi), Maria Zreik (Amal), Tarik Kopty (Abu Murad), Monera Shehadeh (Um Murad), lama Tatour (Maria)

CONTESTO NARRATIVO: Shadi è un architetto, vive e lavora in Italia ed è tornato a Nazareth per il matrimonio della sorella Amal. Shadi è legato ad una donna palestinese il cui padre è un intellettuale dell’O.L.P., ragione per cui entrambi non possono più entrare in Israele. Abu Shadi, il padre di Shadi è un insegnante ed è stato lasciato dalla moglie molti anni fa, che si è risposata in USA, dove si è trasferita. Shadi accompagna il padre a consegnare di persona gli inviti al matrimonio, come si usa in Palestina e passano di casa in casa girando con l’auto di Abu Shadi fra le strette vie, i saliscendi e le strade di grande traffico di Nazareth; intanto parlano fra loro, confrontandosi sulle rispettive opinioni. Abu Shadi vorrebbe che il figlio tornasse a casa e sposasse una ragazza del posto, mentre Shadi si sente oramai lontano dalle usanze e dalla mentalità che ancora vigono in Palestina e non vede l’ora di ripartire e tornare dalla sua donna in Italia, anche se Natale è vicino. Pur essendo un uomo pacifico, non accetta che la gente della Palestina si sia rassegnata ad essere succube degli israeliani, compreso il padre che, per ottenere il ruolo di preside, ha accettato di collaborare con un funzionario israeliano. Ora intende persino invitarlo al matrimonio della figlia, suscitando la reazione veemente di Shabi. Il matrimonio è stato fissato in un data inusuale, cioè d’inverno vicino a Natale, per favorire la partecipazione della madre, che però potrebbe essere costretta a rinunciare perché il marito è malato ed in fin di vita. Shadi e Abu Shadi hanno un duro confronto durante il quale si accusano reciprocamente, dopodiché si ritrovano a casa, dove sembra, dopo aver riflettuto, che abbiano deciso di comprendere ed accettare i rispettivi punti di vista.

VALUTAZIONE: un film schietto ma pacato, per certi aspetti illustrativo, che però mette lucidamente a fuoco, evitando la retorica ed utilizzando toni semplici ma efficaci, non solo il contrasto generazionale fra un padre ed un figlio in una delle zone geografiche più complicate della terra, ma anche la rassegnata convivenza dei palestinesi in un paese nel quale sono e si sentono subalterni agli israeliani. Il film è ambientato esclusivamente nella comunità palestinese ed è palese la sensazione di costante occupazione e di ghettizzazione culturale e sociale che la regista Annemarie Jacir intende mettere in risalto. Al tempo stesso non esita ad evidenziare le differenze, che paiono insanabili, fra il padre Abu Shadi ed il figlio Shadi. Il primo, pur consapevole del trascorrere del tempo, attraverso il matrimonio della figlia Amal, cerca di fornire una testimonianza di continuità nella tradizione. Il secondo invece non si riconosce più nell’immagine di una città sporca, dove tutto sembra immobile e nella cultura dei padri rimasta ancorata a rituali anacronistici. Mal sopporta inoltre che non ci sia comprensione e rispetto neppure per le bellezze architettoniche che rappresentano le radici storiche della Palestina, delle quali sembra si sia smarrita l’identità. Non mancano però neppure gli accenni polemici interni alla comunità palestinese nei confronti dei dirigenti dell’O.L.P. che nel corso del tempo si sono trasformati in intellettuali lontani dalle reali problematiche e condizioni del loro popolo. Un’opera premiata meritatamente in vari Festival del Cinema, poco spettacolare ma sociologicamente interessante e priva di retorica, che non ha bisogno d’immagini forti o scene madri, tanto meno di violenza, per risultare convincente. Voto:  

TUTTI PAZZI A TEL AVIV

Titolo Originale: Tel Aviv on Fire

Nazione: Lussemburgo, Belgio, Israele, Francia

Anno: 2018

Genere: Commedia, Drammatico, Sentimentale

Durata: 100’ Regia: Sameh Zoabi

Cast: Kais Nashef (Salam), Lubna Azabal (Tala), Yaniv Biton (Assi), Maisa Abd Elhadi (Mariam), Nadim Sawalha (Bassam), Salim Dau (Atef), Yousef ‘Joe’ Sweid (Yehuda), Amer Hlehel (Nabil), Laëtitia Eïdo (Maisa), Ashraf Farah (Marwan), Ula Tabari (Sarah)

CONTESTO NARRATIVO: Salam è un palestinese di Gerusalemme che non ha combinato ancora nulla di buono nella vita. La sua ragazza Mariam perciò l’ha lasciato e lui ora, grazie allo zio che ne è il produttore, collabora senza molta convinzione alle registrazioni delle puntate di una soap opera intitolata ‘Tel Aviv brucia’, molto seguita persino dalle famiglie israeliane. Per recarsi a Ramallah, dove ci sono gli studi, ogni giorno deve superare un checkpoint israeliano. In un’occasione viene fermato perché inavvertitamente nomina la parola ‘bomba’, seppure lontana dal suo vero significato e si ritrova di fronte al comandante Assi, il quale quando Salam, esagerando, gli dice che è uno sceneggiatore della famosa soap opera che sua moglie e le amiche seguono quotidianamente, cerca di carpirne alcune rivelazioni per stupire la platea di casa al suo ritorno. Non solo, dapprima Assi si limita a dare alcuni suggerimenti e poi addirittura a contribuire fattivamente ai dialoghi ed allo sviluppo della storia. Portando quelle nuove idee sul set, spacciandole per sue, Salam provoca la reazione della sceneggiatrice che abbandona la trasmissione e lo zio gli affida l’incarico di sostituirla. La collaborazione fra Salam e Assi quindi diventa quotidiana, anche se la produzione palestinese vorrebbe dare alla soap opera un indirizzo decisamente rivoluzionario mentre il comandante punta ad una impronta buonista ma filo israeliana. Salam quindi si ritrova a fronteggiare le crescenti richieste di Assi che lo ricatta e addirittura lo fa catturare dai suoi uomini quando cerca di smarcarsi e poi lo minaccia puntandogli la pistola alla testa, se dovesse rifiutarsi di scrivere la sceneggiatura seguendo le sue direttive. Il finale che vorrebbe Assi contrasta apertamente con quello pensato dalla produzione, ma Salam nel frattempo ha maturato una fervida creatività ed ha in mente una conclusione alternativa che accontenta le contrapposte posizioni e gli permette persino di riconquistare Mariam, piacevolmente stupita dalla svolta concreta che Salam ha dato alla sua vita.  

VALUTAZIONE: è davvero inaspettata e piacevolmente sorprendente questa produzione che tenta di mediare gli opposti schieramenti, le esigenze e gli obiettivi dei palestinesi e degli israeliani, persino riguardo una questione minimale come la sceneggiatura di una soap opera, utilizzando un tono leggero e spesso anche divertente. Il film di Sameh Zoabi, pur senza sminuire le enormi problematiche in essere, che la semplice vista del checkpoint ricorda ogni giorno, ha il pregio di mettere in risalto, senza la necessità di utilizzare scene di violenza e di sangue, le contraddizioni che ancora affliggono entrambi i popoli. I quali vivono a stretto contatto, condividono e si appassionano persino alla stessa trasmissione TV, ma non riescono a risolvere i problemi fondamentali della loro coesistenza pacifica. L’alternanza delle scene girate nel corso della soap opera e quelle che vede la presenza di Salam sul set o gli incontri con il comandante Assi per discutere i particolari e gli sviluppi della stessa, è una sorta di metafora dei contrasti e delle incomprensioni che tuttora dividono la comunità israelo-palestinese. Il film perciò, pur senza svilire gli storici contrasti fra i due popoli, tenta umilmente ma con successo di proporsi come opera di formazione, che mette al centro il dialogo, un elemento fondamentale per la riuscita di qualsiasi relazione sentimentale a detta degli stessi protagonisti ed a maggior ragione non dovrebbe mai mancare anche per risolvere situazioni ed esigenze di ben più grande portata.  Voto:  

Quando si parla di israeliani e palestinesi vengono subito in mente drammatiche immagini, storici conflitti ed un nodo irrisolto da quasi un secolo oramai per la comunità internazionale e quindi guerre, attentati, bombardamenti, distruzione e morti. Un campionario di orribili situazioni che si vorrebbe prima o poi avessero una fine. Nel frattempo, due popoli devono convivere, diciamo pure da posizioni molto diverse, per potere economico e militare. Torti e ragioni probabilmente stanno da entrambe le parti ed ancora di più i primi appartengono a terze parti, ma non è questa la sede nella quale approfondirne la natura e le possibili soluzioni, anche se i due film che vado a descrivere, pur nei loro limiti, alcuni spunti li offrono eccome.

Semmai non ti aspetteresti due opere cinematografiche come quelle che mi sono permesso di associare, dopo averle viste una dopo l’altra. Sono fra loro molto diverse, intendiamoci. La prima privilegia aspetti di natura sociologica e generazionale, anche molto seri ed importanti, pur usando toni lievi ed è ambientata interamente dentro la comunità palestinese della quale rappresenta uno spaccato, fra le poche gioie, i molti dolori, contraddizioni e ambiguità. La seconda invece è una commedia di costume, con evidenti tratti metaforici ed anche qualche ambizione, pur celata dietro una confezione apparentemente superficiale, come può esserlo una soap opera, nell’evidenziare l’assurda perseveranza di un atteggiamento di reciproco distacco e rifiuto fra palestinesi ed israeliani che, più passa il tempo e meno avrebbe molteplici ragioni e convenienze di esistere, trattandosi di due comunità che volenti o nolenti dovranno convivere, condividendo persino le stesse trasmissioni televisive, che però suscitano, come in questo caso, analoga partecipazione e reazioni popolari. In ‘Tutti Pazzi a Tev Aviv‘ ci si diverte, spesso si ride pure, ma dietro l’apparente banalità della trama c’è un messaggio che le rispettive parti in causa sarebbe opportuno che cogliessero, prima o poi.  Ovvio che se uno impone e l’altro subisce; se uno o entrambi rifiutano a livello politico e sociale qualsiasi dialogo, una parola simbolo, che viene pronunciata più volte significativamente nel corso del film, il risultato non potrà che portare ad ulteriori lutti e ad alimentare la distanza e l’odio reciproci. 

Problemi sul tappeto ce ne sono tanti, non c’è neanche bisogno di ribadirlo ed entrambi i film, in modi diversi, ne mettono in luce solo alcuni: ad iniziare dai diversi e sproporzionati rapporti di forza, che è una delle ragioni che ha spinto Shadi, dopo la laurea, ad emigrare. Doveva andare negli Stati Uniti dove vive la madre, nonostante l’abbia abbandonato assieme alla sorella Amal quando erano ancora molto piccoli, separandosi dal loro padre Abu Shadi, un insegnante con il quale evidentemente non riusciva più ad andare d’accordo e continuare a vivere. Una fuga che aveva fatto scalpore a suo tempo all’interno della loro comunità. Shadi invece è venuto in Italia, dove ha stretto una relazione con Nada, figlia di un intellettuale dell’O.L.P.. Il padre non ha mai approvato entrambe queste decisioni del figlio: sia di lasciare la Palestina che di legarsi con quella ragazza, il cui genitore a suo dire fa la bella vita in giro per il mondo a spese della comunità palestinese e quindi anche sue, ma ha perso il senso e la misura dei problemi che affliggono chi continua a sopravvivere alla bell’e meglio invece in quei travagliati territori.

Curiosità vuole che gli attori che interpretarno Shadi (Saleh Bakri) e Abu Shadi (Mohammad Bakri) siano figlio e padre anche nella vita reale, non solo sul set del film ‘Wajib – Invito Al Matrimonio‘, quindi è probabile che finzione e realtà non siano poi così distanti. Entrambi sono stati premiati al Festival internazionale del Cinema di Dubai. A proposito, la parola ‘wajib’ significa ‘dovere’ e fa riferimento alla tradizione palestinese secondo la quale il padre ed i fratelli di una sposa devono consegnare personalmente gli inviti di nozze. Il che è tutt’altro che agevole in una città come Nazareth, che ha tutto un altro aspetto rispetto all’iconografia natalizia di solito tramandata dalla religione cattolica: soldati israeliani armati che girano per la città come padroni, traffico caotico, superstrade nella parte più moderna dell’abitato che si alternano alle strette vie di quella storica, dove ci passa a stento un’automobile, saliscendi, parcheggi arrangiati ed a rischio di atti vandalici e rifiuti urbani che stazionano a lungo ai bordi delle strade facendo felici i topi, come afferma Shadi rivolto al padre. Oltre al fatto che quest’ultimo, reduce da un intervento al cuore, si affatica facilmente, specie a salire le scale dei palazzi per raggiunge i piani più alti dove risiedono alcuni invitati. 

Abu Shadi non è però un uomo di mentalità arcaica. E’ un insegnante apprezzato all’interno della sua comunità, che ha subito l’umiliazione dell’abbandono da parte della moglie e madre dei suoi due figli (le intime ragioni non ci vengono rivelate). C’ha messo molto tempo per farsene una ragione e perdonarla, come afferma lui stesso, ma ora in occasione del matrimonio della figlia Amal è determinato affinché la cerimonia si svolga nel migliore dei modi e nel rispetto delle tradizioni, persino riguardo la scelta del cantante che si esibirà durante la festa, mentre Shadi vorrebbe che fosse ingaggiata una band più moderna di sua conoscenza. Ha persino spostato la data per favorire la partecipazione dell’ex moglie. Abu Shadi è riuscito con grandi sacrifici a crescere da solo i due figli. Avrebbe preferito che Shadi si laureasse in medicina, mentre invece ha preferito architettura, una facoltà che ai più vecchi amici di famiglia sembra stravagante e durante le visite per consegnare i biglietti d’invito al matrimonio ripete spesso, nonostante il figlio neghi, che Shadi tornerà in Palestina e sposerà una ragazza del posto, magari una delle loro figlie. Essendo un giovane di bell’aspetto, alcune fra queste giovani donne se lo mangiano con gli occhi; come quella, forse una fiamma di qualche anno prima, che addirittura cerca di sedurlo, lasciandogli poi del rossetto di fianco al labbro, come gli fa notare, senza aggiungere allusioni, lo stesso padre poco dopo in auto… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)  Continua a leggere…

Serie TV e Film: ‘Downton Abbey’

DOWNTON ABBEY – Serie TV (Sei Stagioni)

Titolo Originale: Omonimo

 Nazione: Regno Unito

Anno:  2010-2015

Genere:  Commedia, Drammatico, Costume, Storico

Durata: 50’ circa per ciascuno dei 52 episodi  Regia: Autori Vari  Ideatore: Julian Fellowes

Cast: Maggie Smith (Violet Crawley, Contessa Madre di Grantham), Hugh Bonneville (Robert Crawley, Conte di Grantham), Elizabeth McGovern (Cora Crawley nata Levinson, Contessa di Grantham), Michelle Dockery (Lady Mary Crawley), Laura Carmichael (Lady Edith Crawley), Jessica Brown-Findlay (Lady Sybil Crawley), Allen Leech (Tom Branson), Jim Carter (Signor Charles ‘Charlie’ Carson), Brendan Coyle (John Bates), Joanne Froggatt (Anna Smith), Siobhan Finneran (Signora Sarah O’Brien), Thomas Howes (William Mason), Rob James-Collier (Thomas Barrow), Rose Leslie (Gwen Harding nata Dawson), Phyllis Logan (Elsie Hughes), Sophie McShera (Daisy Mason nata Robinson), Lesley Nicol (Beryl Patmore), Dan Stevens (Matthew Crawley), Penelope Wilton (Isobel Crawley nata Turnbull), Amy Nuttall (Ethel Parks), Kevin Doyle (Joseph Molesley), Matt Milne (Alfred Nugent), Ed Speleers (James ‘Jimmy’ Kent), Lily James (Lady Rose Aldridge nata MacClare), David Robb (Dottor Richard Clarkson), Cara Theobold (Ivy Stuart), Raquel Cassidy (Phyllis Baxter), Tom Cullen (Anthony ‘Tony’ Foyle, Visconte Gillingham), Julian Ovenden (Charles Blake), Michael Fox (Andrew ‘Andy’ Parker), Matthew Goode (Henry Talbot), Iain Glen (Richard Carlisle), Harry Hadden-Paton (Herbert ‘Bertie’ Pelham, Marchese di Hexam)

DOWNTON ABBEY – IL FILM

Titolo Originale: Omonimo

 Nazione: Regno Unito

Anno:  2019

Genere:  Commedia, Drammatico, Costume, Storico  

Durata: 122′   Regia: Michael Engler

Cast: vedi sopra la Serie TV ed in più – Imelda Staunton (Lady Maud Bagshaw), Penelope Wilton (Lady Isobel Gray, Baronessa Merton), Mark Addy (Sig. Bakewell), Max Brown (Richard Ellis), Stephen Campbell Moore (Maggiore Chetwode), Richenda Carey (Sig.ra Webb), David Haig (Sig. Wilson), Andrew Havill (Lord Henry Lascelles, Conte di Harewood), Geraldine James (Regina Maria), Simon Jones (Re Giorgio V), Susan Lynch (Sig.ina Lawton), Tuppence Middleton (Lucy Smith), Kate Phillips (Principessa Mary, Contessa di Harewood), Douglas Reith (Lord Richard Gray, Barone Merton)

CONTESTO NARRATIVO: la storia della famiglia Crawley prende forma dalla data di affondamento del Titanic, il 15 aprile 1912, nel cui naufragio resta vittima il cugino Patrick, promesso sposo di Mary, primogenita del conte Robert e della contessa Cora di Grantham, proprietari del castello e della tenuta di Downton Abbey nello Yorkshire, che però hanno avuto ‘solo’ tre figlie femmine. Secondo tradizione, regole e volontà del padre di Robert, la successione può andare esclusivamente ad un maschio e quindi l’eredità passa ad un altro lontano cugino, Matthew che vive ignaro a Manchester con la madre Isobel e di mestiere fa l’avvocato, che a quei tempi, era considerato un lavoro disdicevole per un aristocratico. Quest’ultimo per giunta è di opinioni liberali ed il suo approccio con la famiglia Crawley, abituata a rituali nobiliari consolidati ed irrinunciabili, è rispettoso ma determinato a non adeguarvisi. Mary, in particolare, assume un atteggiamento freddo e distaccato nei suoi confronti, mentre sua nonna Violet cerca in tutti i modi di trovare una scappatoia, anche legale, a quella che considera una iattura. Nel frattempo l’irreprensibile maggiordomo Signor Carson, assieme alla Signora Hughes, gestisce la servitù al piano sottostante, con rigore e precisione, osservando scrupolosamente le secolari abitudini della casa, nonostante nel personale in alcuni casi serpeggiano invidie, gelosie, ostilità, mentre altri si distinguono per la correttezza ed anche la passione. A Downton Abbey sono di norma i ricevimenti, le battute di caccia e le sfarzose feste ed a seguito di una di queste, Mary viene sedotta da un affascinante diplomatico turco che però, durante la foga amorosa, muore d’infarto. Lo scandalo viene taciuto solo grazie all’intervento della madre Cora e della fedele domestica Anna Smith che trasportano il cadavere dalla camera di Mary a quella dell’ospite, ma in seguito qualcuno che ha notato quella scena fa trapelare la notizia ed i sospetti, che giungono sino a Londra, compromettendo l’immagine pubblica di Mary. La quale ha da sempre un atteggiamento critico e polemico con la sorella minore Edith, meno avvenente e sentimentalmente sfortunata, mentre la più piccola Sybil è molto bella ma di carattere ribelle agli stereotipi di famiglia. Al servizio dei Crawley, come autista, viene assunto Tom Branson, che però in seguito non fa nulla per nascondere di essere un nazionalista irlandese contrario alla monarchia e favorevole all’indipendenza. Fra lui e Sybil nasce, sui temi civili, una simpatia che si trasforma in poco tempo in un sentimento profondo. Nella servitù intanto è nato un sentimento fra la domestica Anna ed il valletto John Bates, un vecchio compagno d’arme di Robert Crawley rimasto zoppo in guerra, al quale il conte di Grantham sta cercando di dare lavoro e alloggio. John però è sposato, seppure separato da tempo con una donna cinica e crudele ed oltretutto è oggetto dell’invidia di Thomas Barrow che punta a soffiargli il posto e la Sig.ra O’Brien lo spalleggia, ricattata a sua volta da quest’ultimo. A farsi carico di zittire le voci, sempre più insistenti, che girano a Londra sul conto di Mary, si propone di diventarne il marito Sir Richard Carlisle, un ricco e spregiudicato uomo d’affari, temuto proprietario di un giornale che per vincere le sue resistenze acquista la tenuta di Haxby Park, poco distante da Dowton Abbey, cercando di convincere il Signor Carson a trasferirsi per diventarne il maggiordomo, avendo compreso la stima e l’attaccamento che ha Mary per lui, il quale la ricambia con affetto, essendo la sua preferita sin da bambina. Gli avvenimenti si susseguono a ciclo continuo per tutti i protagonisti, nel bene e nel male, mentre Violet non perde occasione per snocciolare le sue irresistibili battute, perlopiù caustiche ma sempre argute. I rapporti fra Mary e Richard però intanto si raffreddano, mentre salgono agli occhi di lei, pur senza dichiararlo apertamente, le quotazioni di Matthew, anche se nel frattempo si è fidanzato con la delicata Lavinia. La guerra del 1915-18 sconvolge comunque persone e cose, anche di Downton Abbey, che diventa almeno in parte un ricovero per feriti di guerra e persino la ‘spagnola’ poi colpisce duramente anche la casa Crawley. Siamo solo all’inizio di una storia che riserva ancora innumerevoli avvenimenti, colpi di scena, sorprese, anche lutti, personaggi che escono di scena ed altri che invece subentrano, senza che sia negato comunque il lieto fine per molti dei protagonisti. Il film, a sua volta, è incentrato sulla visita del re Giorgio V e della regina Maria di Edimburgo e sulla ribellione della servitù di casa alle assurde pretese dei corrispondenti servitori di corte che pretendono di sostituirli nella straordinaria occasione per Downton Abbey. Il tempo passa però anche per Violet purtroppo e la vecchia nonna confida a Mary di considerarla la sua erede naturale, per carattere e personalità, nel perseguire la continuità dei Crawley e della loro amatissima Downton Abbey, nonostante le evidenti difficoltà ed i cambiamenti epocali in corso.  

VALUTAZIONE COMPLESSIVA: una straordinaria ed appassionante saga familiare ambientata nei primi trent’anni del secolo scorso nel Regno Unito. Un termine di paragone per il genere di appartenenza e per la sorprendente capacità di trasformare elementi generalmente considerati in modo negativo (smaccato tradizionalismo, sdolcinato romanticismo, stucchevole immobilismo e prevedibili sviluppi), in una brillante, coinvolgente ed irresistibile celebrazione di uno stile e di un’epoca che travolgono ogni critica e perplessità. Il film è il ‘sequel’ della serie TV, che ha raccolto messe di premi ed appassionato milioni di fan, della quale conserva tutte le particolarità. Una storia ambientata per gran parte nella dimora nobiliare del titolo e che vuole rappresentare l’orgoglio ma anche la fine di un’epoca per l’aristocratica famiglia Crawley, nonostante il faticoso tentativo di dare continuità al maestoso castello ed alla grande tenuta intorno, oltreché per i costi di mantenimento che sono diventati sempre più esorbitanti. L’anacronismo dei raffinati rituali secolari, intorno ai quali ferve comunque l’opera di una numerosa servitù e mezzadria, è al tempo stesso un quadro rappresentativo delle stratificazioni sociali dell’epoca e delle relative contraddizioni ed ingiustizie. I rapporti fra i Crawley ed i servitori, in questo caso, nonostante le differenze di classe e di cultura, sono contrassegnati da un reciproco rispetto, che in molte situazioni si trasforma addirittura in affetto, complicità e riconoscenza in senso bidirezionale. Un microcosmo della società, certamente edulcorato e tagliato con l’accetta nel suddividere nettamente i buoni dai cattivi ed i due mondi ‘sopra e sotto’, che si sviluppa in un’inesauribile serie di avvenimenti, supportati da una costante eleganza formale ed una galleria di personaggi inappuntabili. Fra i quali spicca quello, da manuale, interpretato da Maggie Smith con le sue irresistibili battute e la tipica ironia caustica inglese. Imperdibile! Voto:               

…Non ho mai insultato nessuno. Semplicemente li descrivo con accuratezza…‘ (Lady Violet Crawley)

Che si arrivi a dire, subito dopo aver assistito a sei stagioni, cinquantadue puntate ed un film di due ore, che si prova già nostalgia per una storia la quale purtroppo sembra sia davvero conclusa, può sembrare e lo capisco, un chiaro segnale di predisposizione all’auto flagellazione. Eppure eccomi qui, già orfano di una delle serie TV più piacevoli e rilassanti che si possano trovare, il cui successo planetario di pubblico ed il numero di premi ricevuti (11 Emmy, corrispondenti ai premi Oscar per le serie TV e 3 Golden Globes) non potrebbero essere più meritati. E dire che quando mi ci sono imbattuto, quasi per caso scorrendo i titoli disponibili su una nota piattaforma streaming (l’unica, mi pare, dove è attualmente disponibile), mi ha incuriosito e l’ho iniziata quasi per giustificare la spesa d’attivazione del servizio, pronto ad abbandonarla però se non mi avesse convinto sin dalla prima puntata.

E’ stato invece come mettere in bocca una bella ciliegia di Vignola o un cioccolatino fondente (a me piace così): inevitabilmente ne prendi un altro e poi un altro ancora e se non te li tolgono dalla vista e dalle mani, non smetti più. E’ iniziata quindi una sorta di maratona che, mi vergogno quasi ad ammetterlo, mi ha fatto divertire molto, nonostante fossi stato lasciato solo, seppure comodamente seduto sul divano del salotto di casa ad affrontare l’impresa, senza correre quindi il rischio d’incappare nello sguardo stupito e compassionevole di qualcuno intorno. Così mi sono ritrovato quasi senza aver avuto modo di evitarlo, a dare sfogo a sentimenti che di solito si cerca di tenere nascosti, per un’errata espressione d’orgoglio, specie in presenza o di fronte ad altri, per quanto siano semplici, comprensibili e comuni: sofferenza, gioia, delusione, dolore, passione e via di sostantivi simili, per giunta associabili a più personaggi fra quelli rappresentati. Che poi, quale altro scopo dovrebbe avere uno spettacolo di questo tipo? 

Il risultato è stato che al termine della serie TV (il film era ancora di là da venire) ho proposto a mia moglie, che è solita preferire il genere alla C.S.I.: cioè per intenderci, assassinii, processi, giudici e avvocati, di rivederla assieme. La sua espressione è stata un misto d’incredulità (sul fatto che volessi ricominciare da zero tutte e sei le stagioni) e di scetticismo, molto più vicina al rifiuto che all’assenso, ma forte dell’esperienza già testata su di me, l’ho convinta, con la promessa di liberarla da ogni ulteriore obbligo nel caso, al termine della prima puntata, mi avesse mostrato il pollice giù. Sapete com’è andata a finire? Beh, le cinquantadue puntate se l’è bevute tutte, una dietro l’altra (insomma, non esageriamo, a gruppi dai…) e per me sono diventate centoquattro! E non avevamo ancora visto il film, che è un ‘sequel’, una sorta di passerella dei personaggi che sono arrivati in fondo alle sei stagioni, ma con una storia sua, per nulla inutile, che continua e completa quella della Serie TV, lasciando poi quel rimpianto cui accennavo innanzi…

Al di là del tono scherzoso utilizzato sin qui, mi sono meravigliato di me stesso, perché generalmente non amo le storie zuccherose, le altezzosità nobiliari, i rituali tradizionalisti e quel modo affettato che è tipico di certi ambienti refrattari ad ogni cambiamento di natura morale e sociale e spesso anche arroganti nel pretendere di conservare i privilegi e di contare su diritti e doveri diversi dal resto dei comuni mortali, forti dell’illusione che gli scorra sangue blu nelle vene. Eppure ‘Downton Abbey‘ è un monumento a tutto questo! Allora come la mettiamo? Sono io ad avere cambiato opinione al riguardo oppure, come il giovane Mowgli davanti al serpente ne ‘Il Libro della Giungla‘, mi sono fatto ammaliare con abili parole ed anche da personaggi e situazioni costruiti ad arte?

Niente di tutto ciò. Diciamo semmai che l’applauso va innanzitutto a Julian Fellowes, cioè l’ideatore di questa saga, uno scrittore che avevo già piacevolmente incontrato come raffinato autore del romanzo ‘Un Passato Imperfetto‘ (clicca sul titolo se vuoi leggere la mia recensione), non a caso ambientato nell’ambito dell’aristocrazia inglese, che evidentemente conosce molto bene. Fellowes è stato sceneggiatore inoltre del film ‘The Tourist‘ (clicca, anche qui, se… ecc. ecc.) e premio Oscar per la sceneggiatura di ‘Gosford Park‘ di Robert Altman, che vede protagonista la stessa Maggie Smith, la cui presenza nel personaggio di Lady Violet Crawley è fondamentale in ‘Downton Abbey‘. Non solo, si può dire che è uno dei rari casi nei quali il personaggio (e l’attrice che lo interpreta) partito nel ruolo che ai premi Oscar è categorizzato come ‘non protagonista’, in realtà puntata dopo puntata si conquista la scena, al punto da poter affermare in tutta certezza che, senza di lei, l’intera serie TV non sarebbe stata la stessa cosa.

Lady Violet è infatti il personaggio attorno al quale in realtà gira tutto il ménage della famiglia Crawley, anche se loro spesso se ne accorgono soltanto dopo. Perfino quando viene tenuta all’oscuro di qualcosa, si sa già che poi sarà lei a tirare i fili che muovono gli avvenimenti ed i vari personaggi coinvolti. Altezzosa, intrigante e conservatrice, eppure non si riesce proprio a prenderla in antipatia, riconoscendo il lei carisma e talento cristallini. Le sue battute, veri e propri aforismi, non sono solo un insieme elegante di parole ma autentiche stilettate, nella migliore tradizione dello humour caustico inglese ed ognuna di esse meriterebbe di essere annotata e poi custodita. I suoi duelli verbali con la cugina Lady Isobel, sua spalla, rivale e compagna di salotto sono d’impareggiabile ironia ed efficacia. Un esempio? Lady Isobel: ‘…come detestate avere torto…‘; Lady Violet: ‘…non saprei. È una cosa di cui non ho esperienza…‘.

Lady Violet è una sorta di baluardo, forse l’ultimo di una famiglia di nobili tradizioni e di un’epoca che volge inesorabilmente al tramonto: vuoi perché i tempi cambiano nonostante c’è chi preferirebbe che ciò non avvenisse mai; vuoi perché stanno per giungere momenti duri, anche per il Regno Unito, con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e poi con la falcidie della terribile influenza ‘spagnola’; vuoi per il crollo economico-finanziario del 1929, seppure la vicenda si chiude alla vigilia e forse non sapremo mai cosa avrebbe riservato il destino, in seguito a ciò, per Donwton Abbey ed i Crawley; vuoi infine perché mantenere un castello ed una tenuta di quelle dimensioni e la numerosa servitù necessaria, comporta oneri economici che diventano sempre più difficili da sostenere per la famiglia… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

Film: ‘Metti Una Notte’ e ‘L’Ospite’

METTI UNA NOTTE

Titolo Originale: omonimo

Nazione: Italia

Anno: 2017

Genere: Commedia

Durata: 87’ Regia: Cosimo Messeri

Cast: Cosimo Messeri (Martino), Cristiana Capotondi (Gaia), Amanda Lear (Lulù), Flavia Mattei (Linda), Elena Radonicich (Tea), Marco Messeri (Il Grande Stellini), Massimiliano Gallo (Vincenzo Cafoni), Giovanni Ludeno (Tonino Cafoni), Maurizio Lombardi (Renato), Dario Cantarelli (Amedeo), Luca Biagini (Il Comandante Cafiero), Sergio Bustric (Il Ventriloquo), Elio Pandolfi (Lo Zio Fulvio)

CONTESTO NARRATIVO: Martino è un entomologo (studioso degli insetti) di ritorno a Roma dalla Svizzera a seguito di una delusione amorosa. All’aeroporto è protagonista di un risibile episodio a causa di un irrefrenabile bisogno corporale, per risolvere il quale si finge portatore di handicap e quindi viene trasportato in ambulanza e carrozzella sino a casa dello zio Fulvio, un personaggio eccentrico. Quest’ultimo è solito passare le serate con una paio di coppie di amici e scommettere soldi in un gioco basato sull’uso ad incastro delle parole. Ricevuta una telefonata da una delle sue coppie, lo zio chiede al nipote di fare da baby sitter per una sera a casa loro, in compagnia di Linda, la loro bambina. La baby sitter abituale infatti, Gaia, per quella sera è impegnata in una partita di volley. Nel viaggio in un’auto quasi d’epoca, che gli ha prestato dallo zio, s’imbatte ad un semaforo, quasi investendola, in Tea, una vecchia fiamma di gioventù che stenta a riconoscerlo ma infine si fa lasciare sullo smartphone il suo numero di telefono. Quando giunge a destinazione, Martino scopre che in realtà c’è soprattutto Lulù, una nonna scatenata e svampita da tenere a bada. Poco dopo riceve la telefonata di Tea che lo prega di aiutarlo, questione di vita o di morte, indicandogli l’indirizzo di casa dei suoi genitori dove ritirare una busta con dei soldi che deve consegnare assolutamente ai gestori di un locale notturno che la tengono prigioniera. Ma quest’ultimo particolare a Martino non lo rivela. Lui quindi si presta ad aiutarla, ma la bambina e soprattutto sua nonna non ne vogliono sapere di lasciarlo andare da solo. Per l’anziana donna infatti è un’insperata opportunità per passare una serata avventurosa e diversa. In realtà Tea si sta prendendo gioco di Martino, il quale ingenuamente crede che la sua richiesta possa essere l’inizio di un’intesa, insperata ai tempi dell’oratorio. E’ l’inizio di una serie di episodi, equivoci e rischi di finire vittima della malavita romana che Martino riesce a superare indenne, nonostante i suoi limiti caratteriali, grazie anche all’aiuto di Gaia che s’aggiunge al terzetto chiamata in soccorso da Linda e con la quale, dopo un’iniziale indifferenza, scopre di avere affinità che lasciano ben sperare negli sviluppi, dopo aver liquidato la cinica ed opportunista Tea. 

VALUTAZIONE: un’opera leggera che parte male, con una gag di stampo televisivo, neanche originale, ma poi un po’ alla volta sale di livello, pur rimanendo una storia di puro intrattenimento senza pretendere chissà che. Grazie ad alcune battute divertenti ed un protagonista che sembra una sorta di Woody Allen di casa nostra, il plot vira dalla commedia al giallo-thriller all’acqua di rose, cui partecipano anche una spassosa e rediviva Amanda Lear ed una serie di personaggi ben assortiti. Insomma al termine non ci si sente defraudati del tempo trascorso, semmai discretamente intrattenuti, sicuramente oltre le aspettative iniziali. Cosimo Messeri figlio, attore e regista, fa ben sperare e Marco Messeri suo padre, interpreta un personaggio fra i più divertenti e riusciti del film. Cristiana Capotondi, a sua volta, è una garanzia. Voto:  

L’OSPITE

Titolo Originale: omonimo

Nazione: Francia, Italia, Svizzera

Anno: 2018

Genere: Commedia, Drammatico

Durata: 94’ Regia: Duccio Chiarini

Cast: Daniele Parisi (Guido), Silvia D’Amico (Chiara), Anna Bellato (Lucia), Thony (Roberta), Daniele Natali (Dario), Sergio Pierattini (Alberto), Milvia Marigliano (Gioietta), Guglielmo Favilla (Pietro)

CONTESTO NARRATIVO: Guido e Chiara vivono felicemente assieme da tempo, perlomeno sino a quando, per colpa di un preservativo difettoso, si pone il problema della possibile maternità. Spaventato dall’eventualità del ruolo di padre, il rapporto con Chiara subisce un contraccolpo ed è lei a prendere la decisione di chiedere a Guido di andarsene di casa. Guido in realtà ne è ancora innamorato e spera che la richiesta di Chiara di lasciargli un po’ di tempo per riflettere, la convinca a riconsiderare i suoi propositi, mentre invece lei è già convinta della necessità di cambiare vita, in un’altra città e paese estero, essendo fluente nelle lingue, poiché ha svolto sino a quel momento il ruolo della guida turistica per stranieri. Guido, dopo essere tornato a casa dei genitori per qualche giorno, non sopporta l’ansia che, soprattutto la madre, gli sta mettendo addosso, anziché aiutarlo a superare il brutto momento. Pertanto decide di chiedere ospitalità ad una coppia di amici prima e ad un’altra poi, scoprendo così che a loro volta sono in balia di varie problematiche, tradimenti inconfessati o confessati tardivamente e rapporti sopportati per convenienza. Insomma da varie contraddizioni, incluso il tentativo poco convinto di Guido, che fallisce alla prova del letto, d’iniziare un nuovo rapporto con un’altra donna. Dopo un ultimo e fragile tentativo di recuperare il rapporto con Chiara, non resta loro che salutarsi amichevolmente.  

VALUTAZIONE: un’opera che intende affrontare in toni leggeri ma non banali il tema della difficoltà di affermazione personale e di relazione nelle coppie dei trentenni/quarantenni attuali, spesso in preda alla confusione ed alla paura di assumersi responsabilità, quindi costantemente irrisolte, specie i maschi che risultano decisamente più immaturi. Il limite del film di Duccio Chiarini, che offre spesso dialoghi non privi d’interesse, persino divertenti e situazioni che però rappresentano cliché già noti e battuti, sta nel fatto però che in realtà non porta a nulla, finisce quasi per inerzia, dopo aver a lungo tergiversato, attraverso la figura del protagonista, il quale si appoggia su coppie di amici sin troppo ospitali, che si rivelano però alla luce dei fatti forse ancora più indecise ed immature di lui. A differenza del film di Cosimo Messeri, ‘L’Ospite’ parte da un’idea curiosa, che promette bene per una mezzora, per poi però sgonfiarsi un po’ alla volta come un palloncino bucato. Da sufficienza stiracchiata, insomma, ma il regista, aggiustando il tiro, può fare molto meglio. Voto:

Ho volutamente messo in parallelo questi due film nostrani, che di certo non appartengono alla categoria degli indimenticabili e neppure, presumo, ne avevano l’ambizione, ma neanche di finire fra quelli che ti viene la voglia di abbandonare a metà, perché pur appartenendo entrambi al genere della commedia (sì, certo, ‘L’Ospite‘ affronta tematiche che possono figurare anche nella categoria del genere drammatico, ma comunque leggero) rappresentano l’occasione per misurare due opposti e due similitudini al tempo stesso. Non sembri un gioco di parole.

Metti una Notte‘ parte infatti con una gag che francamente sembra preludere ad una comicità piuttosto mediocre, peraltro pare persino copiata di sana pianta da una serie ‘comedy’ inglese, intitolata ‘The IT Croud‘. Il protagonista, che in questo caso è anche il regista del film, avendo l’impellenza di soddisfare un bisogno corporale proprio mentre l’aereo nel quale viaggia dalla Svizzera a Roma sta per atterrare (manco fosse alla fine di un volo transoceanico di ore ed ore, o abbastanza anziano da soffrire di problemi di resistenza vescicale da ipertrofia prostatica, comunque sia senza motivo per non essersi mosso per tempo, prima di arrivare a quel punto: ma lasciamo perdere queste ovvie obiezioni alla sceneggiatura), per cominciare si fa riprendere in malo modo da una hostess. Finalmente a terra poi, lo vediamo correre lungo i corridoi e le scale dell’aeroporto romano alla ricerca spasmodica di una toilette. Che trova ovviamente occupata, ma appena si libera di fianco quella dei portatori di handicap, s’infila dentro e quindi, essendo maldestro, prendendola per quella dello scarico, tira la funicella dell’allarme e gli addetti sono costretti ad intervenire per liberarlo. Non potendo però giustificare l’uso improprio di quel bagno, si finge a sua volta invalido e si fa trasportare in carrozzina e quindi caricare su di un’ambulanza sino a casa dello zio, spaventato nel ritrovarlo così conciato, sinché non coglie dai segni del nipote la natura simulata della menomazione. Insomma, una serie di situazioni sin qui una più strampalata ed incredibile dell’altra.

Dal canto suo invece ‘L’Ospite‘ inizia come se si trattasse di un film porno, con la testa di Guido fra le gambe di Chiara, sdraiata e nuda sul letto. Un’introduzione, in tutti i sensi, che non t’aspetti in un film del genere ma che dura pochi secondi, perché poco dopo lui emerge con in mano un preservativo, ahimè bucato, appena estratto perché era rimasto ‘dentro’, ma con tutte le conseguenze che ciò oramai potrebbe comportare. Il che però induce i due protagonisti, che sino a quel momento hanno basato la loro relazione sul concetto di ‘carpe diem’, a mettere in discussione il loro rapporto e mentre Chiara sarebbe disposta ad accettare la maternità e dare una svolta alla sua vita, Guido invece si sente soffocare, preso al collo dalle responsabilità che ne conseguirebbero. Il risultato di questo confronto è che Chiara, di punto in bianco si rende conto che non è con Guido che intende progettare il suo futuro e quindi gli chiede di lasciarla sola per qualche tempo per concederle la classica pausa di riflessione. Ma si sa poi come va a finire in casi del genere, novantanove volte su cento…

Fra i due film, sinora quello sul quale si potrebbe puntare di più è certamente quest’ultimo. I due opposti riguardano quindi l’incipit delle due opere che in un caso sembra prospettare sviluppi piuttosto insignificanti rispetto all’altra. Ma qualcosa cambia nel prosieguo, seppure ‘Metti una Notte‘ resta comunque nell’alveo della commedia scherzosa, surreale e sognante, mentre ‘L’Ospite‘ è certamente più ambizioso, trattando temi che hanno a che fare con la sociologia generazionale, con ampi spazi all’ironia, all’autocommiserazione ed alla rassegnazione al tempo stesso, senza trascurare di prendersi pure un po’ in giro. D’altronde lo stesso regista Duccio Chiarini appartiene alla categoria dei trentenni/quarantenni che, a dar retta alla sua opera, pare che spesso manifestino problematiche simili.

Nonostante Chiara, la sua compagna, o per meglio dire prossima ex, si sia adattata a svolgere il mestiere di guida ai turisti stranieri grazie alla padronanza della lingua inglese, anche se sogna più in grande, è Guido in realtà a condurci, suo malgrado ed utilizzando una curiosa prospettiva, cioè i divani di chi si offre di ospitarlo dopo la rottura con Chiara, in un tour sui malesseri che attanagliano soprattutto gli uomini della sua età, in genere nella loro vita, ma soprattutto nelle relazioni sentimentali, ancora gestite con una mentalità adolescenziale e goliardica, lontana cioè dall’assumersi responsabilità e comportamenti adeguati per stabilire legami maturi e stabili, come in realtà desidererebbe, almeno nel suo caso.  

L’opera prima di Cosimo Messeri, dal canto suo (e qui scattano le similitudini, che riguardano in particolare i due protagonisti maschili) propone questa figura di entomologo un po’ svampito, di nome Martino, tanto bravo presumibilmente con gli insetti quanto imbranato con il genere umano, specie in ambito amoroso, il quale incontra, per pura casualità, quella che crede di riconoscere in Tea, la compagna d’oratorio di molti anni prima, della quale lui era perdutamente infatuato, senza avere avuto però il coraggio di dirglielo, mentre lei non se lo filava per nulla (come fa a riconoscerla, però fra le tante che potrebbe incontrare, non dico andarci proprio a sbattere addosso, sulle strade di Roma… vabbé, lasciamo perdere anche in questo caso, la sceneggiatura: io non sono per nulla fisionomista, quindi sono portato a credere che siano tutti come me). Lui ritiene stavolta di aver fatto colpo, seppure con una trentina e forse più d’anni di ritardo, mentre lei lo considera comunque uno sfigato anche se non glielo dice apertamente, che però tutto sommato può tornare utile alla bisogna, come puntualmente si verifica poco tempo dopo.

Metti una Notte‘ sembra quindi indicare una traccia narrativa nel portare l’ingenuo Martino ad incontrare Tea, la quale, diciamolo subito, si capisce subito che il romanticismo non sa neppure dove sta di casa ma in compenso si crede furba, mentre nella realtà la sfigata sembra che sia lei, visto che oltre ad essere decisamente ignorante, si ritrova in un mare di guai e messa alle strette, poco dopo, da un paio di figuri con i quali è meglio non discutere e tanto meno avere debiti. Difatti si serve immediatamente del numero di telefono di Martino che ha memorizzato, guarda caso senza lasciargli il suo. L’entomologo è appena stato mollato dalla sua compagna in Svizzera ed è tornato in Italia proprio per riprendersi da quella delusione e ci casca come un pollo (come lo definisce la stessa Tea), illudendosi che l’interesse per lui della sua ‘dea’ di un tempo sia sincero, a maggior conferma, suppone Martino, se lei in caso di necessità, addirittura questione di vita o di morte, come gli sussurra, si è rivolta proprio lui, senza sospettare semmai, come poi puntualmente si renderà conto, che probabilmente è rimasto l’unico che ancora le può dare credito e prestarsi a salvarle la pelle, rischiando la sua… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

Film: ‘Dunkirk’

DUNKIRK

Titolo Originale: omonimo

Nazione: Regno Unito, USA, Paesi Bassi, Francia

Anno: 2017

Genere: Guerra, Storico, Drammatico

Durata: 106’ Regia: Christopher Nolan

Cast: Fionn Whitehead (Tommy), Tom Glynn-Carney (Peter), Jack Lowden (Collins), Harry Styles (Alex), Aneurin Barnard (Gibson), James D’Arcy (Colonnello Winnant), Barry Keoghan (George Mills), Kenneth Branagh (Comandante Bolton), Cillian Murphy (Soldato Scioccato), Mark Rylance (Mr. Dawson), Tom Hardy (Farrier), Billy Howle (Agente Petty)

CONTESTO NARRATIVO: Seconda Guerra Mondiale, fra il 26 maggio ed il 4 giugno circa 400 mila uomini delle forze anglo-francesi rimasero bloccati sulla grande spiaggia di Dunkirk o Dunkerque, secondo la pronuncia francese. Le divisioni tedesche impegnate nella ‘blitzkrieg’, cioè la guerra lampo, ruppero facilmente la linea Maginot e costrinsero i nemici ad una umiliante ritirata sino di fronte al mare della Manica. Gli aerei della Luftwaffe falcidiavano i soldati allo scoperto sull’immensa spiaggia, mentre alcuni ‘Spitfire’ inglesi volavano per raggiungere il più presto possibile Dunkirk e coprire le forze di terra. Winston Churchill, sfruttando una legge che glielo consentiva, requisì le imbarcazioni private di piccole dimensioni che a centinaia attraversarono la Manica per raggiungere Dunkerque ed imbarcare e salvare più soldati possibile, nonostante la presenza degli U-boot tedeschi che siluravano le navi più grandi appena preso il largo. L’obiettivo del premier britannico era di riuscire salvare almeno 30 mila soldati, fra i quali potrebbe esserci anche il giovane Tommy che nelle prime sequenze del film, assieme ad alcuni suoi commilitoni, sta percorrendo le vie di Dunkirk deserta per raggiungere le truppe alleate ammassate sulla grande spiaggia. Bersagliati dai cecchini tedeschi, solo Tommy riesce a raggiungere l’obiettivo, ma lo spettacolo che si trova davanti è tremendo: file di soldati allo scoperto ed alla completa mercé degli aerei tedeschi che li mitragliano impietosamente. Raggiunto uno isolato dagli altri che sta sotterrando un soldato, s’intendono con il solo sguardo e senza dire una parola per trasportare con una barella un ferito sino alla nave attraccata al molo che sta per partire e nella quale la precedenza all’imbarco è data proprio ai militari in gravi condizioni. Quando però i due credono di aver furbescamente ottenuto a loro volta il viatico per la Gran Bretagna, vengono fatti scendere, ma si nascondono sotto il ponte con l’intenzione di salire di nascosto sulla nave successiva. Appena la prima lascia il molo per prendere il largo però viene bombardata dagli aerei nazisti ed affondata. I due giovani allora si confondono con i naufraghi e riescono a raggiungere a nuoto una barca e poi a salire su un’altra nave giunta in soccorso, ma mentre Tommy accetta di scendere sottobordo dove vengono offerti tè caldo e cibo, l’altro resta prudentemente all’esterno, nonostante il freddo. Un siluro però poco dopo colpisce la nave e Tommy farebbe la fine del topo come molti altri se il silenzioso compagno all’esterno non si adoperasse altruisticamente per aprire il boccaporto bloccato, appena in tempo per consentire al compagno e pochi altri ‘fortunati’ di uscire, incluso Peter, un soldato che Tommy aveva conosciuto appena pochi istanti prima. Nuovamente sulla spiaggia, i tre soldati si uniscono ad altri che stanno raggiungendo un’imbarcazione arenata. Nelle loro intenzioni c’è di attendere l’arrivo dell’alta marea che sollevi il barcone ma i soldati tedeschi dapprima prendono la nave a bersaglio, quando poi si rendono conto che dentro ci sono nascosti degli uomini, intensificano gli spari così che la nave con l’alta marea imbarca acqua ed affonda. Si salvano solo Tommy e Peter, che però si era comportato vigliaccamente poco prima con il terzo compagno silente che è annegato assieme a molti altri. Nel frattempo stanno giungendo innumerevoli imbarcazioni di soccorso dalla Gran Bretagna, di ogni dimensione ed anche gli aerei inglesi duellano nel cielo con quelli nazisti. Tommy e Peter riescono a salire a bordo di uno di queste piccoli yacht condotto abilmente da Mr. Dawson, che aveva già soccorso un sopravvissuto in mare in stato di shock e la cui violenta reazione, quando aveva inteso che stavano navigando in direzione di Dunkirk, aveva provocato la morte involontaria del giovane George, il quale si era imbarcato offrendosi come aiutante. Giunti in Gran Bretagna, Peter teme che siano accolti negativamente dalla popolazione per l’esito fallimentare in Francia e la conseguente fuga, mentre invece la reazione della folla, al passaggio del treno che trasporta i superstiti, è di grande partecipazione e sostegno. L’ultimo aereo scampato di una formazione di tre che dopo aver combattuto strenuamente contro i tedeschi è infine rimasto senza carburante, è costretto ad atterrare sulla spiaggia dove il pilota viene fatto prigioniero. Nonostante le estreme difficoltà, sono stati salvati quasi 300 mila soldati inglesi e francesi e la disfatta nella pratica si trasforma in una sorta di vittoria morale che infonde coraggio agli inglesi nel prosieguo della guerra e spinge gli Stati Uniti ad uscire dalla neutralità per unirsi agli alleati e ribaltare le sorti del conflitto, sino a quel momento segnate nettamente a favore dei nazisti. 

VALUTAZIONE: un’opera straordinaria, questa di Christopher Nolan, che racconta in modo originale ed estremamente efficace la storia di uno degli episodi più umilianti subito dalle forze alleate all’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Un film spettacolare, ma non nel senso del ‘blockbuster’, del periodo precedente l’entrata in guerra degli USA. L’originalità, che si trasforma in geniale trovata narrativa, risiede nell’assenza dei nazisti, che pure sono i protagonisti dell’accerchiamento e del tiro al bersaglio sui soldati alleati oramai inermi. Le forze tedesche infatti sembrano nemici perlopiù invisibili che sparano da terra, in cielo ed in mare, senza che appaia mai qualche loro volto o raggruppamento di truppe nel corso della trama, tutta rivolta quindi alla prospettiva degli anglo-francesi, con dialoghi ridotti al minimo e sequenze ad alto tasso di adrenalina ma non finalizzate ad una banale retorica esaltazione. Semmai ed evidenziare la brutalità della guerra e la drammaticità degli eventi. Uno dei film più riusciti e significativi che si possono trovare nel genere di appartenenza, recitato da attori per la gran parte sconosciuti ma molto bravi. Da non perdere! Voto:

…Sogno di dare alla luce un figlio che dica: Papà, che cos’era la guerra?…’

Che Christopher Nolan avesse del talento non era in discussione già prima di quest’opera, avendone dato ampia prova in precedenza, fra l’altro, con ‘Memento‘, ‘Insomnia‘, il trittico dedicato al personaggio di Batman (‘Batman Begins‘, ‘Il Cavaliere Oscuro‘ e ‘Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno‘), ma soprattutto con ‘Interstellar‘ (clicca sul titolo se vuoi leggere la mia recensione). Nonostante ciò, è riuscito in un’impresa quasi impossibile, qualcuno potrebbe anche dire eccentrica e comunque ambiziosa solo ad immaginarla. Figuriamoci quindi a metterla in pratica con tanta bravura, in un film che rievoca un celebre e drammatico avvenimento della Seconda Guerra Mondiale, che ha visto gli alleati anglo-francesi indietreggiare di fronte allo strapotere delle Panzer Divisionen naziste sino a trovarsi imbottigliati sull’immensa spiaggia di Dunkirk, senza via di fuga, se non per mare. Quindi a rievocare una sconfitta militare cocente e per certi versi persino imbarazzante da parte di un regista, un cast ed una troupe sostanzialmente inglesi.

La singolarità sta nel fatto che i nazisti, cioè i protagonisti in negativo del noto scontro, non si vedono. Com’è possibile, potrebbe chiunque legittimamente chiedere, soprattutto se conoscesse il contesto di quel gigantesco impiego di forze di terra, di mare e nel cielo, seppure con un esito a senso unico ed in realtà senza una battaglia vera e propria data la manifesta inferiorità? E invece, non solo le truppe tedesche non appaiono schierate, ma non se ne sente neppure un po’ la mancanza ai fini narrativi e difatti fra i personaggi presenti nel corso del film non ce n’è neanche uno con la divisa delle potenti e spietate divisioni naziste. Eppure stiamo parlando di 400 mila soldati francesi ed inglesi stretti d’assedio sulla terra, bombardati dagli aerei della Luftwaffe in cielo e dai sommergibili U-boot in mare. Uno strapotere strategico e tattico umiliante da parte della Germania, al punto da far concludere allo stesso premier britannico Winston Churchill che sarebbe stata già un’impresa riuscire a riportarne 30 mila in salvo in Gran Bretagna.

Come si era giunti però sino a quel punto? Dopo aver passato i confini di Olanda e Belgio, con una difficoltà pari ad infilare un coltello nel burro, le truppe naziste, forti di mezzi corazzati di gran lunga superiori rispetto a quelli francesi, avevano superato le colline e le foreste delle Ardenne, ritenute troppo superficialmente invalicabili dai francesi ed aggirando quindi facilmente le fortificazioni della Linea Maginot, avevano invaso il 10 maggio del 1940 il territorio d’oltralpe, senza trovare più ostacoli ed una efficace resistenza, spingendo l’esercito anglo-francese a ritirarsi sino alla grande spiaggia di Dunkirk, dove quattordici giorni dopo s’era trovato stretto in una morsa, senza più scampo e bersagliato da tutti i fronti.

Completamente privi di riparo su un’immensa spiaggia, i soldati dovevano fare i conti anche con la difficoltà aggiuntiva degli eventuali ma indispensabili aiuti via mare che rischiavano però di arenarsi sulla sabbia degradante dolcemente verso il mare aperto. La presenza di un solo molo a disposizione, al quale le navi più grandi potevano attraccare solo una alla volta per trasformarsi però anche in un facile bersaglio da colpire, costringeva le truppe anglo-francesi, disposte in lunghissime file in attesa dell’imbarco, al rischio concreto di essere mitragliate e bombardate dagli aerei tedeschi, praticamente senza colpo ferire. Churchill era talmente pessimista riguardo l’esito della rovinosa battaglia, che il comandante Bolton nel rispondere al colonnello Winnant, il quale gli chiedeva dove fosse l’indispensabile ed urgente supporto navale ed aereo per effettuare l’evacuazione dei soldati dalla spiaggia di Dunkirk, gli rivelava che Churchill a quel punto preferiva evitare di sprecare ulteriori preziose risorse lasciandole a difesa della madrepatria e quindi l’unica possibilità di aiuto sarebbe venuta semmai dalla requisizione delle piccole imbarcazioni e degli yacht civili, come previsto dalla legge in casi d’emergenza, per essere inviate al posto delle unità militari.

Pare che fossero molti anni che Christopher Nolan, autore anche del soggetto e della sceneggiatura, coltivava l’intenzione di realizzare un film rievocativo di quella battaglia, se così si può definire, tutta volta, sia in termini di vittime e danni materiali inferti, a favore delle forze d’occupazione naziste. Numeri di una disfatta che furono imbarazzanti ed impressionanti; alla fine infatti gli inglesi persero comunque 236 navi, 106 aerei, oltre 84.000 mezzi militari, 77.000 tonnellate di munizioni e 90.000 soldati furono catturati ed imprigionati dai tedeschi. Eppure, nonostante l’evidenza dei dati, questa bruciante sconfitta si trasformò incredibilmente invece in una sorta di vittoria morale per gli inglesi… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’) Continua a leggere…

Film: ‘Green Book’ e ‘A Spasso Con Daisy’

GREEN BOOK

Titolo Originale: omonimo

Nazione: USA

Anno: 2018

Genere: Drammatico, Sociologico, Biografico, Musicale, Commedia

Durata: 125’ Regia: Peter Farrelly

Cast: Viggo Mortensen (Frank ‘Tony Lip’ Vallelonga), Mahershala Ali (Don Shirley), Linda Cardellini (Dolores Vallelonga), Mike Hatton (George), Don Stark (Jules Podell), Sebastian Maniscalco (Johnny Venere), P. J. Byrne (il Produttore Discografico), Brian Stepanek (Graham Kindell), Iqbal Theba (Amit), Dimiter D. Marinov (Oleg), Joseph Cortese (Giò Loscudo), Brian Stepanek (Graham Kindell)

CONTESTO NARRATIVO: 1962, New York. Il buttafuori di origine italiana Frank Vallelonga, detto ‘Tony’, resta disoccupato perché il locale notturno dove era occupato chiude per ristrutturazione. Frank è un uomo piuttosto rozzo, sboccato, anche un po’ razzista che non bada ai mezzi più scorretti per farsi amico un boss della malavita italo-americana con la quale d’altronde ha già collaborato in passato. Avendo moglie e due figli da mantenere, non può accontentarsi di guadagnare qualche dollaro in scommesse ‘alimentari’, perciò quando viene contattato per un posto da autista si presenta fiducioso all’appuntamento e scopre che in realtà è in corso una selezione. Quando finalmente viene il suo turno, un domestico di origine indo-asiatica lo introduce dentro una lussuosa camera riccamente addobbata nella quale pochi istanti dopo si trova di fronte un nero distinto e dal linguaggio raffinato, che veste una vistosa tunica afro-tradizionale e si siede su una specie di trono. In realtà si tratta di Don Shirley, famoso pianista che sta cercando un autista e collaboratore per compiere un tour assieme ad altri due musicisti bianchi del suo trio negli Stati del Sud, una destinazione piuttosto insolita e rischiosa per un nero. Il compenso sarebbe anche buono per Frank ma si tratta di viaggiare per quasi due mesi lontano dalla famiglia e lui rifiuta giacché prevale l’imbarazzo di fare da autista ad un uomo di colore e doverlo servire anche per altre incombenze che ritiene umilianti. Qualche giorno dopo suona il telefono a casa di Frank ed è Don che chiede di parlare con Dolores, la moglie di Frank, rassicurandola e convincendola della bontà della sua offerta. La casa discografica di Shirley però è disposta a pagare per il momento la metà della cifra pattuita, il resto soltanto quando il tour sarà stato regolarmente completato. Una volta partiti, emergono  immediatamente le abissali differenze culturali fra Don e Frank. Don è educato e raffinato, ligio ai dettami di rispetto della natura ed ai principi di onestà, mentre Frank è abituato da sempre ad arrangiarsi, a badare al sodo ed ad tenere comportamenti tutt’altro che educati, persino quando mangia. Piano piano però entrambi imparano a conoscersi meglio ed a rispettarsi, persino a sforzarsi di entrare nella mentalità dell’altro ed apprenderne il meglio, tralasciando il resto. Sin dal primo concerto Frank ha modo di rendersi conto delle capacità e del successo che il trio, ma soprattutto Shirley al pianoforte, riscuote fra un pubblico, costituito però solo da bianchi. Don è anche un uomo che soffre di solitudine ed ogni sera l’affoga in una bottiglia di whisky nella sua stanza o terrazzino del motel dove alloggiano in camere separate. Mano a mano che scendono nel profondo sud le difficoltà aumentano a causa delle regole di segregazione riguardo i neri sempre più stringenti ed umilianti per Don, ma anche per la sua testardaggine nel non accettare l’ipocrisia di essere applaudito da star durante le esibizioni e poi essere rifiutato nei ristoranti e nei negozi dove è permesso di entrare solo ai bianchi. Dopo essere finiti persino in galera una notte, a causa di una reazione di Frank ad un poliziotto che l’ha offeso, per uscire dalla quale Don ha dovuto fare ricorso niente meno che al suo amico Bob Kennedy, rischiano ancora grosso quando Shirley, per vincere la solitudine, si spinge da solo in una sauna dove viene preso di mira da un paio di poliziotti che Frank, accorso dopo essere stato avvisato, riesce a corrompere oppure in un bar dove Don viene preso di mira da tre razzisti bianchi e si salva solo grazie ancora all’intervento di Frank che minaccia di far uso della pistola che nasconde dietro la schiena. Arrivano comunque all’ultima data, completata la quale entrambi riscuoterebbero la seconda parte dei rispettivi compensi, ma… 

A SPASSO CON DAISY

Titolo Originale: Driving Miss Daisy

Nazione: USA

Anno: 1989

Genere: Commedia, Drammatico

Durata: 99’ Regia: Bruce Beresford

Cast: Jessica Tandy (Daisy Werthan), Morgan Freeman (Hoke Colburn), Dan Aykroyd (Boolie Werthan), Patti LuPone (Florine Werthan), Esther Rolle (Idella), Clarice F. Geigerman (Nonie), Muriel Moore (Miriam), Sylvia Kaler (Beulah), Joann Havrilla (Miss McClatchey), William Hall Jr. (Oscar), Indra Thomas (Cantante Solista) Ray McKinnon (Agente 1), Ashley Josey (Agente 2)

CONTESTO NARRATIVO: nel breve periodo che intercorre fra la fine della Seconda Guerra Mondiale e quella che vedrà gli americani impegnati nel conflitto in Corea, nello stato del sud della Georgia un’anziana vedova ebrea di origine tedesca, Daisy Werthan, vive in una bella casa con giardino, mentre il figlio Boolie dirige la florida azienda tessile fondata dal padre. Daisy ha da tempo al suo servizio una collaboratrice domestica nera, Idella, la quale è riuscita nel corso degli anni a convivere e sopportare il carattere risoluto, testardo e spesso insopportabile della padrona di casa. Il figlio e la moglie Florine vivono in un’altra abitazione, non distante da quella di Daisy e Boolie corre ogni volta che la madre lo chiama per qualche problema, ma ha imparato nel tempo comunque a gestirne la personalità senza farsi soffocare. Amante dell’indipendenza, nonostante la già venerabile età, Daisy ha un’auto che guida per andare al supermercato o al cimitero, ma una mattina, uscendo dal parcheggio di casa, perde il controllo della vettura e per poco non finisce dentro una roggia. Hoke è un nero non più giovane che un giorno si fa notare da Boolie nel risolvere abilmente un problema con l’ascensore dell’azienda. Quando quest’ultimo viene a sapere che tempo addietro Hoke faceva l’autista, gli propone di assumerlo con lo stesso incarico per la madre, ad insaputa di quest’ultima. La reazione della stessa scoraggerebbe chiunque ma non Hoke che ha bisogno di quel lavoro e resiste stoicamente ai continui atti di ostilità, ingenerosità ed alle imposizioni di Daisy. Con pazienza certosina però piano piano riesce a farsi accettare e ad accompagnare in auto l’anziana donna, instaurando con lei nel tempo un rapporto di dialogo e fiducia, sino a diventare indispensabile, quando Idella improvvisamente muore. Hoke, sempre rispettoso ma senza rinunciare alla sua dignità personale, non sa leggere, guarda le figure sui giornali, quando lo ammette di fronte a Daisy, che una volta faceva l’insegnante, gli regala un metodo efficace per imparare. Passata la novantina, la vecchia donna improvvisamente non c’è più con la testa e viene ricoverata in una casa di riposo dove Hoke va comunque fedelmente a trovarla, ma anche lui deve fare i conti con l’età ed è la nipote ora a guidare la sua auto. Durante una visita con Boolie a sua madre, quest’ultima chiede espressamente di rimanere sola con Hoke, dal quale accetta di buon grado di farsi imboccare perché le tremano le mani.

VALUTAZIONE: due contesti diversi, con i protagonisti a parti invertite, ma simili per contenuti e significato. Sia Peter Farrelly che Bruce Beresford hanno realizzato due splendidi film che colpiscono profondamente nell’animo, tematicamente molto attuali riguardo i vari modi di manifestare il razzismo, ma non solo, nonostante le due opere siano state realizzate a distanza di trentanni una dall’altra. L’interpretazione di Jessica Tandy in ‘A Spasso con Daisy’ è impressionante. Il tema della segregazione e della prevenzione dei bianchi verso i neri sono trattati con garbo ma in maniera profonda ed efficace, a tratti persino commovente. Due film che non dovrebbero mancare in qualsiasi videoteca che si definisca tale e che, al di là delle ragguardevoli interpretazioni, danno pieno valore al cinema come strumento di formazione e di consapevolezza etica. Voto per entrambi: 

Dopo aver visto ‘Green Book‘, sono andato a recuperare subito ‘A Spasso con Daisy‘ che avevo visto parecchi anni fa. Ne ricordavo infatti i tratti distintivi e li ho subito associati a quelli del film, più recente, di Peter Farrelly. Rispettivamente premiati con tre e quattro Oscar, al di là di questi riconoscimenti che in termini assoluti lasciano il tempo che trovano, non si può comunque che rimanere ammirati da queste due opere che, ai numerosi pregi tecnici, sommano anche temi di toccante umanità, ahimè quanto mai attuali e vicende che, a seconda dei momenti, si presentano di volta in volta narrativamente sorprendenti, ironiche, divertenti, arroganti e commoventi.

Al centro ci sono, in entrambi i casi, un autista ed il suo datore di lavoro. Solo che nelle due opere i ruoli, nel senso del colore della pelle, sono invertiti. Nel più classico ‘A Spasso con Daisy‘ un’anziana ebrea di origine tedesca, nata povera ma poi diventata benestante, grazie alle capacità del padre che ha messo su una piccola impresa tessile e l’ha poi trasformata in una grande azienda nei dintorni di Atlanta, è costretta dal figlio, dopo aver rischiato di farsi male guidando l’auto, a farsi accompagnare da un autista nero, che lei inizialmente rifiuta sdegnosamente. Non perché sia di colore, poiché lei afferma a più riprese di non avere prevenzioni al riguardo, bensì perché è sempre stata orgogliosa della sua indipendenza e per giunta non ha mai voluto ostentare in pubblico il suo benessere economico.

In ‘Green Book’ invece è Don Shirley, un acclamato pianista nero, ad avere bisogno di un autista e collaboratore, che abbia però anche doti di determinazione e coraggio, visto che lo dovrà accompagnare per due mesi in uno strano e pericoloso tour (per un uomo di colore) negli stati più razzisti degli USA del Sud, da lui però fortemente voluto, e se lo sceglie bianco, ovviamente. La casa discografica infatti ha preteso di pagare per intero i costi, sia al pianista che ai suoi due accompagnatori al violoncello ed al contrabbasso, i quali sono però bianchi (uno addirittura di origine russa, lingua che parla correntemente Don, assieme ad altre, avendo lungamente viaggiato pure all’estero) ed anche all’autista, solo se saranno regolarmente completate tutte le date in programma. A tale scopo, per evitare eventuali ma anche presumibili problematiche durante il tour, il produttore discografico consegna all’autista di Don, ovvero Frank Vallelonga, un volumetto, cioè appunto il ‘green book’ del titolo. Pubblicato ogni anno, dal 1936 al 1964, era infatti una guida creata dall’impiegato postale Victor Hugo Green, che ha avuto crescente successo perché conteneva suggerimenti e soprattutto la lista aggiornata dei motel e dei locali pubblici che potevano essere frequentati dalle persone di colore al tempo della segregazione negli stati più intransigenti del sud, così da evitare spiacevoli situazioni.

Va aggiunto che ‘Green Book‘, a differenza di ‘A Spasso con Daisy‘, racconta una storia vera, quella del pianista Don Shirley, che era un virtuoso ed effettuò davvero quel tour, accompagnato proprio dall’autista Frank Vallelonga, un cognome che pare sia difficile da pronunciare in lingua inglese, tant’è che si faceva chiamare anche ‘Tony Lip’. Il quale, interpretato con notevole bravura e personalità da Viggo Mortensen, era un buttafuori che lavorava a ‘Little Italy’ sul quale Shirley aveva raccolto informazioni, prima di contattarlo per quel delicato compito, avendo messo in preventivo il rischio che, scendendo sempre più verso sud, avrebbe avuto bisogno di avere al suo fianco qualcuno che sapesse farsi valere oltre il ‘semplice’ ruolo dell’autista, nel caso di minacce o comunque di eventuali situazioni di pericolo.

Ci sono almeno due modi comunque per manifestare forme di razzismo, entrambe occulte, per così dire, senza cioè necessariamente assumere plateali proclami o azioni che lo comprovino. Il primo è quello che lo stesso Frank ci mostra a casa sua, prima ancora di conoscere Dan Shirley, quando getta nella spazzatura i bicchieri di vetro usati da due operai neri ai quali la moglie aveva offerto una bevanda al termine del lavoro di riparazione che avevano effettuato in cucina. Non si fa vedere Frank nell’atto di compiere il gesto, ma dimostra comunque il pregiudizio razziale del quale è affetto anche senza dichiararlo pubblicamente. Il secondo è quello che evidenzia Hoke a Daisy, non per l’atteggiamento iniziale nei suoi confronti, che sarebbe stato lo stesso anche se al suo posto ci fosse stato un bianco, ma proprio mentre l’anziana donna, accompagnata dal suo autista, si sta recando ad una cena di gala dove parlerà niente meno che Martin Luther King.

Il quale nel corso della serata usa queste parole, di fronte ad una ricca platea costituita per la gran parte, ma non soltanto, da opulenti bianchi: ‘…la storia dovrà registrare il fatto che la più grande tragedia di quest’epoca di transizione sociale non fu costituita dalle parole velenose a dalle azioni violente della gente malvagia, ma dall’orribile silenzio e dall’indifferenza della gente perbene!…‘. Parole quanto mai spaventosamente attuali, come hanno evidenziato i recenti fatti avvenuti ancora negli USA con l’uccisione di George Floyd ed altri uomini di colore da parte di poliziotti che ricordano molto da vicino quelli che in ‘Arancia Meccanica‘ di Stanley Kubrick (clicca sul titolo se vuoi leggere la mia recensione) da teppisti di strada si sono appunto trasformati in teppisti in divisa, legittimati a compiere le loro imprese criminali sui clochard indifesi o chiunque gli capitasse a tiro, il loro ex compagno Alex incluso… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’) Continua a leggere…

Film: ‘Mustang’

MUSTANG

Titolo Originale: omonimo

Nazione: Turchia, Francia, Germania, Qatar

Anno: 2015

Genere: Drammatico, Sociologico

Durata: 97’ Regia: Deniz Gamze Ergüven

Cast: Güneş Şensoy (Lale), Doğa Doğuşlu (Nur), Elit İşcan (Ece), Tuğba Sunguroğlu (Selma), İlayda Akdoğan (Sonay), Nihal Koldaş (la Nonna), Ayberk Pekcan (Erol), Erol Afşin (Osman), Burak Yigit (Yasin), Bahar Kerimoğlu (Dilek)

CONTESTO NARRATIVO: in un villaggio turco affacciato sul Mar Nero, cinque sorelle stanno salutando la loro insegnante Dilek che si sta trasferendo a Istanbul. La più triste fra loro è la più piccola, Lale, alla quale scendono le lacrime perché le è particolarmente affezionata. Le cinque adolescenti sono rimaste orfane e da dieci anni vivono in casa della nonna e dello zio Erol. Assieme ad alcuni compagni di scuola decidono di trascorrere un po’ di tempo al mare. Al ritorno a casa sono severamente rimproverate dalla nonna alla quale è stato riferito che si sono prestate ad un contatto fisico con i maschi ritenuto sconveniente, in realtà un gioco innocente privo di morbosità. Lo zio Erol è il più intransigente e le costringe addirittura ad una umiliante visita ginecologica con tanto di certificato che dimostra che sono ancora tutte vergini. Temendo di essere giudicato degli altri abitanti il piccolo paese, proibisce quindi alle nipoti di uscire di casa, costringendole ad indossare vestiti castigati, secondo i dettami della tradizione e ad imparare a cucinare seguendo le indicazioni della nonna e di alcune sue conoscenti. Inoltre impedisce loro anche di andare a scuola. Le sorelle non ci stanno ad essere segregate e singolarmente, come Sonay la maggiore fra loro, o in gruppo, escono di nascosto anche se poi finisce che qualcuno le adocchia ed avvisa la nonna, la quale si è adattata sin dalla più tenera età ad essere sottomessa ed alle privazione e perciò teme per il futuro delle nipoti. Lo zio allora fa installare da alcuni operai un cancello più alto e robusto, le punte in cima ai muri intorno alla casa e mette le inferriate alle finestre, trasformando in pratica l’abitazione in una prigione. La quale comunque non serve ad evitare una nuova fuga e allora, d’accordo con la nonna che nella sue intenzioni cerca di proteggere le ragazze come può, Erol decide di farle sposare. Mentre Sonay, riesce a far accordare i suoi genitori con quelli del ragazzo con il quale s’incontra di nascosto già da tempo; a Selma, la seconda per età, tocca invece lo sconosciuto Osman, impreparato almeno quanto lei. La terza invece è Ece ed apparentemente sembra più mansueta, ma poi per reazione si offre fisicamente ad un giovane sconosciuto nell’auto del padre. In seguito, cacciata da tavola per i modi insolenti, a detta dello zio, si suicida sparandosi. La quarta è Nur e già da un po’ di tempo è abusata da Erol. Per evitare che questa aberrante pratica continui, la nonna trova un pretendente anche per Nur, nonostante sia ancora giovanissima. Lale però convince la sorella, proprio in occasione del fidanzamento, a barricarsi con lei in casa e poi a fuggire assieme in modo rocambolesco, grazie all’aiuto decisivo di Yasin, un venditore ambulante di frutta e verdura che Lale aveva conosciuto per caso tempo addietro e, presa in simpatia, le ha insegnato persino i primi rudimenti alla guida. Lo scopo di Lale e Nur è quello di raggiungere l’insegnante Dilek proprio a Istanbul. 

VALUTAZIONE: l’opera della regista turca Deniz Gamze Ergüven vuole denunciare l’ipocrisia della società e le arretratezze culturali, specie nei confronti delle donne, che ancora persistono nella nazione dalla quale lei stessa proviene. Le cinque giovani sorelle sembrano appartenere invece (forse un po’ troppo, considerando la giovane età e la mentalità chiusa dell’ambiente nel quale sono cresciute) ad un mondo decisamente più libero, che perlomeno ambisce ad esserlo, occidentale nel senso migliore e più evoluto del termine dal punto di vista dei costumi, a confronto di ciò che invece appare ancora dominante in quel territorio, al di là delle apparenze. Un film di natura sociologica che mette in evidenza la violenza psicologica e fisica esercitata sulle cinque sorelle, ma senza eccessi di forma, sempre molto scorrevole e riuscito, nonostante qualche limite di sceneggiatura. Il finale è decisamente convulso, temerario ed anche commovente. Voto: 

Una curiosa produzione turco-franco-tedesca (e pare ci sia anche una partecipazione del Qatar), questa della regista Deniz Gamze Ergüven, qui al suo debutto, presentata al Festival di Cannes del 2015 e poi candidata, sotto bandiera francese però, nella categoria del miglior film straniero agli Oscar del 2016, oltreché concorrente ad altri premi in molteplici manifestazioni. Il titolo può trarre in inganno, non solo perché la parola inglese ‘mustang’ è sinonimo di ‘cavallo non domato’ e si può superficialmente supporre che sia riferito quindi ad un ambito molto differente, ma soprattutto perché non viene così immediato, osservando la locandina, associare quel termine alle cinque ragazze, seppure in seguito se ne capisce ovviamente il nesso.

Le quali sono, dalla più piccola alla più grande, ancora adolescenti o poco più e per l’impressione che suscitano osservandole, potrebbero provenire da un qualsiasi paese occidentale, specie di area mediterranea, anziché invece da un paesino della zona asiatica della Turchia, affacciata sul Mar Nero, la città più vicina della quale è Trebisonda, lontana però quasi mille chilometri da Istanbul. Le prime sequenze del film sembrano perciò relative ad una storia, solo in apparenza un po’ datata, che vede protagoniste cinque giovani sorelle, di età molto ravvicinata a scalare fra loro, vestite all’occidentale, che si comportano come dalle nostre parti in modo naturale e spontaneo, cioè senza timidezze ed inibizioni nelle relazioni con i loro coetanei. Tutto il film è raccontato in prima persona dalla più piccola delle cinque, cioè Lale.

Nel corso della mia attività professionale sono stato in un paio di occasioni anche in Turchia, ad Istanbul per la precisione, quando Erdogan era ancora primo ministro e non il presidente attuale che si è attribuito pieni poteri ed a seguito dei noti fatti del 2016 ha rinnegato le relative libertà dei costumi concesse da quello che molti considerano una sorta di icona ed eroe nazionale, cioè Mustafa Kemal Atatürk, ristabilendo la legge islamica più intransigente. L’immagine che ne avevo tratto allora era stata, non solo che fosse una nazione in rapida espansione ma anche che l’ex Bisanzio e poi Costantinopoli fosse effettivamente, non solo per ragioni geografiche, un crocevia fra Asia ed Europa ed un luogo nel quale riuscivano a convivere miracolosamente ed in forma pacifica culture e persino confessioni religiose molto differenti fra loro. La stessa cattedrale di Santa Sofia, adibita a museo e posta di fronte alla Moschea Blu, è stata nel corso della sua storia il simbolo di due mondi opposti. Negli ultimi anni le cose purtroppo sono profondamente cambiate e forse questa immagine oramai appartiene alla serie storica delle illusioni infrante dalla cruda realtà.

Fatte le dovute proporzioni, è un po’ quello che capita anche in questo film, almeno è l’impressione che si prova nelle prime sequenze, con le cinque sorelle vestite all’occidentale che si relazionano liberamente con i loro coetanei, con i quali ridono e scherzano al mare, immersi ancora con indosso la divisa scolastica, battagliando a cavalcioni sulle loro spalle, senza malizia alcuna però. Le cinque sorelle si dimostrano spigliate ed esenti da imbarazzi, compreso in seguito quando la giovanissima Lale s’infila delle mele raccolte in un campo sotto la camicetta vantandosi con le sorelle per l’improvvisa prosperità del seno. A riportarle alla realtà ci pensa in primo luogo il contadino proprietario della terra dove hanno trovato gli alberi di mele, il quale, armato di fucile e minacciando di sparare, caccia tutto il gruppo di ragazze e ragazzi dal suo campo. Il peggio però avviene al ritorno a casa, quando Lale e le altre devono smorzare improvvisamente i sorrisi che avevano ancora sulle labbra, dovendo fare i conti con la mentalità repressa e retrograda della nonna, fondata su principi secolari, pregiudizi, timori delle critiche altrui e conseguenti proibizioni. La nonna infatti è stata informata da una vicina sul comportamento tenuto dalle ragazze con i loro compagni maschi, a suo dire non consono a quello di fedeli timorate di Allah.   

Ora, per non nasconderci dietro il classico dito, non è che sino a pochi anni fa (e forse ancora adesso) in alcuni paesi dell’Italia più arretrata la situazione dell’emancipazione femminile e le regole sui comportamenti da tenere in pubblico fossero (e forse lo sono ancora) molto diversi, però in questo caso si nota stridente la contraddizione di una società che per alcuni aspetti si è modernizzata, esteriormente parlando, ad esempio riguardo alcuni servizi ed apparati tecnologici (le ragazze, avevano anche un PC collegato ad Internet, sino a che per punizione fosse loro proibito l’uso; le stesse TV in casa sono a schermo piatto, non più a tubo catodico), ma che è rimasta immutata invece in molti altri aspetti che riguardano fra gli altri, moralità e libertà di espressione. Suona contraddittorio infatti che a seguito di alcuni incidenti durante una partita di calcio della squadra del Trabzonspor di Trebisonda, la federazione stabilisca, per la partita successiva, la presenza in tribuna solo delle donne e dei bambini, se poi, a casa loro, giovani ancora in tenera età sono costrette a sposare ragazzi sconosciuti a seguito di accordi fra genitori, senza alcun rispetto dei loro sentimenti.

Sarà forse che lo zio Erol è particolarmente di mentalità chiusa, ma alle sorelle viene imposto di indossare tuniche ‘…color merda e senza forma…’, come afferma la voce della stessa Lale nella narrazione fuori campo e poi di dedicarsi, come future servizievoli donne di casa, ai lavori di pulizia e ad imparare le ricette tipiche della cucina del posto, seguendo le lezioni impartite da esperte amiche di famiglia. Dopo qualche giorno, con la scusa di concedere loro un momento di svago uscendo di casa per consumare un limonata al bar in centro paese, naturalmente accompagnate dalla nonna, in pratica subiscono una sorta di esposizione pubblica affinché siano notate, valutate e nei giorni a seguire costrette a partecipare ad una specie di passerella, direttamente a casa loro, una alla volta, con l’espediente di far servire da loro il tè alle ospiti presenti, cioè le madri dei ragazzi ai quali si è già deciso che dovranno andare in sposa. Solo dopo l’assenso delle donne, il fidanzamento viene finalizzato facendo intervenire i loro mariti che concludono l’antico ma sempre squallido rituale, con la frase ‘…che sia propizio…’. Si ha quindi la diretta percezione dell’arretratezza e dell’ipocrisia di una società che si barrica ancora dietro alcuni dettami secolari ma al tempo stesso, come nel caso dello stesso Erol, non esita ad abusare di notte una delle giovani nipoti, nascosto dentro le mura di casa e protetto dal silenzio sofferto ma comunque omertoso di sua madre… …(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’) Continua a leggere…

Serie TV e Libro: ‘Cercando Alaska’

CERCANDO ALASKA (Serie TV)

Titolo Originale: Looking for Alaska

Nazione: USA

Anno: 2019

Genere: Dramma Adolescienziale

Durata: 8 Puntate da circa 50′ cadauna 

Ideatore: Josh Schwartz  

Cast: Charlie Plummer (Miles Halter), Kristine Froseth (Alaska Young), Denny Love (Chip Martin), Jay Lee (Takumi Hikohito), Sofia Vassilieva (Lara Buterskaya), Landry Bender (Sara), Uriah Shelton (Longwell Chase), Jordan Connor (Kevin), Timothy Simons (Sig. Starnes), Ron Cephas Jones (Dott. Hyde), Henry Zaga (Jake), Daneen Tyler (Dolores Martin), Lucy Faust (Madame O’Malley)

CONTESTO NARRATIVO: Miles Halter vive in Florida con i genitori ma, introverso ed annoiato dalla scuola pubblica, decide di iscriversi al college di Calver Creek in Alabama, dove erano stati a suo tempo il padre, uno zio ed i suoi cugini. Il suo proposito dichiarato ai genitori è quello di cercare risposta al suo ‘Grande Forse’, seguendo le orme del poeta francese Rabelais. Nel campus si ritrova in camera con Chip Martin, che si fa chiamare Colonnello, già al terzo anno di frequenza. Pur essendo molto diversi fra loro, sia fisicamente che caratterialmente, si trovano subito bene assieme. Chip ha una passione per la geografia, mentre Miles per le ultime frasi, dette in punto di morte da personaggi famosi. Il Colonnello mette subito in guardia Miles da quelli che lui chiama i ‘Settimana Corta’, cioè i figli spocchiosi dei ricconi che passano il weekend nelle ville con piscina dei genitori e con i quali, lui che si trova lì solo grazie ad una borsa di studio, è in disputa da tempo. Poi gli presenta i suoi due migliori amici: Takumi, di origini giapponesi e Alaska, una ragazza molto carina, trasgressiva ed intraprendente che occupa da sola una stanza, da quando la sua compagna Marya è stata espulsa per essere stata colta in atteggiamenti inequivocabili con un compagno del college. Miles rimane come fulminato da Alaska ma scopre ben presto, non solo che ha già un ragazzo che frequenta l’università, ma che possiede anche un’anima tormentata e capace di passare da trascinanti entusiasmi a profonde depressioni. Nella sua stanza ci sono pile di libri che lei divora ma ad uno tiene in modo particolare: ‘Il Generale nel suo Labirinto’ di Gabriel Garcia Marquez’, letto il quale, sta cercando una risposta alla domanda: ‘come farò ad uscire da questo labirinto?’. Il professor Hyde, che si occupa di introdurre i ragazzi allo studio delle religioni e della filosofia, potrebbe aiutarla a risolvere il quesito, se non fosse che Alaska sembra non voler contare su nessuno riguardo ciò che la tormenta interiormente. I quattro si ritrovano spesso sotto il ponticello di un laghetto al limite dell’area boschiva che circonda il campus, dove di nascosto trasgrediscono le regole del campus fumando e bevendo alcolici. Miles, rinominato Pancho (Ciccio nel romanzo, per ironia, dato il suo fisico da smilzo), si adegua per non essere da meno, ma soprattutto per emulare Alaska della quale si è oramai invaghito. I rapporti con i ‘Settimana Corta’ sono conflittuali e nonostante il guardiano del college, il Sig. Starnes, rinominato ‘Aquila’, sia attento a vigilare costantemente affinché nel college tutto proceda senza problemi, le goliardate fra i due gruppi sono sempre più frequenti e pesanti. Nel campus però vige una legge non scritta fra gli studenti che bandisce chi fa la spia. Alaska prende in simpatia Pancho/Ciccio, avendo intuito la sua inesperienza in campo sentimentale e fa in modo che Lara, una bella studentessa di famiglia rumena, si avvicini a lui, nonostante Miles abbia già chiara la sua preferenza. Salvo poi provare un po’ di gelosia quando Alaska si rende conto che Pancho/Ciccio, frustrato nel suo amore non corrisposto, si sta affezionando a Lara che fa il possibile per conquistarlo. La situazione precipita quando, a seguito di uno scherzo eccessivo, il Colonnello viene ritenuto responsabile ed espulso dal college, proprio mentre Alaska, che sta per lasciare il suo ragazzo nel frattempo, si sta avvicinando a Miles e dopo aver passato con lui una notte, nel corso della quale sono andati molto vicini ad un rapporto completo, lo ha lasciato con la promessa di un prossimo appuntamento. La sera seguente però fa una telefonata, dalla quale esce sconvolta. Poco dopo, in preda ai fumi dell’alcol, Alaska chiede a l Colonnello e Pancho/Ciccio di coprirle le spalle per consentirle di uscire di notte da Calver Creek con la sua auto, senza farsi accorgere dal Sig. Starnes. I due amici non trovano le parole e la fermezza necessarie per fermarla…     

VALUTAZIONE: nell’offerta delle serie TV incentrate su storie di adolescenti e maturandi (dette perciò ‘teen drama’) ambientate nei colleges o comunque in un contesto studentesco, come ‘Tredici’ ed ‘Elite’ ad esempio, spunta anche ‘Cercando Alaska’, una miniserie tratta dal libro di John Green, scritto nel 2005. La storia è raccontata come un lungo flashback, segnato dal conto alla rovescia dei giorni che mancano ad un evento del quale viene mostrato solo un frammento all’inizio e che si preannuncia drammatico nella conclusione. Otto puntate, una vicenda che inizia e finisce, nella quale si possono trovare facili banalizzazioni ma anche alcuni interessanti spunti che riguardano tematiche psicologiche e sociologiche, non solo di vita nei colleges, che appare peraltro tutt’altro che facile, come una ‘foresta’ nella quale bisogna cavarsela e crescere, al di fuori delle proprie sicurezze famigliari e persino delle materie di studio. La serie TV affronta argomenti di riflessione, come quello del ‘coming out’ e della depressione in ambito giovanile, estranei al romanzo, a fianco di situazioni che appaiono invece più di maniera. La giovane attrice Kristine Froseth, per l’aspetto fisico e l’espressività del viso, rappresenta al meglio il personaggio descritto nel romanzo. Voto:

CERCANDO ALASKA

Di John Green

Scritto nel 2005

Anno di Edizione 2005; Pagine 394

Costo € 15,20 (tascabile € 12,35; eBook € 7,99)

Ed. Rizzoli 

Traduttrice: Lia Celi

CONTESTO NARRATIVO: ci sono alcune differenze degne di rilievo fra il romanzo e la serie TV ma sostanzialmente e nei punti cardine la storia è la stessa.

VALUTAZIONE: un romanzo di chiara impronta giovanilistica ed adolescenziale, sia nella forma che nel linguaggio, compresi i relativi limiti. Abbondano le frasi ad effetto ed i dialoghi, ma la storia tutto sommato funziona e presenta aspetti non disprezzabili di riflessione ed introspezione psicologica. Il personaggio di Alaska è contorto ed affascinante quanto basta per suscitare l’interesse dei lettori, oltreché dell’inesperto Miles Halter. Lo scrittore John Green dimostra di muoversi a suo agio, ma anche grazie ad una buona dose di ‘paraculaggine’, nel mondo contraddittorio e contorto dei giovani sulla soglia della maturità. Voto:

…L’uomo vuole avere delle certezze. Non riesce a sopportare l’idea che la morte sia un nero e immenso nulla, il pensiero che i suoi cari non esistano più, e tanto meno può immaginare se stesso come non esistente. Conclusi affermando che l’uomo crede nell’aldilà perché non ha la forza di non crederci…‘.

A parlare è Miles Halter (interpretato da Charlie Plummer), che è il giovane personaggio narrante la storia, la quale inizia in modalità rievocativa, partendo per scendere via via, dai 136 giorni precedenti un evento coincidente con la breve sequenza successiva, nella quale assistiamo confusamente, mentre piove in modo intenso su una strada di campagna dove un autoarticolato, scivolando e sbandando, ha occupato di traverso entrambe le carreggiate, alla corsa di un’auto che, senza accennare ad una minima frenata, gli si schianta contro, dopo aver centrato anche una macchina della polizia intervenuta sul posto. Con gli occhi sbarrati ed increduli, un agente assiste atterrito alla scena, spostandosi appena in tempo per non essere travolto a sua volta.

…Quando gli adulti, con lo stupido sorriso di chi crede di saperla lunga, dicono: <I giovani si credono invincibili> non sanno quanto hanno ragione. La disperazione non fa per noi, perché niente può ferirci irreparabilmente. Ci crediamo invincibili perché lo siamo. Non possiamo nascere, e non possiamo morire. Come l’energia, possiamo solo cambiare forma, dimensioni, manifestazioni. Gli adulti, invecchiando, lo dimenticano. Hanno una gran paura di perdere, di fallire. Ma quella parte di noi che è più grande della somma delle nostre parti non ha un inizio e non ha una fine, e dunque non può fallire… Le ultime parole di Thomas Edison furono: <Com’è bello, laggiù…>. Non so dove sia quel laggiù, ma io credo che da qualche parte esista e spero che sia bello…‘.

Sommando le due riflessioni, che ora sappiamo appartengono entrambe a Miles, contraddittorie fra loro nelle conclusioni, si ottiene un po’ il riassunto ed il significato di ‘Cercando Alaska‘, ma anche in fondo della natura umana, in questo caso giovanile, sospesa e quindi irrisolta sulle cose ultime della vita. Da un lato c’è appunto Miles, detto anche Ciccio o Pancho (quest’ultimo è il suo soprannome nella Serie Tv) che affacciandosi alla soglia del salotto di casa, annuncia ai suoi genitori: ‘…c’è questo signore, Francois Rabelais. Poeta. E le sue ultime parole sono state: <Vado a cercare un Grande Forse>. Ecco perché voglio andare via. Così non dovrò aspettare di essere in punto di morte per mettermi in cerca di un Grande Forse…‘. Dall’altro, c’è Alaska Young (come poteva avere un cognome che, tradotto, fosse diverso da ‘giovane’?) la quale invece non sa come uscire dal suo labirinto, rifacendosi ad una frase pronunciata da Simon Bolivar che ha letto nel libro ‘Il Generale e il suo Labirinto’ di Gabriel Garcia Marquez, diventata per lei una metafora per definire i tormenti derivanti dal suo passato e che la permanenza al college non ha affatto lenito. Quando ‘Ciccio/Pancho’ le chiede perché fuma così assiduamente, la sua risposta infatti è lapidaria: ‘…voialtri fumate per il gusto. Io fumo per morire!…‘.

Ora, viene subito da chiedersi che cosa possa spingere una ragazza così carina, intraprendente, intelligente, assidua lettrice, sessualmente spigliata e dichiaratamente legata all’universitario Jake (adeguatamente interpretata dalla stessa Kristine Froseth che abbiamo apprezzato nei panni della giovanissima Nola, nella serie TV ‘La Verità Sul Caso Harry Quebert‘, clicca sul titolo se vuoi leggere la mia recensione), ad avere pensieri così estremi e pessimisti. Di certo il suo carattere è instabile: passa da trascinanti momenti di entusiasmo, ad altri di profondo scetticismo e depressione. Pancho/Ciccio ne resta perciò come stregato già al primo incontro, quando Alaska (questo accade solo nella serie TV), senza essersi ancora presentati e sta raccontando al Colonnello un episodio che ha vissuto da poco, nel riferirsi ad esso prende una mano di Pancho e senza neppure rivolgergli lo sguardo se l’appoggia per qualche secondo su un seno, lasciandolo senza parole ma irrimediabilmente trafitto al cuore dalla freccia di Cupido.

Diciamo subito che ci sono alcune differenze fra il romanzo di John Green e l’adattamento dello stesso nella serie TV. Uno dei più importanti riguarda la figura dell’insegnante Hyde (difficile credere che sia solo un caso l’omonimia con il celebre personaggio creato da Robert Louis Stevenson nel romanzo ‘Lo Strano Caso del Dottor Jekyll e del Signor Hyde‘), il quale funge un po’ da saggio dispensatore di principi esistenziali, oltreché di religione e filosofia che è la sua materia, quasi sempre inascoltati dai suoi alunni ovviamente. Nella serie TV, durante un dialogo con Pancho, Chip e Alaska nella sua abitazione dentro il college, rivela la sua natura di omosessuale, sino ad allora nascosta e racconta la triste storia della fine del suo compagno morto di AIDS quando insegnava a Berkeley. Ne nasce un comun sentire con gli stessi ragazzi al di fuori dell’ambito scolastico, inteneriti e niente affatto disturbati dalla confessione, anche se loro sono eterosessuali, che porta il professore a diventare in seguito persino una sorta di consulente della madre di Chip. Lo sdoganamento dell’omosessualità, un tema che non molto tempo fa era tabù o quasi, è assente nel romanzo ma lo troviamo in questa trasposizione e sempre più spesso in altre serie TV, come in ‘Tredici‘ ed ‘Elite‘ ad esempio, che vedono protagonisti giovani studenti che frequentano il college e fra l’altro si trovano a fare i conti con un soggetto che non dovrebbe essere fra quelli più consoni alla loro età, cioè la morte. 

Josh Schwartz, ideatore della serie TV ‘Cercando Alaska‘, ha voluto spettacolarizzare alcuni momenti, adattandoli anche a tematiche più vicine ai parametri del 2019 piuttosto che a quelli del 2005 quando il romanzo è stato scritto. Altri episodi che si discostano dal romanzo scritto sono, ad esempio, quello che determina l’espulsione di Chip dal college, reso ben più drammatico nella serie TV, con evidenti implicazioni di natura sociologica e razziale, rispetto a quanto appare invece, un’ipotetica possibilità, nel romanzo; la dinamica dello scherzo al ballo delle debuttanti, francamente forzato; quello dello striptease durante l’assemblea in palestra, affidato ad un professionista nel romanzo ed invece decisamente più arrangiato nella serie TV, anche in questo caso siamo più dalle parti della parodia che della realtà; persino l’episodio che vede gli studenti Marya e Paul colti nudi a letto in atteggiamenti inequivocabili, a causa della spia di qualcuno e perciò cacciati dal college. Nel romanzo questo fatto succede prima dell’arrivo di Miles a Calver Creek. Alcune altre differenze invece sono più di forma che di sostanza e su altre ancora sorvolo opportunamente, perché altrimenti svelerei ciò che il lettore è giusto che scopra da sé leggendo il romanzo e/o vedendo la serie TV… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’) Continua a leggere…

Film: ‘Ritorno in Borgogna’ e ‘Un’Estate in Provenza’

RITORNO IN BORGOGNA

Titolo Originale: Ce Qui Nous Lie

Nazione: Francia

Anno: 2017

Genere: Commedia, Drammatico

Durata: 113’ Regia: Cédric Klapisch

Cast: François Civil (Jérémie), Ana Girardot (Juliette), Pio Marmaï (Jean), Jean-Marc Roulot (Marcel), María Valverde (Alicia), Yamée Couture (Océane), Karidja Touré (Lina), Florence Pernel (Chantal), Jean-Marie Winling (Anselme), Éric Caravaca (Il Padre), Sarah Grappin (La Madre), Tewfik Jallab (Marouan), Éric Bougnon (Gérard), Cédric Klapisch (Un Vendemmiatore), Bruno Raffaelli (Il Notaio)

CONTESTO NARRATIVO: Jean torna a casa dopo molti anni trascorsi all’estero perché il padre sta per morire. Ritrova il fratello Francois e la sorella Juliette già adulti, rispetto ai bambini che aveva lasciato. La loro famiglia è proprietaria di una bella fattoria in Borgogna e molte terre intorno dove viene coltivata la vite che produce vini pregiati. I rapporti fra Jean e il padre non sono mai stati cordiali ma il figlio maggiore arriva appena in tempo per un ultimo saluto ed una commovente riappacificazione. Juliette accoglie positivamente il ritorno del fratello mentre Francois, che nel frattempo si è sposato ed è padre di un bimbo, dopo un primo abbraccio gli rinfaccia la lunga assenza. Il padre intanto muore ed ora si tratta di mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti da lui per mandare avanti la tenuta. Jean ha girato il mondo nel frattempo ed ha una relazione complicata con Alicia, dalla quale ha avuto un figlio ed entrambi vivono in Australia dove coltivano a loro volta la vite in un territorio ancora più vasto. Nelle sue intenzioni c’è quella di raggiungerli nuovamente, appena sbrigate le pratiche testamentarie. Intanto si adopera con i fratelli ed i collaboratori abituali, più quelli assunti temporaneamente per gestire la vendemmia. Nel frattempo però devono anche trovare il modo di pagare l’onerosa tassa di successione che comporta, in assenza di liquidità, la necessità di vendere qualche terra o la casa, oppure indebitarsi. La discussione non è facile. Il tempo intanto corre e Jean non è più ripartito. Dopo quasi un anno, Alicia con il bimbo arrivano in Borgogna, invitati da Juliette di nascosto e l’occasione è utile per conoscere personalmente i fratelli di Jean e recuperare un traballante rapporto. Una nuova vendemmia intanto è alle porte ed Alicia ed il figlio sono ripartiti. Jean ha chiarito i suoi dubbi; i rapporti con i fratelli si sono consolidati ed è pronto per tornare in Australia per gestire gli affari e se tutto andrà bene, potrà aiutare anche i fratelli, senza essere costretti a vendere la loro proprietà, neanche quella parte che avrebbe voluto acquistare il suocero di Francois, che ha fiutato la possibilità di allargare i suoi già vasti possedimenti e dal quale infine Francois ha avuto la forza ed il coraggio di smarcarsi. 

VALUTAZIONE: una piacevole storia famigliare, fra i prestigiosi vigneti della Borgogna. Il regista Cédric Klapisch evita la facile retorica per proporre una vicenda che non presenta grandi colpi di scena ma trasporta lo spettatore dentro i bei panorami francesi, così simili ai nostri, dove si producono alcuni dei vini più apprezzati al mondo, mentre tre fratelli si ritrovano eredi di una importante proprietà e cantina, nella necessità non più procrastinabile di ri)conoscersi, diventare adulti responsabili e risolvere nel frattempo anche i loro personali problemi e quelli che hanno ora in comune. E’ anche una simpatica ed utile opportunità per comprendere le fasi della produzione vinicola, sino alla vendemmia e poi alla degustazione del prodotto finale. Cédric guarda al sodo e la sua opera lascia un bel retrogusto, come un vino riuscito e maturo. Voto:

UN’ESTATE IN PROVENZA

Titolo Originale: Avis de Mistral

Nazione: Francia

Anno: 2014

Genere: Commedia, Drammatico

Durata: 105’ Regia: Rose(lyne) Bosch

Cast: Jean Reno (Paul), Anna Galiena (Irène), Chloé Jouannet (Léa), Hugo Dessioux (Adrien), Aure Atika (Magali), Lukas Pelissier (Théo), Tom Leeb (Tiago), Hugues Aufray (Élie), Charlotte De Turckheim (Laurette), Raphaëlle Agogué (Émilie), Jean-Michel Noirey (Jean-Mi)

CONTESTO NARRATIVO: Iréne è la nonna di Léa e Adrien, che sono già grandi e il giovanissimo Théo (sordomuto), i quali non hanno mai conosciuto il nonno Paul perché molti anni prima ha litigato con la figlia Emilie e loro mamma. Da allora non si sono più parlati. Paul e Iréne vivono in Provenza, in una casa di campagna ed oltre che ortolano, lui è dedito alla produzione di olio d’oliva dalle molte piante che lui stesso ha selezionato e piantato. In conseguenza della separazione dei loro genitori, Iréne è andata sino a Parigi a prendere i nipoti per portarli in Provenza, per il periodo delle vacanze estive, ma tenendo all’oscuro Paul. Risentito per questa imposizione, accoglie i ragazzi alla stazione e poi anche a casa con evidente ostilità e spirito polemico, tipico anche di una evidente contrapposizione generazionale. Dal canto loro i ragazzi avrebbero fatto volentieri a meno della nuova esperienza, abituati agli agi della grande città; in quel casolare in mezzo alla campagna è pure complicato agganciare il segnale mobile per i loro smartphone. I primi giorni quindi sono di grande difficoltà relazionale, nonostante Iréne si prodighi per fare da tramite e cercare di smussar gli angoli. Un po’ alla volta però le parti iniziano a riavvicinarsi, anche perché Léa e Adrien, scoprono che i loro nonni anni addietro sono stati degli hippies e quindi contestatori delle convenzioni tradizionali. Ora invece, in particolare Paul sembra diventato un bacchettone che controlla in particolare la bella nipote Léa, la quale s’innamora di un macho durante una festa del paese più vicino e finisce per perdere la verginità, mentre Adrien se la spassa con alcune turiste straniere ma si è preso una cotta della gelataia Magalì che però ha parecchi anni più di lui. Il picccolo Théo invece ha imparato dal nonno che l’orto può essere anche molto divertente e la frutta matura colta dall’albero è molto più gustosa. Complice il contesto ambientale di provincia molto accogliente e semplice, ben diverso da quello frenetico e stressante parigino, la vacanza forzata per i nipoti si trasforma in un’utile esperienza di formazione. Anche per il nonno Paul però è l’occasione per uscire dalla torre di solitudine che si è costruito intorno, per riscoprire il piacere di rivedere vecchi amici, anche se i ricordi del passato non sono sempre piacevoli ma possono essere superati da un ritrovato calore familiare, magari anche per riappacificarsi con la figlia, prima che si trasferisca per lavoro a Montreal.

VALUTAZIONE: una storia sviluppata in sottile equilibrio fra ricordo, nostalgia, contrasti famigliari, generazionali e sociologici, senza mai eccedere sul fronte drammatico, che vede protagonista una coppia di nonni che vive in un casolare di campagna ed i loro nipoti che vengono da Parigi e si ritrovano a vivere assieme le vacanze estive. La regista Rose Bosch ci regala una sorta di delizioso viaggio indietro nel tempo, nella Provenza soleggiata e ricca di ulivi, dove ancora le feste paesane sono rimaste identiche ed autentiche; nella provincia che vive ancora di piccole cose, fra persone che si conoscono da sempre ed a volte si proteggono persino fra loro. La storia di Paul, Iréne ed i loro nipoti è l’occasione per sciogliere nodi famigliari che duravano da tempo e che inizialmente sembrava dovessero stringersi invece ancora di più. Per i giovani nipoti si tratta di scoprire una realtà molto lontana dalle loro abitudini e che non credevano potesse diventare anche piacevole e formativa. Voto:

Due prodotti del cosiddetto cinema medio, francese in questo caso, che guarda ai valori fondamentali della vita di relazione senza avere la pretesa di entrare nella storia del cinema, ma semmai con il più umile obiettivo d’intrattenere lo spettatore per un paio d’ore circa, con una trama rilassante ma non fine a se stessa, durante la quale ci si ritrova innanzitutto immersi nei panorami di due fra le più belle regioni di quella nazione, cioè rispettivamente la Borgogna e la Provenza. Al centro di entrambi i film in oggetto inoltre sono presenti i problemi tipici, ma resi particolari dalle rispettive storie, dei rapporti fra generazioni diverse, cui s’aggiunge la necessità di farsi carico delle responsabilità da parte di tre fratelli che si trovano, non improvvisamente, senza più i loro genitori in vita (ma non sembra mai il momento giusto), seppure ed è il caso di ‘Ritorno in Borgogna‘, il personaggio del padre in particolare era scomodo ed ingombrante. Oppure, come invece in ‘Un’estate in Provenza‘, sono i figli a subire per primi le conseguenze della separazione dei loro genitori e sono costretti, in aggiunta, a confrontarsi con un nonno dalla mentalità chiusa e sconosciuto sino a quel momento.

NDR = Per non generare confusione nel lettore, avendo deciso di trattare entrambi i film in un’unica recensione, da ora in poi il testo di questo colore riguarda specificatamente il solo ‘Un’estate in Provenza‘. Un’avvertenza: se non si sopportano gli spoiler, meglio evitare di proseguire nella lettura.

Poi c’è il clima, non solo meteorologico, della multicolore, semplice e solare provincia, così lontana e differente dalla prevalenza di solito della scala dei grigi in una grande metropoli, e per chi non ci ha mai vissuto prima, come i tre giovani protagonisti di ‘Un’estate in Provenza‘, è un po’ come compiere un viaggio a ritroso nel tempo, nel quale si devono confrontare, senza esserne stati preparati preventivamente, con compromessi di varia natura, ad iniziare dalle difficoltà di connessione per i loro smartphone, così scontata e stabile nelle grandi città come Parigi, per continuare con le scomodità logistiche, la rinuncia agli agi abituali dei loro appartamenti dei quartieri ed ‘arrondissement’ benestanti della capitale francese, neppure paragonabili con l’isolamento di un vecchio casolare, intorno al quale c’è solo campagna. Un soggiorno forzato, oltretutto, nel corso del quale però sono sottoposti ad un salutare ed utile percorso di formazione che, unito al recupero del rapporto con il nonno rimasto troppo a lungo lontano e sconosciuto, consente loro di tornare nella società tecnologica dalla quale provengono, umanamente e psicologicamente più ricchi e forti.

Sia chiaro, non siamo di fronte ad un cinema che scava in profondità nella psicologia dei personaggi e dei sentimenti, piuttosto quello che ci viene descritto, in entrambi i film in oggetto, che presentano come vedremo parecchie evidenti analogie fra loro, è direttamente palpabile e riconoscibile. Ad esempio, il risentimento che prova Jean, maturato negli anni della crescita nei confronti del padre perché lo caricava di responsabilità eccessive, per tenere d’occhio e lontani dai pericoli la sorella ed il fratello minori, verso i quali il genitore era invece solitamente più comprensivo. Rimproverava perciò Jean alla minima occasione, senza concedergli per il resto altra scelta se non seguirlo nel suo lavoro intorno alle vigne. Doveva imparare ed obbedire insomma, sinché appena ha potuto, Jean se n’è andato. Il regista Cédric Klapisch utilizza alcuni flashback, anche formalmente eleganti e narrativamente efficaci (come sovrapporre il viso di allora a quello di oggi dietro al vetro della finestra), che riportano Jean a quei momenti e poi in una sorta di transizione generazionale ci mostra posti e cose che sono rimaste le stesse, mentre sono cambiate le persone che li frequentano ed utilizzano nel frattempo, come l’altalena che pende dai rami dell’ombroso albero posto in mezzo alla corte, sulla quale giocavano lui ed i suoi fratelli e che si ritrova dopo molti anni a dondolarci il suo stesso figlio.

Ma è risentimento anche quello di Francois nei confronti del fratello maggiore Jean, reo di non aver sentito il dovere, alcuni anni prima, di tornare per i funerali della loro madre, quando è venuta a mancare prematuramente, seppure, come egli spiegherà in seguito, aveva i suoi buoni motivi per compiere quella dolorosa scelta e giustificare la sua assenza. E’ risentimento anche quello che cova Paul nei confronti della figlia Emilie, ricambiato a sua volta, poiché è rimasta incinta a diciassette anni, quando aveva un lusinghiero curriculum scolastico e la sua testarda reazione nel voler comunque portare a termine la gravidanza l’ha spinta ad andarsene di casa e da allora non si sono più parlati né visti. Di figli poi Emilie ne ha fatti altri due e neppure loro hanno mai visto il nonno sino ad allora. 

Un altro tema presente in entrambe le opere è quello dello scontro generazionale. E’ già evidente quello fra Jean ed il padre ma risalta anche fra Francois e gli ossessivi suoceri che puntualmente alle nove dell’unico giorno della settimana in cui potrebbero dormire un po’ più a lungo, cioè la domenica mattina, svegliano lui, la moglie ed il bambino nella culla dove dormiva beato ed inizia a piangere, per consumare il rito della colazione assieme, così che il suocero, abituato ad imporre le sue scelte ai lavoranti nella tenuta di famiglia, possa insistere ancora nel tentativo di organizzare anche la vita lavorativa del genero… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’) Continua a leggere…

Film: ‘C’era Una Volta a… Hollywood’

CERA UNA VOLTA A… HOLLYWOOD

Titolo Originale: Once Upon a Time in Hollywood

Nazione: USA, UK

Anno: 2019

Genere: Commedia, Drammatico, Rievocativo

Durata: 161’ Regia: Quentin Tarantino

Cast: Leonardo DiCaprio (Rick Dalton), Brad Pitt (Cliff Booth), Margot Robbie (Sharon Tate), Emile Hirsch (Jay Sebring), Margaret Qualley (Pussycat), Timothy Olyphant (James Stacy), Julia Butters (Trudi Fraser), Austin Butler (Charles ‘Tex’ Watson), Dakota Fanning (Lynette Fromme), Bruce Dern (George Spahn), Mike Moh (Bruce Lee), Luke Perry (Wayne Maunder), Damian Lewis (Steve McQueen), Al Pacino (Marvin Schwarzs), Nicholas Hammond (Sam Wanamaker), Samantha Robinson (Abigail Folger), Rafał Zawierucha (Roman Polański), Lorenza Izzo (Francesca Capucci), Costa Ronin (Wojciech Frykowski), Damon Herriman (Charles Manson), Lena Dunham (Catherine ‘Gypsy’ Share), Madisen Beaty (Patricia ‘Katie’ Krenwinkel), Mikey Madison (Susan ‘Sadie’ Atkins), James Landry Hébert (Steve ‘Clem’ Grogan), Maya Hawke (Linda Kasabian), Victoria Pedretti (Leslie ‘Lulu’ Van Houten), Scoot McNairy (‘Business’  Bob Gilbert), Clifton Collins Jr. (Ernesto il Messicano), Dreama Walker (Connie Stevens), Rachel Redleaf (Cass Elliot), Rebecca Rittenhouse (Michelle Phillips), Rumer Willis (Joanna Pettet), Spencer Garrett (Allen Kincade), Clu Gulager (Proprietario della ‘Larry Edmunds Bookshop’), Rebecca Gayheart (Billie Booth), Kurt Russell (Randy), Zoë Bell (Janet), Michael Madsen (Sceriffo Hackett), Perla Haney-Jardine (Venditrice di Sigarette)

CONTESTO NARRATIVO: Rick Dalton è un attore che ha raggiunto una discreta popolarità con una serie televisiva di genere western intitolata ‘Bounty Law’, senza però mai fare il decisivo salto di qualità. Cliff Booth è uno stuntman ed amico che lavora in esclusiva per lui, gli fa piccoli lavoretti come aggiustare l’antenna della sua villa a Hollywood ed è anche il suo autista da quando Rick si è reso colpevole di alcuni incidenti per stato di ebbrezza e gli hanno ritirato la patente. Cliff, nonostante il carattere bonario, pare che abbia sulla coscienza la morte della moglie Billie che lo tormentava continuamente ed anche negli ‘studios’ si è fatto una cattiva fama dopo una serie di bravate, l’ultima delle quali è stata una zuffa niente meno che con Bruce Lee, campione d’arti marziali contro il quale lo stuntman, forte di una notevole autostima, non ha mostrato alcun timore o riverenza. Possiede inoltre un’auto malconcia che guida in modo spericolato e dorme dentro un roulotte assieme al suo prestante pitbull ‘Brandy’ che ubbidisce ad ogni suo comando. La villa sopra quella di Rick è abitata dal regista Roman Polanski, la sua bellissima moglie Sharon Tate ed il suo ex, l’imprenditore Jay Sebring. L’agente Marvin Schwarzs mette in guardia Rick dal proseguire la carriera in ruoli da cattivo perché potrebbe diventare una caratterizzazione autolesionistica per il suo pubblico. Poiché Rick è in fase calante di popolarità, Marvin gli suggerisce di andare in Italia dove si sta sviluppando un sottogenere di film, gli ‘spaghetti western’, nei quali ha tutte le caratteristiche per diventare una star. Rick teme invece che la lontananza da Hollywood potrebbe nuocere definitivamente alla sua carriera. Intanto Cliff accetta di dare un passaggio nell’auto di Rick ad una giovane minorenne hippy, Pussycat, che gli aveva già lanciato alcuni sguardi ed ammiccamenti in precedenza allo stesso incrocio e l’accompagna sino ad un vecchio Ranch, dove vive in una Comune, usato un tempo come set e nel quale lui ha lavorato otto anni prima, di proprietà del vecchio George Spahn. All’arrivo, Cliff si trova di fronte allo sguardo inquietante di un gruppo di altre ragazze e qualche loro compagno. Insospettito per la salute di George, chiede di vederlo ma  di fronte ad alcune scuse, insiste per parlargli, rendendosi conto poi però che è cieco ed affetto probabilmente da Alzheimer. Tornando all’auto, scopre però che gli hanno bucato una gomma ed allora costringe il probabile responsabile, a suon di cazzotti, a montargli la gomma di scorta, prima di andarsene, pochi istanti prima dell’arrivo a cavallo di un altro componente la Famiglia, avvisato nel frattempo e tornato precipitosamente indietro da una visita guidata di un paio di clienti nei dintorni. Dopo una prova incolore in ‘Lancers’, una nuova serie western con il regista Sam Wanamaker, durante la quale dimentica spesso le battute per colpa dell’alcol e nonostante un’ultima performance elogiata da tutti, compresa, Trudi, una bambina molto perspicace che fa parte del cast, Rick decide di seguire il consiglio di Schwarzs e volare in Italia accompagnato dal fido Cliff. Difatti ottiene un buon successo, una serie di altre scritture e guadagna anche tanti soldi che però in parte sperpera nella vita mondana e notturna romana, cui s’aggiungono quelli necessari a mantenere i vizi della moglie italiana Francesca Capucci, con la quale si è legato nel frattempo. In assenza di Polanski, impegnato sul set di un nuovo film in UK, dal canto suo Sharon Tate, che è incinta, si distrae facendo shopping a Los Angeles. Davanti ad un cinema nel quale è in programmazione un film, al quale lei stessa ha partecipato, non resiste alla tentazione di entrare in sala e godersi le scene ed i positivi commenti degli spettatori. Tornati a Hollywood con Francesca dopo sei mesi, Rick confessa a Cliff di non poterlo più tenere per ragioni economiche e decidono di andare a trascorrere un’ultima serata assieme in un ristorante messicano, mentre la moglie dorme per superare il ‘jet lag’ e ‘Brandy’ fa la guardia. Anche Sharon Tate, in compagnia di Jay ed una coppia di amici è uscita a cena in un altro ristorante messicano. Più tardi tornano tutti a casa nelle rispettive ville, ma mentre Cliff esce per portare il pitbull a sgranchirsi le zampe nei dintorni, un’auto sgangherata con un ragazzo e tre compagne della Famiglia capeggiata da Charles Manson giunge sino all’ingresso della villa di Rick. Quello che succede dopo è il racconto ripensato da Tarantino della strage che l’8 agosto 1969 si è consumata a Cielo Drive… 

VALUTAZIONE: un film di Tarantino lo si ama o lo si odia. Io appartengo alla prima categoria, ma ritengo sia difficile comunque in questo caso rimanere indifferenti di fronte all’abilità del regista americano nel dominare con grande padronanza e stile un’opera che racconta contemporaneamente tre storie distinte, pur legate fra loro da un filo conduttore, nell’ambito di una fedele ricostruzione di Hollywood di fine anni sessanta. Due sono di fantasia: quella dell’attore Rick Dalton, incapace di reagire ad una carriera volta al ribasso e quella del suo stuntman Cliff Booth che gli sta fedelmente accanto da dieci anni ma è comunque protagonista di curiosi avvenimenti personali. C’è poi invece la vicenda autentica di Sharon Tate con la quale riviviamo la terribile strage di Cielo Drive, che Tarantino però rilegge a modo suo, sorprendendoci. Saltando continuamente da un personaggio all’altro, senza perdere mai di vista però l’insieme e l’armonia della trama, il film scorre che è un piacere nonostante duri oltre due ore e mezza, grazie anche alla bravura degli interpreti ed alla personalità dello stesso regista e sceneggiatore. Voto:

Mentre il precedente ‘The Hateful Eight‘ (clicca sul titolo se vuoi leggere la mia recensione di questo film) iniziava con uno spettacolare 70 mm. panoramico, stavolta la nona regia di Quentin Tarantino propone, nelle prime immagini, un bianco e nero in 16 mm. e formato 4/3, cioè quello dei TV di una volta, che mostra uno spot della serie western intitolata ‘Bounty Law‘, interpretata da Rick Dalton (Leonardo Di Caprio), nella quale si raccontano le avventure di un infallibile cacciatore di taglie. Subito dopo assistiamo all’intervista sul set dello stesso attore, affiancato dalla sua personale controfigura, lo stuntman Cliff Booth (Brad Pitt), con il quale scherza un po’ riguardo somiglianza e rischio del ruolo. Si torna quindi al colore ed al formato ampio classico dei film a 35 mm. in analogico, con la ripresa in primo piano di un cartellone pubblicitario che assomiglia, nel dettaglio della bocca perlomeno, alla famosa cover dell’album ‘In The Court Of The Crimson King‘ del gruppo King Crimson (clicca sul titolo anche in questo caso se fossi interessato a leggere la mia recensione di questa pietra miliare della musica progressive), pubblicato nello stesso periodo di ambientazione del film. Il cartellone è posto di fronte al parcheggio della villa di Rick, il quale sale nella sua auto assieme a Cliff che è però al volante, per scendere dalla collina in direzione dell’abitato di Los Angeles.

Cambia ancora lo scenario e, sullo scorrere dei titoli di testa e la musica di uno dei brani classici di quel periodo storico contenuti nella ricchissima colonna sonora, la coppia Roman Polanski (Rafał Zawierucha) e Sharon Tate (Margot Robbie), appena giunta all’aeroporto di Los Angeles, sale su un’auto sportiva scoperta per raggiungere la loro villa, posta immediatamente sopra quella di Rick, a Hollywood ovviamente. Nel frattempo quest’ultimo e Cliff stanno entrando in un pub. Una didascalia riporta la data di Sabato, 8 Febbraio 1969, esattamente sei mesi prima della giornata divenuta tristemente famosa negli Stati Uniti (e non solo) per la strage che ha visto protagonisti un gruppo di accoliti di Charles Manson, in un paese già dilaniato da tempo dalla guerra in Vietnam. Rick Dalton ha un appuntamento con l’agente di spettacolo Marvin Schwarzs (Al Pacino) e, se ce ne fosse ancora bisogno, ci rendiamo conto a questo punto che il film, anche per i nomi degli attori che compongono il cast (molti altri noti si aggiungeranno in seguito in parti più o meno importanti), non è un’opera di passaggio ma, guardando anche al titolo, fra fantasia e realtà, è quella più autobiografica nella filmografia di Quentin Tarantino ed ha anche l’ambizione di rievocare lo spirito di Hollywood, del cinema ed anche della società americana in senso più lato, di quel periodo storico. E ci riesce benissimo!

 

Il celebre regista americano è diventato nel tempo un personaggio carismatico, così che molti attori di primo piano, pur di recitare nei suoi film, sono disposti a ridursi i compensi (Di Caprio ad esempio del 25%). Quest’ultima opera non fa eccezione, altrimenti, per rimanere dentro il pur ricco budget di ben 95 milioni di dollari, messo a disposizione dalla produzione Sony (con la quale il regista ha sostituito all’ultimo momento la compagnia di Harvey Weinstein, sprofondato nella melma delle note accuse di molestie sessuali), tre interpreti del calibro di Leonardo Di Caprio, Brad Pitt e Al Pacino, non sarebbe stato possibile vederli assieme e restare comunque nei limiti dei costi. Specie se si considera che una buona fetta del budget è stata destinata al direttore della fotografia Robert Richardson ed agli scenografi Barbara Ling e Nancy Haigh (premiati poi con l’Oscar, assieme a Brad Pitt) per ricostruire alcuni luoghi ed il Sunset Boulevard di Hollywood proprio com’erano al tempo. Si sa che Tarantino non è autore da compromessi, nonostante sia un cultore di ‘b-movie’ e ‘splatter’, girati spesso alla buona e poi un appassionato di ‘spaghetti-western’, polizieschi e film erotici italiani, proprio del corrispondente periodo d’ambientazione di questa sua ultima fatica.

Le aspettative nei suoi riguardi sono sempre altissime, ogni suo film viene atteso come un evento e perciò gli si chiede ogni volta un nuovo capolavoro. E’ una pretesa ingenerosa in realtà, per un autore che al pari di pochi altri registi ‘cult’ (si pensi, ad esempio, a Stanley Kubrick e Terrence Malick) ha una filmografia che per numero di opere sta sulle dita di due mani e fra loro c’è anche il capolavoro simbolo degli anni novanta, cioé ‘Pulp Fiction‘ (vale quanto detto in precedenza ed a seguire per i titoli sopra i quali il mouse mostra una manina, riguardo la disponibilità della mia recensione relativa). Ogni volta che ha messo la sua firma, Tarantino ha realizzato comunque qualcosa che è rimasto nella memoria dei cinefili, degli appassionati e dei fan, cioè un simbolo del genere di appartenenza, che si tratti di poliziesco, noir, thriller, grottesco, western o, come in questo caso, di una commedia rievocativa.

Il titolo ‘C’era una volta a… Hollywood‘ appare sia nei titoli di testa che in quelli di coda, ma in questi ultimi, non a caso, ‘C’era una volta… a Hollywood‘ i puntini di sospensione precedono la lettera ‘a’, come a voler sottolineare la differenza fra una storia specifica che sta per iniziare, specificatamente a Hollywood, rispetto alla frase classica che inizia un qualsiasi racconto nel quale però la determinazione del luogo può anche essere secondaria o inesistente. Al di là di questi sofismi, la sceneggiatura rispetta ancora una volta una costante del cinema di Quentin, cioè il saper raccontare una storia, al di là del significato e dell’importanza della stessa. Tarantino, alla stregua di alcuni rari autori, è un ‘one man show‘, cioè non si occupa solo della regia, ma anche del soggetto (a volte in compartecipazione) e della sceneggiatura (sempre in esclusiva) dei suoi film. E difatti, anche in questo caso si dimostra un affabulatore straordinario, capace di catturare l’attenzione dello spettatore anche su una singola scena che si trasforma in ‘cult’, anche se spesso è interlocutoria rispetto al filo conduttore della trama, come se fosse lo sketch di uno spettacolo di varietà, senza che ciò però strida e suoni estraneo all’equilibrio ed appropriatezza del medesimo nel suo insieme. Due momenti fra tutti: il dialogo fra Rick Dalton e Trudi, la bambina ‘matura’ e spigliata durante la pausa sul set e poi la sfida fra Cliff Booth e Bruce Lee, re delle arti marziali. 

In quest’ultima opera Tarantino ha ripreso in parte lo schema narrativo di ‘Pulp Fiction‘ ed ha utilizzato anche quello tipico di molti racconti d’ambientazione storica e/o avventurosa. Non a caso questo soggetto originariamente non doveva essere un film, bensì un romanzo, intorno al quale l’autore ronzava già da cinque anni circa, sino a convincersi infine che era più adatto ad essere sviluppato come sceneggiatura per il cinema. Ci sono infatti tre personaggi principali: Rick, Cliff e Sharon. Tre storie diverse fra loro, nonostante i primi due siano in relazione di lavoro, ma anche di amicizia. Sharon Tate invece solo alla fine del film arriva a conoscere personalmente Rick, ma non Cliff invece ed è curioso anche questo particolare di due protagonisti, quasi tre, che però non s’incontrano mai direttamente. La trama gira intorno a loro e procede in maniera parallela, saltellando da uno all’altra come nei capitoli appunto di un romanzo, mantenendo però la progressione temporale ed affidandosi al flashback per i ricordi e le puntualizzazioni riguardo il passato, compresi alcuni spezzoni di film e serie reali o inventati secondo necessità(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’) Continua a leggere…

Serie-Doc TV: ‘The Last Dance’ e Film: ‘Pelé’

THE LAST DANCE (Serie-Doc TV)

Titolo Originale: The Last Dance

Nazione: USA

Anno: 2020

Genere: Biografico, Sportivo

Durata: 10 Puntate da circa 50′ cadauna 

Ideatore: Michael Tollin  Regia: Jason Hehir

Cast: Michael Jordan, Phil Jackson, Jerry Krause, Scottie Pippen, Dennis Rodman, Steve Kerr, Bill Wennington, John Salley, B.J. Armstrong, Charles Barkley, Gary Payton, Patrick Ewing, Magic Johnson, Larry Bird, Horace Grant, Reggie Miller, John Paxson

CONTESTO NARRATIVO: Michael Jordan, grandissimo campione del basket NBA, ha vinto con la squadra dei Chicago Bulls e sotto la guida del fedelissimo coach Phil Jackson, tre Anelli (Campionati) dell’NBA consecutivi, un evento straordinario per la prestigiosa lega sportiva americana. Al culmine dalla fama, stretto fra la pressione dei tifosi adoranti ed irretito dalle continue polemiche con alcuni media e con il general manager Jerry Krause, decide di ritirarsi prematuramente. La vera ragione però è che a seguito della morte violenta del padre, cui era legatissimo, non riusciva più ad appassionarsi al gioco ed al ruolo di leader della squadra, esemplare in allenamento ed esigente con se stesso come con i compagni. Dopo una parentesi di un anno e mezzo nel baseball, lo sport che giocava da bambino, nel quale da stella torna ad essere uno qualsiasi all’interno della sua squadra, depurato dalle scorie che l’avevano spinto a quella traumatica scelta, torna al vero amore, il basket, nel quale è stato quasi sempre decisivo per i Bulls. Dopo un primo periodo di difficoltà per il riadattamento, raggiunge i livelli precedenti, spingendo la squadra di Chicago a vincere nuovamente l’Anello per altri due anni consecutivi. La proprietà della ‘franchigia’ ed il general manager sono però convinti che il ‘roster’, cioè la rosa, sia costituita da molti giocatori di primo piano oramai troppo avanti negli anni ed hanno intenzione di rinnovarla con dei giovani di talento da far crescere intorno a Michael Jordan. Pertanto decidono di voltare pagina anche riguardo il coach Phil Jackson, al quale concedono solo un ultimo anno di contratto. Michael è in profondo disaccordo con la dirigenza, ma consapevole che non riuscirà a cambiare le cose, assieme ai suoi compagni si allena e gioca al meglio l’ultima stagione, da lui definita ‘the last dance’ per quella fantastica squadra. Cogliendo di sorpresa un po’ tutti, con il pensiero sempre rivolto al padre che non c’è più e che lo seguiva ogni partita dagli spalti, riesce ancora una volta a trascinare i Chicago Bulls e realizzare un’altra tripletta di Anelli, impresa riuscita nella storia NBA solo alle altre due ‘franchigie’ più titolate: Boston Celtics e Los Angeles Lakers. Convinto che se gliene avessero dato la possibilità, quella squadra avrebbe potuto vincere anche un settimo titolo, Michael Jordan decide di ritirarsi una seconda volta.   

VALUTAZIONE: non è, come potrebbe sembrare osservando la locandina e il nome del campione Michael Jordan, una Serie TV che parla solo di basket, destinata ad un pubblico confidente con questo sport ed in particolare dell’NBA che ne è la massima espressione. In realtà è molto di più ed è fruibile da chiunque, perché racconta una fantastica vicenda umana di riscatto e successo e, grazie ad un accordo fra la ‘franchigia’, la squadra e la troupe, porta lo spettatore ad essere partecipe di ciò che avviene all’interno della squadra, durante una polemica ma anche esaltante ultima stagione, appunto ‘the last dance’. Si assiste agli allenamenti, ai dialoghi fra coach e giocatori, fra i giocatori stessi e la dirigenza. Si vive, come a farne parte, il clima negli spogliatoi durante le partite, così che emergono i diversi caratteri, le debolezze, i capricci, gli scontri, le delusioni per le sconfitte e le gioie per le vittorie. Attraverso la testimonianza dello stesso Jordan oggi, che rimanda a episodi della sua crescita come atleta e uomo, la Serie TV racconta l’inebriante ruolo della star, grazie ad immagini di repertorio che lo hanno portato ad un crescendo inarrestabile di successo, che si è anche trasformato però in una gabbia dalla quale, nel momento peggiore della sua vita, non ha potuto fare a meno di fuggire, seppure temporaneamente. Voto:

PELE’

Titolo Originale: Pelé: Birth of a Legend

Nazione: USA

Anno: 2016

Genere: Biografico, Sportivo

Durata: 107′

Regia: Jeff e Michael Zimbalist

Cast: Kevin de Paula (Pelé), Leonardo Lima Carvalho (Pelé da bambino), Seu Jorge (Dondinho, padre di Pelé), Mariana Nunes (Celeste Arantes, madre di Pelé), Milton Gonçalves (Waldemar de Brito), Seth Michaels (Mario Zagallo), Vincent D’Onofrio (Feola), André Mattos (allenatore del Santos), Phil Miler (Narratore), Rafael Henriques (Yuri a 14 anni), Felipe Simas (Garrincha), Mariana Balsa (Lucia), Eric Bell Jr. (Zoca), Diego Boneta (José Altafini), Fernando Caruso (Zito), Tonya Cornelisse (Ragazza Svedese), Colm Meaney (George Raynor), Charles Myara (Dottor Gosling), Pelé (Se stesso, seduto nella sala d’aspetto dell’Hotel), Rodrigo Santoro (Annunciatore Brasiliano)

CONTESTO NARRATIVO: Dico è un bambino che vive nelle favelas di Bauru, una cittadina non distante da Santos, in Brasile. Gioca assieme ai coetanei a piedi scalzi con palle di stracci legati fra loro, dimostrando sin da piccolo notevoli seppure ancora grezze doti calcistiche. Il padre è stato un buon giocatore in gioventù ma poi ha dovuto smettere per problemi fisici. Ora lavora come addetto alle pulizie in un ospedale. Anche la moglie svolge lavori di pulizia presso famiglie benestanti. Dopo la disfatta della nazionale brasiliana nel mondiale del 1950, perso in casa contro l’Uruguay, anche il padre di Dico è profondamente deluso e lo porta con sé al lavoro, insegnandogli nelle pause la tecnica della ‘ginga’ (un misto di abilità e precisione). Lo osserva in seguito quando, assieme ai compagni s’iscrive di nascosto ad un torneo giovanile e Pelé li conduce a sfiorare la vittoria in finale, dopo un’incredibile rimonta, contro la spocchiosa squadra di Altafini. Notato dall’osservatore Waldemar de Brito e grazie ad una iniziativa della madre, Pelé partecipa ad un provino della squadra del Santos e viene immediatamente scelto. La sua fantasia e tecnica individuale però è malvista dall’allenatore delle giovanili che predilige il gioco schematico europeo. E’ de Brito a trattenerlo quando Pelé sembra deciso a rinunciare e di lì a breve diventa infatti una star delle giovanili del Santos, segnando molti gol, poi della prima squadra ed infine viene convocato in nazionale a soli 17 anni. Un infortunio ad un ginocchio rischia di pregiudicargli la carriera ed il mondiale in Svezia, dove comunque viene portato seguendo le cure di un medico specialista. Salta le prime partite, ma quando alcuni suoi compagni sono costretti all’infermeria causa il gioco duro di alcune nazionali europee, viene schierato in campo ancora convalescente dal tecnico Feola nella semifinale contro la Francia, nonostante quest’ultimo sia del parere, come molti altri, che il Brasile abbia perso il mondiale nel 1950 a causa della pratica troppo fantasiosa ma poco concreta della ‘ginga’. Pelé però trascina i suoi compagni ad una rimonta, segnando tre reti e mettendo in risalto la sua tecnica straordinaria. La finale contro i padroni di casa nasce in un clima di provocazione da parte del tecnico svedese, ma Feola oramai convinto che non si può ingabbiare l’indole dei suoi giocatori, li invita a giocare come sanno, nello spirito del divertimento, prima ancora del risultato e dopo un iniziale svantaggio, il Brasile dilaga, grazie al gioco dei suoi funambolici giocatori, come il trio d’attacco Vavà, Didì e Pelé, vincendo la partita ed il mondiale per 5-2, facendo ballare tutti i loro tifosi a casa, impazziti di gioia, compresi i genitori di quest’ultimo.

VALUTAZIONE: fra romanzo, che spesso prevale nel calcare appositamente la mano, e realtà, la vicenda del più grande calciatore della storia, secondo molti, viene raccontata senza però troppo indugiare sui tecnicismi del gioco, che sarebbero incomprensibili per chi non ha confidenza con il calcio. E’ una storia per molti aspetti commovente, a volte un po’ troppo insistente al riguardo, ma che mette in scena anche momenti credibili di vita nelle favelas, compresa la difficoltà non solo di sopravvivere ma anche di superare le prevaricazioni dei meno deboli su quelli più poveri ed indifesi di loro. Pelé è però anche l’esempio di come il talento ed i sacrifici, oltre all’indispensabile fortuna, sono il tramite per smarcarsi dal più pericoloso avversario, cioè la rassegnazione della miseria e ad un’esistenza anonima, sino a diventare una star dello sport a livello mondiale. Un’opera che, pur con qualche esagerazione, anche di natura calcistica, si vede con scioltezza, nonostante i limiti di sceneggiatura ed un livello recitativo piuttosto modesto in generale. Notevole comunque la somiglianza fisica fra Kevin de Paula e il vero Pelé, che compare in un cammeo ma senza rappresentare se stesso. Voto:  

In un periodo segnato negativamente anche per lo sport dalle conseguenze del coronavirus, che ha costretto le federazioni sportive di tutto il mondo allo stop in ogni competizione, può essere consolatorio ma anche un’occasione utile rivivere le storie di alcuni campioni che nelle varie discipline sono diventati proverbiali e sinonimi delle stesse, grazie alle loro imprese sportive straordinarie, pur essendo, come in questo caso, caratterialmente molto diversi fra loro e provenendo però, in entrambi i casi, da famiglie povere e luoghi fra i più malfamati e pericolosi dei rispettivi paesi d’origine. Ne sono un esempio le due opere in oggetto, per quanto molto distanti sia per tipologia che per modalità di approccio, struttura, finalità e lunghezza, essendo la prima una Serie TV in dieci puntate che dura complessivamente oltre nove ore e l’altro un film di poco meno di due.

Chi non avesse mai sentito parlare di Michael Jordan sappia, detto in maniera molto sintetica, che si tratta di un giocatore di basket americano che ha fatto la storia di questa disciplina sportiva, vincendo complessivamente sei campionati NBA con la stessa squadra, i Chicago Bulls, che mai erano riusciti prima a conquistare il prestigioso Anello, cioè il titolo di Campioni, che nel basket equivale ad una sorta di incoronazione a livello mondiale. Questa impresa è riuscita ai Bulls in due distinti periodi: una prima tripletta negli anni 1991-92-93, frutto di un predominio assoluto; una seconda invece, molto sorprendente nelle dinamiche e nelle aspettative, negli anni 1996-97-98, quando ormai si considerava superata la fase di migliore competitività della squadra. Michael Jordan ne è stato l’artefice, sia per la qualità che per il carisma che lo contraddistinguevano, nonostante fra i suoi compagni ci fossero giocatori di livello assoluto come Scottie Pippen, Horace Grant, Dennis Rodman, Steve Kerr ed il croato Toni Kukoc. L’importanza della sua presenza sta anche nel fatto che i sei titoli sono stati conquistati in otto anni, ma nei due che la franchigia di Chicago non c’è riuscita, cioè nel 1994-95 fra le due triplette, Michael Jordan non c’era, perché in quella parentesi si era temporaneamente ritirato. Un caso unico nello sport di un campione che ha lasciato nel momenti di massimo livello per andare a giocare un altro sport, cioè il baseball e per giunta in una squadra di seconda lega, sempre di Chicago, dove non era nessuno. Se non fosse, che aveva sentito il bisogno psicologico di staccare, specie dopo la morte prematura e violenta del padre, per lui un vero e proprio punto di costante riferimento, Il suo nome comunque muoveva ugualmente frotte di spettatori quali quella società aveva mai visto in precedenza, non certo per il livello di gioco che Jordan era capace di esprimere, neppure paragonabile lontanamente a quello che era capace di esprimere nel basket.

La Serie TV che ne ripropone la carriera nasce perciò da un curioso progetto ed esperimento dell’ultimo anno, al quale Jordan stesso ha dato il nome di ‘The Last Dance‘. Più che una scelta o raggiunta consapevolezza di non poter aspirare ad altri successi nell’immediato futuro, è stata una imposizione del proprietario, Jerry Reinsdorf e soprattutto del general manager Jerry Krause, che pure quella squadra aveva costruito e con il quale però Michael non ha mai avuto un gran feeling. I due Jerry erano convinti che fosse arrivato il momento di voltare pagina, considerando conclusa la fase più produttiva in termini di risultati di quel ‘roster’, cioè la rosa e la necessità pertanto di rinnovarla per tempo, al fine di anticipare l’inevitabile declino.

Un bel coraggio comunque, perché né Michael, né i compagni con i quali aveva condiviso quella serie di successi, si erano rasseganti a non essere più in grado di competere ai massimi livelli e d’altronde, come dargli torto, erano ancora i campioni in carica degli ultimi due anni! In dieci puntate di circa un’ora cadauna riviviamo perciò assieme ai protagonisti quell’ultima stagione, non solo dal punto di vista agonistico ma proprio dal di dentro dello spogliatoio dove ad una troupe era stato concesso il permesso di entrare e filmare ciò che costantemente avveniva, senza filtri. Le testimonianze dello stesso Michael Jordan (e di altri suoi compagni) seduto in poltrona nella sua sontuosa villa (curiosamente la grande vetrata a volte mostra la luce del giorno, altre lo scuro della sera), nel momento in cui le oltre cinquecento ore di registrazione sono state, dopo anni di tentennamenti, discussioni, rinunce e rilanci, montate e ridotte a dieci ore circa, si riferiscono anche a filmati ed interviste di repertorio che spaziano sull’intera carriera di questo straordinario giocatore. Quindi da un lato le dieci puntate raccontano l’ultima danza, appunto, di quella straordinaria squadra; dall’altro nel corso delle stesse affrontano, per discuterne la sostanza, alcuni degli episodi, controversie e personaggi più significativi di quella stessa stagione, con testimonianze a posteriori dello stesso Michael Jordan e degli altri protagonisti, spesso senza peli sulla lingua che evidenziano le contrapposizioni di opinione e di carattere, rimaste vive nonostante il tempo trascorso prima della realizzazione della Serie TV.

Non dissimile per fama e considerazione negli appassionati di calcio è il giocatore Edson Arantes do Nascimento, detto Pelé, una figura divenuta leggendaria con il passare del tempo, ma completamente differente, rispetto alla Serie TV su Michael Jordan, è l’approccio del film che ne ricostruisce in un paio d’ore la storia, partendo dai primi anni quando lo chiamavano ancora Dico ed era nato nelle ‘favelas’, cioè come sono definiti i sobborghi più poveri delle città in Brasile. A sottolineare ulteriormente le differenze con la Serie TV su Michael Jordan, che è interpretata dagli stessi autentici protagonisti, essendo realizzata nello stile del reportage, quella su Pelé è invece una sceneggiatura romanzata, recitata da attori diversi che riflettono le fasi salienti della sua vita d’atleta, da quando era un ragazzino sino all’affermato diciassettenne che decide con i suoi gol e le sue irresistibili azioni il mondiale del 1958 in Svezia… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’) Continua a leggere…

Film: ‘Parasite’

PARASITE

Titolo Originale: Gisaengchung

Nazione: Corea del Sud

Anno: 2019

Genere: Thriller, Drammatico, Commedia

Durata: 132’ Regia: Bong Joon-ho

Cast: Song Kang-ho (Kim Ki-taek), Lee Sun-kyun (Park Dong-ik), Cho Yeo-jeong (Choi Yeon-kyo), Choi Woo-shik (Kim Ki-woo), Park So-dam (Kim Ki-jung), Lee Jung-eun (Gook Moon-gwang), Park Myeong-hoon (Oh Geun-se), Chang Hyae-jin (Kim Chung-sook), Jung Ziso (Park Da-hye), Jung Hyeon-jun (Park Da-song), Park Seo-joon (Min-hyuk)

CONTESTO NARRATIVO: I quattro componenti la famiglia Kim: padre, madre e due figli già adulti, tutti disoccupati, vivono in una zona popolare di Seul dentro un miserabile scantinato sotto il livello della strada, guadagnandosi il minimo indispensabile per sopravvivere. Con un po’ di fortuna e abili stratagemmi riescono uno alla volta a farsi assumere dai Lee, una benestante famiglia, prendendo il posto del personale di servizio, senza dichiarare però la loro parentela. La famiglia Lee è proprietaria di una bella villa nella zona più elegante della capitale coreana ed è costituita a sua volta dal padre, a capo di una società tecnologica, dalla madre e da due figli: una liceale poco brillante a scuola ed un bambino appassionato di pellerossa che però ha subito un trauma ed è diventato epilettico dopo aver visto una notte, secondo lui, un fantasma che si aggirava per casa. L’inappuntabile domestica dei Lee infatti nasconde da tempo nella stessa villa un compagno che, per sfuggire ai creditori, vive in un bunker sotterraneo, la cui esistenza è ignota ai Lee ed al quale si accede dal sottoscala, muovendo un mobile dietro al quale c’è una porta. Un giorno, mentre la famiglia Lee è fuori città in un campeggio ed i Park si godono la villa, mangiando ed ubriacandosi in sala, suona il citofono ed appare la domestica licenziata che riesce a convincere la sua sostituta a farla entrare per recuperare un oggetto nel sottoscala che non aveva fatto in tempo a portare via. La signora Park scopre così l’esistenza dell’uomo nascosto ma inavvertitamente gli altri tre componenti la sua famiglia, che non dovrebbero essere nella villa quella sera, scivolano sulle scale e così l’ex domestica scopre l’inganno del quale lei stessa è una vittima. Prontamente li riprende con lo smartphone e minaccia di spedire il filmato alla famiglia Lee, invertendo quindi la forza contrattuale delle parti in gioco. Ne nasce poco dopo una colluttazione che vede prevalere i Kim mentre l’ex domestica ed il compagno vengono legati, imbavagliati e rinchiusi nel bunker. Nel frattempo i Lee hanno telefonato e nel giro di pochi minuti sono di ritorno a casa. Una pioggia diventata in breve torrenziale ha causato infatti lo sgombero del campeggio. Kim padre ed i due figli non fanno in tempo ad uscire dalla villa e mentre la moglie cucina un piatto richiesto dalla signora Lee, vivono poco dopo momenti d’ansia nascosti sotto un tavolo in sala, mentre i coniugi Lee amoreggiano sul divano davanti alla vetrata che da sul giardino dove il figlio ha voluto rimanere a tutti i costi dentro una capanna mentre fuori piove e dialogando con loro con un walkie-talkie. Più tardi i tre riescono a sgattaiolare fuori dalla villa ma per raggiungere la loro abitazione devono correre sotto il diluvio, per scoprire che nel frattempo lo scantinato si è quasi completamente riempito d’acqua. Il giorno seguente è il compleanno del piccolo Lee ed i suoi genitori invitano i loro amici ed anche i quattro collaboratori, nonostante i tre fuggiti dalla villa hanno trascorso la notte in palestra, assieme ad una moltitudine di sfollati. La festa prenderà una china grottescamente drammatica e macabra…

VALUTAZIONE: non è forse quel capolavoro che ha suscitato tanto entusiasmo e che giustifica la messe di premi che ha raccolto ma è certamente un’opera di notevole livello, curiosa, originale, trascinante e dagli sviluppi inaspettati, con un crescendo di tensione ma anche di sarcasmo e macabra ironia che sono impeccabilmente gestiti dal talentuoso regista coreano Bong Joon-ho. Il quale dimostra di aver appreso perfettamente la lezione del cinema americano per quanto riguarda i ritmi e di quello europeo per quanto riguarda invece le tematiche basate sulle contrapposizioni fra classi sociali. ‘Parasite’ è un film asiatico ma sorprende per il ‘linguaggio’ cinematografico internazionale e ciò spinge a considerarlo come il risultato di una crescita autoriale in senso globale, ovvero non semplicemente legata ad una mera espressione artistica locale. Si nota un’evidente ispirazione ‘tarantiniana’, specie nella seconda parte, ma è un film che è sviluppato su strati narrativi sovrapposti, con numerose metafore e simbolismi, che regge però perfettamente anche ad una lettura basica della narrazione. Bravissimi tutti gli interpreti. Qualche particolare però è discutibile. Voto:

…Kim-woo, sai che tipo di piano non fallisce mai? Non aver mai alcun tipo di piano, neanche l’ombra. Sai perché? Se elabori un piano, la vita non va mai nel verso che vuoi tu…‘ (Kim Ki-taek)

La prima volta che si assiste a ‘Parasite‘ si può provare una sorta di ansia da prestazione, nei riguardi del film naturalmente. Le aspettative infatti sono al massimo livello, dato che ha vinto la ‘Palma d’Oro‘ all’ultimo Festival di Cannes e poi, caso unico nella storia recente degli Oscar, ha conquistato quattro statuette, fra le quali quella per il miglior film, abitualmente assegnata ad un’opera prodotta in USA, oltre a quella per il miglior regista, la migliore sceneggiatura originale ed anche quella per il miglior film straniero, una ‘doppietta’ che non ha precedenti nella storia della manifestazione. Oltretutto si tratta di un film girato in Corea del Sud, diretto da un regista coreano, recitato da attori coreani e nella loro lingua. E’ noto che negli Stati Uniti non esiste il doppiaggio come da noi, ma i film stranieri al massimo sono sottotitolati e pochissimo tollerati per giunta.

Eppure il successo di ‘Paradise’ si è diffuso a macchio d’olio, dopo aver colpito pubblico e critica all’uscita nel suo paese d’origine, innescando un crescendo continuo di apprezzamenti a seguire in numerose altre nazioni, sinché anche nel nostro paese, dopo una prima programmazione nelle sale un po’ in sordina, è stato riproposto sull’eco dei premi raccolti in giro per il mondo, incassando quasi 6 milioni di euro solo qui ed oltre 225 milioni di dollari a livello globale. Detto ciò, merita davvero tutto questo successo? Sì, tranne alcuni rilievi: vediamo quali e perché…

Sia chiaro, si tratta di un ottimo film, ben diretto da Bong Joon-ho (da notare che i coreani usano il cognome prima del nome proprio), che è arrivato con ‘Parasite‘ alla sua ottava opera, quindi è tutt’altro che la sorpresa di un esordiente. Non sono un esperto di cinema coreano, seppure ha una lunga storia ed anche prima di questa ‘esplosione’, se così possiamo definirla, ha proposto autori molto apprezzati anche dalla critica occidentale. Per citarne tre, che hanno vinto premi nei Festival del Cinema, sia a Cannes che a Venezia, Park Chan-wook (‘Oldboy‘ e ‘Lady Vendetta‘), Kim Ki-Duk (‘Pietà‘ e ‘Ferro 3 – La casa Vuota‘), Lee Chang-dong (‘Secret Sunshine‘ e ‘Poetry‘). Spesso però sono rimasti relegati alla nicchia dei cinefili, con scarso successo di pubblico in occidente, specie in sala, mentre ‘Parasite‘, come si suol dire, ha fatto il botto, anche fra il pubblico ‘normale’, il virgolettato non suoni a offesa per nessuno. Le ragioni sono molteplici, ma due in particolare risaltano e forse spiegano il successo su larga scala che ha ottenuto, grazie ad una sorta di passaparola, per un titolo che oltretutto suona sibillino, anche nella traduzione nostrana di ‘parassita’, seppure nel corso della trama trova piena giustificazione.

Per prima cosa, apparirà strano, ma non sembra un film coreano. Nonostante si svolga a Seul, sia interpretato da attori coreani e, se non fosse doppiato, i dialoghi li sentiremmo in lingua locale, è una storia che sin dall’inizio potrebbe essere ambientata in qualunque altra città del mondo occidentale. Anche il modo di esprimersi e le reazioni dei personaggi sono assolutamente simili alle nostre: l’uso compulsivo degli smartphone, il contesto lavorativo, la pizza come alimento ricorrente, le relazioni familiari fra le persone e persino le differenziazioni di classe sociale sono assolutamente paritetiche alle nostre. Naturalmente non mancano gli accenni alla cultura coreana, ma i capisaldi narrativi, se così possiamo definirli, sono assolutamente sovrapponibili a quelli usuali della nostra cultura. Questo aspetto ha facilitato enormemente l’immedesimazione del pubblico occidentale in una storia che in fondo non sembra poi così orientale ed il fatto che gli attori abbiano gli occhi a mandorla non li fa apparire, nei fatti più che nelle fisionomie, così lontani e diversi da noi.

Un secondo aspetto decisivo è rappresentato dalla sceneggiatura, che divide il film sostanzialmente in tre parti. Inizialmente sembra una brillante commedia di costume a sfondo sociale, curiosa ed efficacemente elaborata, che vede una famiglia di quattro componenti, i Park (lasciamo perdere i singoli nomi che sono impronunciabili e si confondono facilmente uno con l’altro), molto uniti fra loro, trovare la soluzione ai ricorrenti problemi economici, approfittando di una insperata occasione, nel segno della migliore fantasia che l’iconografia nostrana assegna di solito ai napoletani. Per emergere dalla miseria, dalla disoccupazione e da una miserabile abitazione, che ha una piccola vetrata di più elementi che guarda direttamente sullo squallido piano stradale sovrastante, in uno dei quartieri popolari più poveri della capitale sudcoreana dove può persino capitare che un ubriaco abituale urini ripetutamente nei pressi della loro casa oppure che siano ben accetti persino i fumi della disinfestazione della strada così che eliminino anche i numerosi insetti che si aggirano dentro i locali, occorre una ‘genialata‘, per così dire.

Qualcosa cioè che cambi profondamente la loro condizione, da parassiti (in ossequio al titolo) di basso profilo, alla continua ricerca di un qualche espediente e del segnale WI-FI e relativa password dei vicini, a quella, ben più remunerativa e sicura, di essere assunti al servizio di una famiglia molto benestante, i Lee, composta a sua volta specularmente da padre, madre, figlia e figlio, i quali abitano in una splendida villa di una zona esclusiva di Seul. Fra l’altro il fatto che le due famiglie siano singolarmente simmetriche accresce però l’evidenza della distanza invece che le separa dal punto di vista socio-economico. Per riuscire nell’impresa ai Park però occorre uno spunto, che capita opportunamente al figlio maschio, grazie ad un amico, che gli consente d’improvvisarsi, pur senza averne i titoli scolastici, nell’insegnante d’inglese della figlia dei Lee. Poiché il ragazzo è sveglio e preparato, ottiene facilmente l’incarico alla prova dei fatti. Di lì a breve anche la sorella, suggerita e spacciata da lui per psicologa ed esperta di terapia d’arte (ci vuole però un bel po’ di faccia tosta, d’immaginazione e creatività, anche da parte della sceneggiatura, per riuscire a farla sembrare preparata per quel compito, anche se a sua volta la ragazza si dimostra ancora più intraprendente del fratello), diventa nel giro di poche battute l’apprezzata istruttrice del figlio più piccolo dei Lee, ovviamente senza rivelare la parentela fra i due Park. Per completare l’opera con i genitori, sempre mantenendo oscura la parentela anche per loro, è necessario attuare una subdola tattica denigratoria, in modo che sia l’autista che la domestica siano licenziati e lo sporco gioco, anche in questo caso riesce perfettamente… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’) Continua a leggere…

Serie TV e Film: ‘Deadwood’

DEADWOOD – Serie TV (Tre Stagioni)

Titolo Originale: Omonimo

 Nazione: USA

Anno:  2004-2006

Genere:  Western, Drammatico

Durata: 50-60’ per ciascuno dei 36 episodi  Regia: Autori Vari  Ideatore: David Milch

Cast: Ian McShane (Al Swearengen), Timothy Olyphant (Seth Bullock), Molly Parker (Alma Garret), Jim Beaver (Whitney Ellsworth), Brad Dourif (Doc Cochran), John Hawkes (Sol Star), Paula Malcomson (Trixie), Leon Rippy (Tom Nuttall), William Sanderson (E. B. Farnum), Robin Weigert (Calamity Jane), W. Earl Brown (Dan Dority), Dayton Callie (Charlie Utter), Keith Carradine (Wild Bill Hickok), Kim Dickens (Joanie Stubbs), Anna Gunn (Martha Bullock), Jeffrey Jones (A. W. Merrick), Sean Bridgers (Johnny Burns), Titus Welliver (Silas Adams), Bree Seanna Wall (Sofia Metz), Josh Eriksson (William Bullock), Powers Boothe (Cy Tolliver), Brent Sexton (Harry Manning), Pavel Lychnikoff (Blazanov), Larry Cedar (Leon), Peter Jason (Con Stapleton), Geri Jewell (Jewel), Keone Young (Mr. Wu Tong), Garret Dillahunt (Jack McCall), Richard Gant (Hostetler), Sarah Paulson (Miss Isringhausen), Franklyn Ajaye (Samuel Fields), Ray McKinnon (Reverendo Smith), Alice Krige (Maddie), Zach Grenier (Andy Cramed), Stephen Tobolowsky (Hugo Jarry), Ralph Richeson (Pete Richardson), Michael Harney (Steve Fields), Gerald McRaney (George Hearst), Gill Gayle (The Huckster), Gale Harold (Wyatt Earp), Brian Cox (Jack Langrishe), Alan Graf (Capitano Turner), Cleo King (Zia Lou), Austin Nichols (Morgan Earp), Jennifer Lutheran (Jen)

DEADWOOD – IL FILM

Titolo Originale: Deadwood: The Movie

 Nazione: USA

Anno:  2019

Genere:  Western, Drammatico  

Durata: 110′   Regia: Daniel Minahan

Cast: vedi sopra Serie TV

CONTESTO NARRATIVO: nel Sud Dakota del 1876, territorio ancora conteso fra pellerossa e governo USA, a seguito della scoperta dell’oro sulle Black Hills nasce spontaneamente la cittadina di Deadwood, senza leggi e riconoscimenti ufficiali. Oltre al gran numero di cercatori del prezioso minerale, a Deadwood ben presto si precipitano e prosperano anche commerci come la prostituzione e l’oppio, grazie anche ad una nutrita e separata comunità cinese, mentre gli omicidi sono all’ordine del giorno ma restano impuniti. Al Swearenger è il proprietario del ‘Gem Saloon’, che è anche una fiorente casa di tolleranza. Con l’aiuto di un gruppo di fedelissimi collaboratori e tagliagole, Al gestisce il suo giro d’affari con modi spicci, tenendo sotto controllo al tempo stesso anche la ragnatela della varia umanità attorno, specie lungo la fangosa via principale del nascente agglomerato urbano. Nel frattempo giungono sul posto anche altri faccendieri, come Cy Tolliver, che apre un altro Saloon con annessa casa di tolleranza e da gioco ed in seguito il più pericoloso e temuto fra tutti, George Hurst, il quale intende imporsi su tutti, accaparrandosi locali e lotti di terreno con tutti i mezzi, per la gran parte illeciti, pur di ottenerli. S’aggiungono infine anche uomini in cerca di diversa fortuna o riscatto, come Seth Bullock che apre una ferramenta con l’amico e socio ebreo Sol Star e una donna che mai t’aspetteresti in quel posto, Alma Garret, distaccata, algida ed elegante, in realtà infelicemente sposata. La quale diventa presto vedova ma non lascia Deadwood per tornare in una città più a sua misura, perché nel frattempo ha adottato una bambina rimasta orfana e poi, con la protezione di Seth del quale nel frattempo si è innamorata, ha deciso di gestire l’eredità, cioè una sostanziosa vena d’oro scoperta nel lotto di terreno che aveva acquistato il marito prima di essere ammazzato. Storie di sacrificio ed abnegazione, come quella del medico Doc Cochran; di altruismo, come quella di Whitney Ellsworth; di senso del dovere e di rispetto della parola data da parte di Seth Bullock ed altre storie di tradimento, amori travolgenti, come quello stesso fra Seth ed Alma, nati però nel momento sbagliato, si mescolano a vicende più prosaiche come quella della più dotata di personalità fra le prostitute, cioè Trixie, oppure del proprietario dell’unico hotel, il chiacchierone ed impiccione E.B. Farnum. Una nutrita galleria di personaggi insomma, che si muovono dentro una pagina di storia in gran parte vera, nella quale sfilano anche figure leggendarie come Wild Bill Hickok, Calamity Jane e Wyatt Earp e che compone una sorta di microcosmo della natura umana e del passaggio sociale dall’anarchia e dal pionierismo allo stato civile. Il film riprende e conclude la storia della Serie TV spostandola in avanti di undici anni. 

VALUTAZIONE COMPLESSIVA: tre stagioni della Serie TV, da dodici puntate ciascuna ed un film che ne è il ‘sequel’ rappresentano senza alcun dubbio una bella maratona, ma il tempo necessario è ripagato ampiamente dalla qualità. Una storia western che possiamo definire ‘post-crepuscolare’, la quale utilizza proficuamente l’ampio spazio a disposizione per comporre una descrizione d’ambiente quanto mai accurata, sin nei minimi particolari ed una vicenda che riprende, seppure con ampia libertà di rappresentazione, fatti e personaggi realmente avvenuti ed esistiti. L’ideatore David Milch ed il regista del film Daniel Minahan sono i meritori autori di un’opera che nel suo complesso abbina, senza nulla tralasciare in termini di linguaggio e di raffigurazione, ironia e sarcasmo, buoni sentimenti e cinismo, sfrenata ambizione e senso del dovere e della responsabilità civile, momenti divertenti ed altri di duro realismo, in una società in corso di trasformazione. Voto:              

…Nella vita devi fare molte cose che non vuoi fare. Molte volte, ecco cos’è la vita del cazzo … un fottuto compito dopo l’altro…‘ (Al Swearengen)

Non è il primo caso di Serie TV cui segue il film omonimo che ne completa, chiudendola, la narrazione. La fortunata Serie TV ‘Downton Abbey‘ ad esempio è strutturata allo stesso modo, seppure nel caso di ‘Deadwood‘ le stagioni della Serie TV sono tre, mentre in quello di ‘Downton Abbey‘ sono addirittura sei. E’ un modo apprezzabile comunque, a mio modo di vedere, di chiudere il cerchio di una storia di successo, evitando di procrastinarla all’infinito e spesso finendo per snaturarla, passando da una sorta di parallelo confronto fra i modi della narrazione televisiva e quella cinematografica. La Serie TV ‘Deadwood‘, della rinomata casa di produzione HBO, ha ricevuto negli anni compresi fra il 2004-2006 ben 11 nomination ed ha vinto in 3 categorie agli Emmy Awards, che sono per le Serie TV il corrispettivo degli Oscar per quanto riguarda i film. Va detto comunque che il film, del 2019, sostituisce una quarta stagione che avrebbe dovuto essere girata e per vari ed anche misteriosi motivi non si è concretizzata.

Tralasciando, senza per nulla sminuirne i meriti, la stagione degli ‘spaghetti western‘, i quali hanno certamente rivitalizzato questo genere storico della cinematografia oramai spompato, il filone cosiddetto ‘crepuscolare‘ ne rappresenta a sua volta una diversa e parallela prova di maturità a livello di contenuti e di evoluzione dal cliché della spettacolarità delle scene e dell’esaltazione del classico pistolero di turno, insuperabile e solitario, sostituiti da una sorta di ripensamento e rivisitazione, spesso di natura malinconica e comunque generalmente improntate ad una più veritiera rappresentazione di vicende e personaggi. In forza di questo, ‘Deadwood‘ si può forse definire addirittura una produzione ‘post-crepuscolare‘, in una storia che vede ancora la presenza di figure leggendarie e realmente esistite che appartengono ancora alla prima e più classica fase della storia del western, come Wild Bill Hicock e Wyatt Earp, per quanto marginali nella vicenda in oggetto, in questo caso superati per importanza dal punto di vista narrativo da altre, note a loro volta ma in misura minore, come Seth Bullock, Al Swearengen e Calamity Jane. Al tempo stesso lo stile dell’ambientazione e della rappresentazione scenografica contengono a loro volta molte delle specifiche tipiche del filone ‘crepuscolare‘, come se gli autori volessero riassumere tutte le caratteristiche peculiari del genere di appartenenza, di prima e dopo, in un ‘unicum’ ideale.

Gli ingredienti a conferma di quanto appena scritto infatti ci sono tutti: cinismo, prepotenza, sbruffoneria, prevaricazione, mistificazione e violenza, ma anche ironia e sarcasmo sino a volte a sfociare nel grottesco e persino il sogno americano della frontiera, dentro il quale agiscono uomini rudi, spesso meschini ed insensibili, destinati però in alcuni casi a ravvedersi nel tempo ed altri che rivelano attitudini di sorprendente altruismo o che sono già nati con le stigmate dell’uomo equilibrato e positivo, ma non votato all’eroismo, non ammantato cioè dell’aureola dell’infallibilità, tuttalpiù disposto al sacrificio ed alla rinuncia personale per senso del dovere e di coerenza. Il tutto in una raffigurazione quanto mai realistica, nella quale nulla viene risparmiato allo spettatore, sia in termini di linguaggio che di descrizione d’ambiente, nel senso più lato di tale definizione.

Seth Bullock e Al Swearengen sono fra i protagonisti di primo piano nel corso della Serie TV e poi anche del film, seppure il cast è ampio e molti altri personaggi emergono per una ragione o per l’altra nel corso delle puntate e delle stagioni, acquisendo dignità, rispetto o spregio, a seconda dei casi o del momento. Una buona parte del merito va anche dato ai dialoghi di una sceneggiatura quanto mai brillante, non solo riguardo le battute fulminanti ma anche in molti momenti di riflessione tutt’altro che superficiali.

Deadwood‘ ha infatti fra i suoi pregi principali un cast complessivamente di alto livello. Il che sorprende, in una certa misura, considerando che nessuno degli attori è (o era, prima di farne parte) particolarmente famoso. Non c’è un solo personaggio che si possa definire fuori ruolo e molti di essi, a loro modo, sono mirabilmente e compiutamente descritti, sia dal punto di vista ‘estetico’ che caratteriale. Non manca nulla insomma, neppure riguardo il vasto campionario umano, ma di certo la figura di Al Swearengen, interpretato egregiamente da Ian McShane (meritatamente pluri premiato), assume un significato particolare nel corso della trama, grazie anche alla splendida performance dell’attore. Il suo comportamento è decisamente autoritario, quasi sempre accompagnato da fiumi di alcool, che comunque non gli impediscono di rimanere perfettamente lucido e capace di mantenersi al centro di ogni avvenimento o comunque tempestivamente informato riguardo ciò che succede a Deadwood, il cui nome sembra abbia origine in una gola dove sono stati trovati molti alberi morti. Lo ritroviamo spesso irritabile, permaloso, prepotente, a volte anche violento, ma non è mai banale, in molte occasioni semmai è divertente e fuori di dubbio, un personaggio carismatico quindi. Se ne apprezzano anche l’acume di un fine stratega e le sue battute sono impreziosite spesso da fini metafore, fulminanti ed appropriate (‘…annunciare i tuoi piani è un buon modo per sentire Dio ridere…); oppure lontane dalla normale retorica politica (…non mi fiderei di un uomo che non cercherebbe di rubare un po’…) ed in altri casi decisamente volgari e senza freni inibitori (…come va quella lozione per la figa? Dovrei provarne un po’ sul culo?…). Insomma, nel bene e nel male, Swearengen è sempre al centro della scena e la regia non ci risparmia a volte di coglierlo persino durante lo svolgimento delle funzioni corporali, perché mai come in questa Serie TV nulla è sotteso e nascosto, per cui a volte si ha la sensazione di esserne profondamente calati dentro, ben al di là della finzione… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’) Continua a leggere…

Film: ‘5 è il Numero Perfetto’

5 E’ IL NUMERO PERFETTO

Titolo Originale: omonimo

Nazione: Italia, Francia, Belgio

Anno: 2019

Genere: Gangster, Thriller, Drammatico

Durata: 100’ Regia: Igort (Igor Tuveri)

Cast: Toni Servillo (Peppino Lo Cicero), Valeria Golino (Rita), Carlo Buccirosso (Totò o’ Macellaio), Lorenzo Lancellotti (Nino Lo Cicero), Vincenzo Nemolato (Mr Ics), Iaia Forte (Madonna), Mimmo Borrelli (Don Guarino), Angelo Curti (Portiere di Don Guarino), Nello Mascia (il Dottore), Gigio Morra (Don Lava), Emanuele Valenti (Ciro)

CONTESTO NARRATIVO: adattamento cinematografico di un fumetto del 2002, ambientato dentro i vicoli angusti, bui ed insolitamente piovosi di Napoli, che vede protagonista un killer della camorra ormai in pensione al quale improvvisamente viene a mancare l’amato figlio, killer a sua volta, ucciso a bruciapelo durante un consulto da un equivoco chiromante. Peppino Lo Cicero decide quindi di tornare sul campo per farsi vendetta da sé, contando sull’aiuto di Totò o’ Macellaio, compagno in passato di mille imprese sanguinarie, cui s’aggiunge Rita, vecchia fiamma di un tempo, coinvolta suo malgrado. Peppino affronta con immutata determinazione e spavalderia due boss della camorra: Don Guarino, al quale lui stesso ha più volte fornito i suoi servigi in passato ma che ritiene ambiguo nel comportamento quando accetta di riceverlo nella sua tana e poi il boss Don Lava, della famiglia rivale. Ne consegue una serie di azioni al limite del suicidio con cruente sparatorie in stile gangster e western. Il finale riserva però una grande sorpresa.

VALUTAZIONE: un insolito e tutto sommato azzeccato thriller noir gotico napoletano, ma anche una sorta di spaghetti-gangster in ambito camorrista, seppure ancora ben lontano dalle atmosfere spietate con implicazioni politiche e d’alta finanza della criminalità organizzata ritratta in ‘Gomorra’. E’ un film comunque credibilmente calato nell’ambientazione nostrana. Igort è riuscito a miscelare con personalità e stile l’impronta originaria fumettistica che gli è propria ad un’ironia sarcastica di derivazione ‘tarantiniana’ che si evidenzia non solo nelle scene d’azione, nella suddivisione temporale e nelle didascalie della storia in sé ma anche in alcuni dialoghi marcatamente surreali. Servillo e Buccirosso sono i due assi di una mano decisamente vincente. VOTO:

Quando ero bambino, analogamente a molti altri miei coetanei amavo i fumetti, non solo quelli della Disney, come Topolino, Paperino, Paperon ‘de Paperoni ma anche quelli che vedevano protagonisti personaggi western come Tex Willer, Kit Carson e Tiger Jack, e poi, in fase preadolescenziale, quelli citati perfino nel corso del film stesso, meno ‘politicamente corretti‘ dei precedenti, come Diabolik, Kriminal, Satanik e via di questo elenco che, andando ulteriormente indietro con la memoria, potrebbe diventare molto più lungo. In seguito li ho persi tutti per strada, distratto dalle cose della vita o maggiormente attratto da altre forme d’intrattenimento, di più spiccato e facile ‘appeal’ spettacolare, tecnica realizzativa e capacità d’approfondimento. Come il cinema stesso che, oltre al resto, in quanto a fantasia ed evasione non è secondo a nessun’altra. Sembra comunque che ci sia un nutrito pubblico, anche adulto, che tuttora legge e colleziona i fumetti, quelli classici ed altri che sono stati creati nel frattempo, seguendo un naturale processo evolutivo grafico e di contenuti. Non saprei dire se ciò richiama un qualche giudizio critico, ma di certo dietro tutto questo c’è un business non da poco e quindi non meno meritorio o discutibile di altri, a seconda dei casi e di come lo si percepisce soggettivamente.

Sono perciò andato a leggere qualcosa riguardo la figura autoriale di Igort, acronimo di Igor Tuveri ed ho scoperto che è un nome importante nel settore dei fumetti, nel quale opera sin dagli anni settanta, non più giovanissimo quindi, essendo un classe ’58. Limitarsi a questo aspetto della sua biografia però sarebbe molto riduttivo, dato che nel corso degli anni ha scritto sceneggiature per il cinema, fondato riviste, composto e cantato opere musicali e viaggiato ed operato frequentemente all’estero. Si racconta che abbia persino disegnato Yuri, un orologio Swatch, che pare abbia avuto persino molto successo. Insomma un personaggio quanto mai creativo e professionalmente eclettico.

Ma veniamo al film in oggetto. Sin dalla più giovane età ci hanno insegnato a considerare come numero perfetto il tre. La stessa religione cattolica lo rappresenta nella Santissima Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo, mentre in questo caso il film sostiene invece che è il numero più adatto a quell’aggettivo è il cinque, seppure riferito a tutt’altro ambito. La differenza sta nel soggetto perché nella visione del fumetto e della trasposizione in opera cinematografica, esso non è di natura trascendentale ma direttamente riferito al corpo umano. Ad affermarlo è il protagonista, Peppino Lo Cicero, interpretato dal nostro attore attualmente di maggior prestigio, ovvero Toni Servillo, al quale è stato applicato un evidente gobboso naso che ne raffigura al tempo stesso una sorta di caricatura ed un tratto distintivo, specie se viene ripreso di profilo. Forse tutto il senso del film sta in fondo nella vicenda del cugino Lino (detto ‘a Tartaruga’) che Peppino racconta, un po’ in italiano ed un po’ in dialetto napoletano, a Rita, sua fiamma di parecchi anni addietro, che ha appena ritrovato: ‘…faceva il poliziotto e ripeteva sempre: cinque è il numero perfetto. Tu domandavi: ma che cazzo significa? E lui rispondeva, con l’aria strafottente di chi ti ride sempre in faccia: questa è ‘a casa mia: due braccia, due gambe e sta faccia. Intendeva dire con questo che era indipendente, che non doveva dare conto a nessuno, come ‘a tartaruga. Faceva il poliziotto e già questo era un disonore per la mia famiglia. Stava nella polizia stradale… poi un giorno lo trovarono morto, con un piccione in bocca. Gli spararono cinque volte al cuore. E tutto perché i piccioni che allevava sporcavano le lenzuola del boss del piano di sotto, Don Paradiso. La vita è terribile e il bello è che tiene pure il senso dell’umorismo…‘.

I titoli iniziali sono anch’essi disegnati in formato fumetto ma ricordano un po’ nella grafica ed anche nella colonna sonora d’accompagnamento i film di ‘007’. Tutto inizia il 26 Settembre 1972 a Napoli dove Peppino ha sempre vissuto nonostante una chiromante, quarantanni prima, gli aveva predetto una vita di viaggi. Piove a dirotto e lui, mentre cammina lungo una vecchia via, sta riflettendo su se stesso, com’era stato un tempo: ‘…quando chiedi ad un uomo di uccidere un suo simile devi sapere che ti affidi alle mani giuste. Io ero quelle mani… Ho vissuto i miei giorni come si beve un liquore troppo forte. Lo butti giù, senti che te da ‘a botta, ma non sei sicuro di avere capito veramente che gusto aveva…‘. Il personaggio quindi si delinea già chiaramente: Peppino è stato un killer della camorra e nonostante sia oramai a riposo, per così dire, non rinnega affatto ciò che ha fatto ed anzi, ora vede nel figlio Nino il suo erede naturale e prosecutore di una ‘onorata’ carriera, già operativo sul campo, al quale dare incoraggiamento e suggerimenti, da esperto del ramo e ‘…gentiluomo di un’altra generazione…’, come lo definisce lo stesso Nino. Il quale sta per compiere gli anni e cosa si regala quindi ad un killer che si sta facendo strada in quel mondo incerto e pericoloso? Una bella pistola, ovviamente ed è quella che sta giusto andando a ritirare Peppino dal Gobbo, suo fornitore abituale, scelta con cura e passione fra molte altre. Nino si commuove quando riceve dal padre la Colt Cobra 38 Special, il quale nell’occasione ne approfitta per ricordargli con orgoglio un proverbio in voga nel suo ambiente: ‘…l’ommo non è chillo che mangia, nun è chillo cà a caga, ma l’ommo è come accide. E ringraziando Dio, o figlio mio accide come se deve…‘. E subito dopo si lascia andare ad un moto di commozione ricordando l’amatissima moglie che purtroppo non c’è più: ‘…Io per fidanzarmi con tua madre c’ho dovuto sterminare la famiglia, interamente. Tutti morti, tranne issa, che manco batteva ciglio…‘.  

Il film è diviso, manco a dirlo, in cinque capitoli (numero che torna a galla più volte, come un mantra, ad esempio quando Peppino entra in un cinema che ha in cartellone ‘Cinque Dita di Violenza‘): ‘Lacreme Napuletane’, ‘La Settimana Enigmatica’, ‘Guapperia’, ‘Il Sorriso della Morte’ e ‘Cinque è il Numero Perfetto’. Soprattutto nei primi due capitoli il presente si alterna ai ricordi d’infanzia di Peppino. Si può inoltre notare, dalle citazioni appena riportate nel paragrafo precedente, che l’opera di Igort è pervasa da un costante sarcasmo che riguarda non solo i dialoghi ma anche i nomi di molti personaggi e persino molte scene, evidentemente rappresentate da un analogo filo conduttore, specie durante le sparatorie, che vedono Peppino, nonostante l’età, prevalere sempre e farla franca, anche quando viene palesemente circondato. Sembra possedere una sorta d’immunità dalle pallottole dei suoi avversari che invece lui colpisce con irrisoria facilità ed infallibile mira, com’era solito fare un tempo, quando era molto più giovane. E’ impossibile non associare la dinamica di certe sequenze a quelle tipiche dei film western, classici o ‘spaghetti’ che dir si voglia ed il modo volutamente eccessivo al limite dell’irrealismo a quello che troviamo solitamente nel cinema di Quentin Tarantino. Igort lo ripropone senza sfigurare, anche in termini di efficacia dialettica e personalità di alcuni protagonisti, sostenuto dalla bravura della coppia Toni Servillo/Carlo Buccirosso che sono assolutamente perfetti nelle rispettive parti, ma in generale anche quelle di contorno sono rappresentate da figure di tutto rispetto nella caratterizzazione dei rispettivi personaggi… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’) Continua a leggere…

Film: ‘Quasi Nemici – L’Importante è Avere Ragione’

QUASI NEMICI – L’IMPORTANTE E’ AVERE RAGIONE

Titolo Originale: Le Brio

Nazione: Francia, Belgio

Anno: 2017

Genere: Commedia, Drammatico, Didattico

Durata: 95’ Regia: Yvan Attal

Cast: Daniel Auteuil (Pierre Mazard), Camélia Jordana (Neïla Salah), Yasin Houicha (Mounir), Nozha Khouadra (La Madre di Neïla), Nicolas Vaude (Il Preside del Paris II-Panthéon Assas), Jean-Baptiste Lafarge (Benjamin), Claude Perron (La Donna col Cane), Virgil Leclaire (Keufran), Zohra Benali (La Nonna di Neïla), Damien Zanoli (Jean Proutot), Jean-Philippe Puymartin (Il Presidente del Concorso), Paulette Joly (Madame Mazard), Nassim Si Ahmed (Il Cliente)

TRAMA: Neïla Salah è una immigrata francese di seconda generazione che vive a Créteil, nella banlieue (periferia) parigina. Si è iscritta all’Università Paris II-Panthéon Assas per dare una svolta alla sua vita, altrimenti destinata alla mediocrità o, ben che vada, la massima aspirazione del suo ragazzo Mounir, cioè diventare un taxista di Uber. Il primo giorno, calcola male i tempi ed arriva in ritardo, cioè quando la sala è già gremita e il professore Pierre Mazard ha iniziato la sua lezione. Non essendo riuscita ad evitare di farsi notare, Mazard la riprende con ironia ed insistiti commenti razzisti, anche riguardo il suo modo di vestire, nonostante il brusio di disapprovazione degli altri studenti. Mazard è noto infatti per le sue idee conservatrici ed intolleranti che non si trattiene dall’esprimere apertamente. Il suo atteggiamento viene filmato e finisce sul PC del preside il quale, nonostante sia suo amico, non può evitare che la cosa arrivi addirittura al vaglio della commissione interna d’inchiesta. Per evitare un sicuro licenziamento, il preside propone a Pierre di fare da coach proprio a Neïla, nel concorso che ogni anno vede gli studenti del primo anno dei vari istituti universitari contendersi la palma del migliore sul tema dell’eloquenza. Mazard è costretto ad accettare e senza dire nulla al riguardo alla giovane, le propone di aiutarla a prepararsi per il concorso, nonostante l’iniziale rifiuto della stessa, provocandola proprio sulle ragioni che l’hanno spinta ad iscriversi a quella facoltà. I due si vedono la mattina, da soli e per pochi minuti, in un’aula dove Pierre inizia, partendo da uno scritto di Schopenhauer, la sua opera di trasformazione di Neïla, da ragazza arrabbiata, incapace di controllare le sue emozioni e di argomentare una tesi in maniera convincente, in una brillante e sicura oratrice. Per riuscirci però, fra loro inizialmente le scintille sono all’ordine del giorno, perché Pierre è un provocatore cinico ed impietoso e Neïla, orgogliosa delle sue origini, mal sopporta l’ironia sulla sua persona e di essere ripresa continuamente. Piano piano però si rende conto lei stessa dei suoi progressi, anche nei rapporti con Mounir ed i suoi amici, e dell’abilità, impegno ed originalità che il suo professore le sta insegnando nell’arte della retorica. Al primo confronto del concorso però Neïla non resiste alle allusioni razziste del suo rivale e sarebbe eliminata se il suo avversario non fosse squalificato proprio per questa ragione. Da quel momento però riesce a mettere totalmente a frutto gli insegnamenti di Pierre, in forme sempre crescenti di difficoltà e nei confronti successivi prevale con destrezza e brio sino a giungere alla finale. Nel corso della manifestazione che il preside promuove per lei in Università, un suo compagno invidioso le rivela però le vere ragioni dietro l’impegno di Mazard e Neïla, delusa e ferita, abbandona furiosa la sala, rifiutandosi di presentarsi alla finale del concorso. E’ Mounir però che la mattina stessa la riprende e la scuote per la sua mancanza di coraggio e di riconoscenza nei confronti di chi comunque l’ha fatta comunque crescere e si offre di accompagnarla in Università dove, se per la gara oramai non c’è più nulla da fare, per il giudizio della commissione su Pierre, invece sì. Entrando nell’aula dove il professore è seduto davanti ai suoi inquisitori, Neïla chiede ed ottiene, ritenendosi parte in causa, di testimoniare. Inizia quindi il suo intervento come se fosse un atto di accusa che aggrava ancora di più la posizione di Mazard, ma poi lo trasforma in un elogio sperticato e circostanziato sulle qualità del suo professore, lasciando a bocca aperta sia lui che la commissione e mostrando di avere perfettamente imparato come impostare in maniera convincente la difesa di un accusato. Anni dopo Neïla è un avvocatessa, perfettamente integrata nel ruolo e nella consapevolezza delle sue capacità, la quale sta utilizzando a sua volta proprio le tecniche imparate dal suo odiato inizialmente e poi amato coach.

VALUTAZIONE: un’opera di notevole impatto emotivo e formativo (nonostante la morale in fondo sia tutt’altro che ‘politically correct’), oltreché di pregevole qualità interpretativa, incentrata sulla capacità, appunto, di convincere il prossimo sulle proprie ragioni, qualunque sia la verità. Un film che tocca direttamente o di riflesso temi come razzismo, conservatorismo, intolleranza, provocazione, emarginazione sociale ed uso ad arte del paradosso. E ci riesce, evitando il più possibile di scadere nella retorica, anche se è focalizzato proprio sulla capacità di sviluppare l’uso dell’eloquenza, prendendo a modello la figura dell’avvocato, ma che può valere comunque in qualsiasi altro ambito. E’ anche un film con una trama ben congegnata, che in poco più di un’ora e mezza mostra pochi momenti di debolezza, con un finale decisamente potente dal punto di vista emozionale.   

…L’eloquenza, la retorica, l’arte del bel dire. Per convincere bisogna saper usare la dialettica, una serie di ragionamenti rigorosi volti ad ottenere il consenso dell’interlocutore e del pubblico. Perché in realtà è solo questo che conta: convincere, avere ragione. Della verità, chi se ne frega…‘.

Tempo fa è uscito un film francese che ha avuto un buon successo anche in Italia. S’intitola ‘Quasi Amici – Intouchables‘ e, diretto dalla coppia Olivier Nakache e Éric Toledano, racconta la simpatica, commovente storia, anche un po’ ‘piaciona’ per dirla tutta, di un ricco tetraplegico bianco ed un badante nero con un passato in prigione. Due mondi apparentemente lontani ed opposti che sembra impossibile possano incontrarsi ed invece dopo le prime inevitabili difficoltà hanno imparato a conoscersi e rispettarsi. Mettendo sul tavolo le rispettive peculiarità caratteriali, culturali e di sensibilità, sono persino diventati quasi amici, appunto.

Qualcosa del genere succede anche in ‘Quasi Nemici – L’Importante è Avere Ragione‘ di Yvan Attal. Anche questo è un film francese ed evidentemente la distribuzione italiana ha colto delle analogie con l’opera citata in precedenza ed ha provato a sfruttarle, al di là dei rispettivi titoli originali che sono molto differenti: nel primo caso ‘Intouchables‘ ed in quello del film in oggetto ‘Le Brio‘. Dei due, il più azzeccato in questo caso a me sembra proprio quello nostrano, soprattutto per la frase che viene riportata immediatamente dopo il trattino, cioé ‘L’Importante è Avere Ragione‘, perché è proprio sul tema della retorica o dell’arte dell’eloquenza che quest’opera è incentrata. E per arrivare all’obiettivo si affida, come molte delle battute che vengono pronunciate dai protagonisti, ad un paradosso. Una serie dei quali, a proposito dell’uso e della potenza della parola, li propone in alcune scene di repertorio poste nell’incipit del film, quattro grandi personaggi della cultura francese come Claude Lèvi-Strauss, Serge Gainsbourg, Romain Gary e Jacques Brel.

Osservando l’immagine riportata nella locandina ed anche nel trailer accessibile qui sopra, ci si rende infatti immediatamente conto di almeno due cose: la prima è che la torre Eiffel sullo sfondo indica chiaramente dove è ambientata la storia, scritta a otto mani da Yaël Langmann, Victor Saint Macary, Bryan Marciano e Yvan Attal (quest’ultimo è anche il regista). Secondariamente, si fa per dire, i due straordinari interpreti – bisogna proprio dirlo, perché Camélia Jordana e Daniel Auteuil sono davvero strepitosi – sono posti, non a caso, in posizione contrapposta, come se intendessero volutamente ignorarsi, seppure è solo un artificio fotografico; inoltre mostrano un’evidente differenza d’età, ma anche d’origine etnica, seppure questo lo si intuisce più chiaramente. A ciò s’aggiungono anche una marcata distanza culturale, di status sociale, di relazione e persino di aspettative sul futuro, e questo lo si può sapere solo seguendo la trama. Eppure…

Lui è Pierre Mazard, un attempato professore dell’Università Paris II-Panthéon Assas, cinico, prevenuto, reazionario ed in odore di razzismo, decisamente antipatico nei modi. Come quando una sera, tornando a casa dalla trattoria dove cena sempre da solo (chi mai potrebbe sopportare di vivere a lungo assieme ad un cerbero del genere?), apostrofa una signora con un cagnolino al guinzaglio, mentre con un guanto ne sta raccogliendo per strada le feci: ‘…si rende conto che per un po’ di affetto lei si espone ad una umiliazione? Ma la prego, reagisca, altrimenti lei vale meno di quello che tiene in mano, quel sacchetto con…‘. Ed ovviamente ottiene la reazione piccata della donna, della quale però non si cura affatto. Neïla Salah invece è una studentessa del primo anno, immigrata francese di seconda generazione, in cerca di riscatto dalla mediocrità e dalla rassegnazione della banlieue di Créteil, dove abita con la madre e la nonna, molto suscettibile alle allusioni ironiche sulle sue origini e persino agli abiti casual e ben poco femminili che indossa, come a voler rappresentare concretamente la sua rabbia e la sua ribellione.

Cosa caspita potrebbero mai avere in comune due personaggi del genere? Niente, ovviamente, se non che lui è un professore della facoltà che lei ha deciso di frequentare e dove Neïla parte con il piede sbagliato, arrivando in ritardo, seppure solo di pochi minuti, il primo giorno di lezione. Ne viene fuori un caso ideologico perché Pierre, come insegnante è molto bravo, ma è anche sempre molto franco riguardo le sue idee, nonostante le contestazioni degli studenti. Oltretutto è prevenuto nei confronti delle persone come Neïla, per ciò che rappresentano ed a suo modo di vedere lei è già destinata a gettare la spugna entro tre mesi.

A questo punto bisogna dire che ‘Le Brio‘ è un film che va raccontato, anche nei dettagli, perché gran parte della sua efficacia risiede nei dialoghi e nelle situazioni, molte delle quali sono imperdibili. Altrimenti si potrebbe liquidare la questione dicendo che è la storia di un professore e di un’allieva che da quasi nemici, appunto, le circostanze li portano invece a collaborare per far vincere a lei un importante concorso fra le Università sul tema dell’eloquenza ed a lui di evitare di perdere il posto a causa di alcuni suoi atteggiamenti reazionari. Alla fine, dopo innumerevoli occasioni di scontro, trovano un punto d’equilibrio e d’intesa, ed il professore si salva proprio a seguito della decisiva testimonianza della sua allieva, che diventerà grazie a lui un abile avvocato, ripetendo, dopo averne fatto tesoro, i suoi modi e le tecniche di persuasione. Invece c’è molto di più di questo, quindi bando agli spoiler e andiamo avanti. Chi mal li sopporta, salti pure, se vuole, alle considerazioni finali. Le numerose citazioni che seguono meritano ampiamente lo spazio che dedico loro… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’) Continua a leggere…

Film: ‘Il Primo Re’

IL PRIMO RE

Titolo Originale: idem

Nazione: Italia, Belgio

Anno: 2019

Genere: Storico, Epico, Azione

Durata: 127’ Regia: Matteo Rovere

Cast: Alessandro Borghi (Remo), Alessio Lapice (Romolo), Fabrizio Rongione (Lars), Massimiliano Rossi (Tefarie), Tania Garribba (Satnei), Lorenzo Gleijeses (Purtnass), Vincenzo Crea (Elaxantre), Max Malatesta (Veltur), Fiorenzo Mattu (Mamercus), Gabriel Montesi (Adieis), Antonio Orlando (Erennis), Vincenzo Pirrotta (Cai), Michael Schermi (Aranth), Ludovico Succio (Marce), Martinus Tocchi (Lubces), Marina Occhionero (Acca Larenzia), Nina Fotaras (Ramtha), Emilio De Marchi (Testa di Lupo), Luca Elmi (Maccus)

TRAMA: Romolo e Remo sono due giovani pastori, quando li travolge un’improvvisa e violenta inondazione. Si salvano miracolosamente, ma perdono tutto il loro bestiame. Trascinati dalla forza dell’acqua sino al territorio di Alba Longa, sono raggiunti e catturati, quindi costretti, assieme ad altri, a combattere fra loro a coppie: il perdente viene immediatamente ucciso e cremato. Grazie ad un escamotage Remo, costretto a combattere contro il fratello, salva se stesso e libera anche gli altri prigionieri che riescono, pur a fronte di alcune perdite, a sopraffare i loro nemici. Romolo intanto è rimasto gravemente ferito mentre Remo dopo aver ucciso molti guerrieri di Alba Longa ha catturato Satnei, la sacerdotessa della dea Vesta, perciò la costringe a seguire lui, che si porta sulle spalle Romolo ed il gruppo dei prigionieri liberati ancora sopravvissuti. Le condizioni di Romolo rallentano i fuggitivi, così che il più cinico fra loro, Tefarie, spinge gli altri ad unirsi a lui affinché Remo sia costretto ad abbandonare Romolo al suo destino. Remo allora sfida a duello Tefarie e lo uccide, legittimando così il suo primato sul gruppo. Entrati nella foresta che fa parte del territorio dei guerrieri guidati da Testa di Lupo, si confrontano in modo cruento con loro uccidendoli tutti e quindi gli uomini capeggiati da Remo arrivano sino al villaggio dei rivali abitato oramai solo da vecchi, donne e bambini nel quale Remo si auto proclama re. Nel corso del rituale, Remo chiede a Satnei un’aruspicina, cioè un vaticinio e lei gli rivela che nel suo futuro vede uno dei due fratelli re di una grande città ed impero, ma anche che uno ucciderà l’altro. Tutti vedono nel duro e forte Remo il predestinato. La reazione di quest’ultimo alla predizione del fratricidio è veemente: uccide il sacerdote del villaggio, spegne il sacro fuoco di Vesta e lega Satnei ad un albero dentro al bosco, lasciandola alla mercé degli animali selvatici. Non solo, al ritorno nel villaggio incendia le capanne e schiavizza gli abitanti. Romolo nel frattempo si è completamente ripreso e dissente l’atteggiamento del fratello, il quale, resosi conto di essersi spinto troppo in là, torna nel bosco pentito della punizione inflitta a Satnei ma la trova ferita e oramai morente, seppure ancora in grado però di svelare a Remo che è lui ad essere destinato a morire per mano del fratello Romolo. Gli consiglia perciò di fuggire. Nel frattempo Romolo ha riacceso il fuoco sacro affidandolo ad una giovane vestale e viene perciò riconosciuto come capo dagli abitanti il villaggio, inclusa una parte dei guerrieri che sono giunti con lui e Remo sin lì. Quest’ultimo nel frattempo se n’è andato con i rimanenti a lui ancora fedeli, ma giunti sulle sponde del Tevere sono assaliti dai cavalieri albani e destinati a soccombere se non intervenisse a salvarli Romolo con i suoi uomini. Il dualismo che è esploso fra loro spinge Remo a reclamare il comando, inclusa l’intenzione di spegnere il sacro fuoco e nonostante Romolo cerchi di evitare il combattimento, Remo lo sfida apertamente, ma quando si rende conto che più nessuno oramai sta dalla sua parte, lascia che l’aruspicina di Satnei si compia. Spingendo il fratello a ferirlo a morte, al tempo stesso si riappacifica con lui, benedicendone il destino di primo re. Romolo ed i suoi uomini, attraversato il Tevere, allestiscono una pira per Remo su un zattera ed il fratello giura che con il sangue versato costruirà una città, dandole il nome di Roma per dominare il mondo conosciuto nei secoli a venire. E’ l’anno 753 avanti Cristo.

VALUTAZIONE: un’opera sorprendente della cinematografia nostrana, perché che contiene, al tempo stesso, tutti gli ingredienti di spettacolarità solitamente riconoscibili nel cinema hollywoodiano, abbinati però ad una impostazione rigorosa, ad iniziare dall’utilizzo di un linguaggio definito ‘protolatino’, incomprensibile senza i sottotitoli. La cura che il giovane regista Matteo Rovere, qui alla sua seconda prova, ha dedicato alla post produzione, durata ben 14 mesi, ricorda la meticolosità di un ‘certo’ Stanley Kubrick, senza che il confronto appaia esagerato. Siamo di fronte ad un film totalmente anomalo, interpretato egregiamente da attori italiani e girato in luoghi del centro Italia che sembrano rimasti al tempo di Romolo e Remo, la cui storia è mitologia ma la cura nella ricostruzione ambientale, degli usi e costumi del tempo, comprese le armi, ha richiesto la consulenza di alcuni luminari nei rispettivi campi di appartenenza. Il tutto senza nulla lasciare al caso, inclusi effetti speciali di straordinaria verosimiglianza e strumenti all’avanguardia della tecnologia come i droni nelle riprese dall’alto. Una notevole prova di maturità espressiva e coraggio che esce dagli schemi abituali e richiede pertanto la completa disponibilità dello spettatore per essere pienamente compresa ed apprezzata. 

Segnatevi il nome del trentasettenne regista, soggettista, sceneggiatore e produttore Matteo Rovere, perché se tanto mi dà tanto, siamo di fronte ad un autore di grandissima qualità, pari almeno al coraggio. ‘Il Primo Re‘ è un film realizzato da autori, attori e maestranze nostrane (mentre i finanziamenti invece sono di provenienza internazionale che vede unite Rai Cinema, Groelandia, Gapbusters, VOO e BeTV) e di uno stile che non siamo abituati a vedere associato alla cinematografia italiana. Ad affiancare Rovere nella realizzazione di quest’opera particolare troviamo: alla produzione anche Andrea Paris; il soggetto è scritto a sei mani con Filippo Gravino e Francesca Manieri; altrettanto riguardo la sceneggiatura assieme a Filippo Gravino e Francesca Manieri; la fotografia è di Daniele Ciprì; la scenografia è di Tonino Zera; il montaggio è di Gianni Vezzosi; le musiche sono di Andrea Farri; i costumi sono di Valentina Taviani; il trucco è di Andrea Leanza, Roberto Pastore, Lorenzo Tamburini e Valentina Visintin e gli straordinari effetti speciali sono di Francesco Grisi e Gaia Bussolati. Mi sono dimenticato gli interpreti? Macché, il cast è elencato immediatamente sopra la sinossi ma è anch’esso completamente italiano. Bravi tutti in blocco ma una citazione particolare va fatta per Alessandro Borghi (Remo) e Tania Garribba (Satnei).

Detto ciò, quando mai si è visto un film italiano che è difficile persino da catalogare in un genere? Chi lo definisce epico, chi storico, chi d’azione, chi sperimentale, chi semiologico, chi archeologico o tutte queste categorie messe assieme. Io l’ho trovato geniale e coraggioso. La storia di Romolo e Remo ce l’hanno raccontata sin dalle scuole elementari. La lupa che allatta i due gemelli rimasti orfani è il simbolo stesso della capitale ed i sette Re di Roma li abbiamo imparati a memoria come una filastrocca (Romolo, Numa Pompilio, Tullio Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo). Alle scuole medie siamo andati ancora più indietro nel tempo, con l’Eneide ed il suo omonimo protagonista il quale, dopo essere fuggito da Troia ed aver girovagato per un po’ nel Mar Mediterraneo, infine è approdato sulle coste dell’odierna regione del Lazio. Dall’unione fra Enea e l’amata Lavinia è nato Ascanio che ha fondato la città di Alba Longa. E qui, appunto, si ricollega la vicenda narrata nel film di Matteo Rovere. Numerose comunque sono le versioni della leggenda che riguarda Romolo e Remo, ma forse quella che spiega meglio di altre il motivo per cui è stata creata e poi tramandata nei secoli a venire sta nel celebrare ed esaltare le origini della più grande potenza d’occidente di duemila anni fa, proprio ad opera dei re e dagli imperatori che si sono succeduti sul suo trono.

Intendiamoci il film storico che vede protagonisti personaggi mitologici come Sansone, Maciste, Ercole appartiene al cinema italiano già a partire dagli anni cinquanta, al punto che fu definita a tal riguardo un’apposita categoria, chiamata ‘peplum‘ e poco dopo la nascita del cinema, il cosiddetto ‘kolossal storico italiano‘ suscitò grande successo ed attenzione, anche fuori dai confini nazionali. Un regista come David Wark Griffith, ad esempio, considerato uno dei più significativi della cinematografia americana dei primi del novecento, s’ispirò a ‘Cabiria‘ (1916) del nostro Giovanni Pastrone per realizzare uno dei suoi film più importanti, cioè ‘Intolerance‘ nel 1918.

Tornando a Romolo e Remo, i due personaggi appaiono già adulti ne ‘Il Primo Re‘. Sono entrambi pastori ed un giorno, nel corso di una tempesta e preannunciato da uno spaventoso e sordo rumore che li spinge ad un disperato quanto vano tentativo di fuga, vengono travolti da una violenta ondata di piena e trascinati a lungo, rischiando sia uno che l’altro di annegare o sfracellarsi lungo il corso tumultuoso del fiume Tevere. Con un po’ di fortuna ma perdendo comunque tutto il bestiame, finiscono a valle nel territorio di Alba Longa dove i guerrieri della tribù omonima non sono per nulla ospitali nei confronti di chi vi entra indebitamente, fosse anche contro la sua volontà come in questo caso. Romolo e Remo vengono catturati, imprigionati assieme ad altri uomini dentro delle gabbie e poi condotti in un avvallamento poco distante dall’accampamento per essere sacrificati davanti a Satnei, la sacerdotessa della dea Vesta, nel corso di duelli a coppie, che anticipano quelli fra gladiatori, anche se in questo caso il pubblico è costituito solo dai guerrieri di Alba Longa e dagli altri prigionieri legati fra loro.

Ci sono scelte nella realizzazione di un film che il normale spettatore dà per scontate oppure non vede o non può  considerare nella loro importanza senza una preventiva adeguata informazione ma che rappresentano invece la differenza ed il valore aggiunto fra una produzione di routine ed una, appunto, fuori dal comune. Nel caso in oggetto, ascrivibili a quest’ultima categoria ce ne sono alcune, ad iniziare da quella che forse è più evidente, cioè la lingua parlata dagli interpreti che, si capisce sin dalle prime parole pronunciate, sarebbe incomprensibile per chiunque se non ci fossero i sottotitoli. In questo caso infatti non è questione di essere o meno poliglotti, bensì Rovere ha voluto essere più aderente possibile allo spirito del tempo, alla ricostruzione di quell’epoca arcaica, incluso appunto il linguaggio e siccome non v’è certezza su quale fosse quello realmente parlato, si è rivolto ad alcuni esperti semiologi dell’Università Sapienza di Roma i quali, combinando vari elementi storici si sono letteralmente inventati una sintesi che si può definire con il termine di ‘protolatino‘, cioè qualcosa che sta a metà fra il latino vero e proprio ed alcuni linguaggi indo-europei.

Se ne giova l’autenticità della rappresentazione storica a spese però dell’immediatezza nella fruizione e comprensione dei dialoghi stessi, se così comunque si possono definire, resi inevitabilmente più ostici per lo spettatore dalla necessità di ricorrere costantemente ai sottotitoli, come nei film muti, oppure in quelli che una volta si definivano ‘d’essai‘. I prodotti cioè di cinematografie lontane e poco popolari le cui opere, comunque scarsamente remunerative, richiederebbero troppi oneri d’investimento per essere doppiate ed i sottotitoli quindi rappresentano perciò il miglior compromesso. Solo che in questo caso invece il film non è russo, birmano o, che ne so, cileno, ma assolutamente italiano… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

I Miei Classici della Storia del Cinema: ‘Dove La Terra Scotta – 1958′ (Anthony Mann)s s

DOVE LA TERRA SCOTTA

Titolo Originale: Man of the West

Nazione: USA

Anno: 1958

Genere: Western

Durata: 100’ Regia: Anthony Mann

Cast: Gary Cooper (Link Jones), Julie London (Billie Ellis), Lee J. Cobb (Dock Tobin), Arthur O’Connell (Sam Beasley), Jack Lord (Coaley), Royal Dano (Trout), John Dehner (Claude), Robert J. Wilke (Ponch), J. Williams (Alcutt), Frank Ferguson (Sceriffo)

Questo film appartiene ad una mia personale categoria dei ‘Classici del Cinema’ nella quale, senza rispettare una vera e propria cronologia, proporrò alcuni dei titoli che ritengo più significativi o che mi hanno particolarmente colpito nel corso degli anni.

…Anche io ero solo da piccolo e vivevo con quell’energumeno. È lui che mi ha allevato, insegnandomi ad uccidere e rubare. Non sapevo quel che facevo e sono cresciuto. C’è un momento in cui o ci si sveglia e si diventa esseri umani o si marcisce come quelli là. Così fuggii di qui ed imparai che c’era di meglio…‘  (Link Jones – Gary Cooper)

Fra i più grandi autori del western classico non si può tacere il nome di Anthony Mann. Il film in oggetto è il penultimo da lui diretto, ascrivibile al genere di appartenenza e seppure forse non è il migliore della sua filmografia, che può contare su almeno una cinquina di altre opere che hanno segnato la storia del western come ‘Winchester ’73‘ (1950), ‘Là Dove Scende il Fiume‘ (1952), ‘Lo Sperone Nudo‘ (1953), ‘Terra Lontana‘ (1955) e ‘L’Uomo di Laramie‘ (1955), è comunque significativo per alcune ragioni.

La prima è che ne riassume lo stile: rigoroso, duro, nervoso e poco propenso a quella sottile ironia, così peculiare e distintiva invece in autori come John Ford o Howard Hawks, ad esempio. L’unico momento del film nel quale si può abbozzare un sorriso infatti è quando Link Jones, interpretato da un Gary Cooper già piuttosto avanti negli anni, sale per la prima volta in treno. Dapprima reagisce con spavento ai rumorosi sbuffi di vapore della locomotiva quando giunge in stazione (‘…vien voglia di rispondergli…’, gli suggerisce un personaggio che ritroverà a bordo) e poi, dopo essersi accomodato con difficoltà nelle anguste sedute, poco distanti fra loro per la sua altezza, si sente sballottare alla partenza del treno, costretto ad aggrapparsi alle spalle del viaggiatore che lo precede a causa dei numerosi contraccolpi che precedono la marcia regolare.

La trama del film è incentrata su un déjà vu, ovvero una parte della storia personale del protagonista che credeva e sperava di aver definitivamente messo alle sue spalle, dopo un’infanzia ed una prima fase della sua vita da adulto trascorsa da fuorilegge e con la quale invece si ritrova, suo malgrado, a doversi nuovamente confrontare. Soltanto la definitiva resa dei conti, cui è costretto a ricorrere date le circostanze, gli permette di raggiungere il suo autentico e definitivo riscatto e con esso forse anche la pace interiore.

Un’altra ragione è che questo film sembra già anticipare i segnali di mutamento di alcuni cliché che pure hanno reso celebre e tanto amato il western sin lì, ma che oramai sono diventati sempre più ripetitivi e scontati. Come quello dell’eroe tutto d’un pezzo, positivo o negativo che sia ed in questo caso Gary Cooper rappresenta simbolicamente entrambi i ruoli. Non è solo una questione di età per Link Jones, peraltro non più giovanissima, ma di una parabola esistenziale che trova il suo momento di redenzione in maniera persino casuale o secondo un destino già scritto, come direbbe qualcun altro. Link, suggerisce la stessa frase citata a cappello di questo commento, nel momento in cui lo vediamo entrare a cavallo in una cittadina dove deve imbarcarsi sul  treno, è già carico di un bagaglio di esperienze segnate da un percorso contraddittorio, che vengono a galla però solo in corso d’opera. Per come si presenta nei primi momenti sembra un uomo rispettabile ma qualsiasi che sta compiendo un viaggio, in realtà sta espletando un incarico importante.

Link è rimasto orfano in tenera età ed è stato allevato da uno zio, Dock Tobin, che è sempre stato un fuorilegge della peggiore risma, spietato assassino ed assalitore di banche. Dopo essere stato a lungo il suo pupillo e braccio destro, Link è fuggito perché, come avrà modo di dichiarare lui stesso, si è reso conto che la sua vita non poteva essere tutta lì ed è riuscito a nascondersi allo zio ed ai vari sceriffi che ancora lo ricercano per trasformarsi in una persona perbene, marito fedele e padre di due figli di otto e dieci anni (che non vedremo mai nel corso della trama). Ma il passato, sembra suggerire il ritornello del film, non si può cancellare a proprio piacere e seppure per vie inaspettate e quando meno uno se lo aspetta, a volte riemerge come se reclamasse un rendez-vous inevitabile per chiudere il cerchio rimasto incompiuto. Al cinema ovviamente ciò accade quasi sistematicamente, in nome della giustizia… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

Film: ‘Searching’

SEARCHING

Titolo Originale: idem

Nazione: Russia, USA

Anno: 2018

Genere: Sociologico, Poliziesco, Thriller

Durata: 102’ Regia: Aneesh Chaganty

Cast: John Cho (David Kim), Debra Messing (Detective Rosemary Vick), Michelle La (Margot Kim), Sara Sohn (Pamela Nam Kim), Joseph Lee (Peter Kim), Steven Michael Eich (Robert Vick), Ric Sarabia (Randy Cartoff)

TRAMA: David, Pam, e la loro figlia poco più che adolescente Margot sono una famiglia felice. Seppure di origine orientale, sono americani, vivono a San José in California e condividono spesso sul loro PC alcune esperienze di vita famigliare e scolastica: testi, foto e video. Il quadretto ideale viene bruscamente interrotto dal crudele risultato di alcune analisi cui si è sottoposta Pam, la quale risulta affetta da una forma aggressiva di leucemia. Le cure cui si sottopone sembrano evolvere positivamente ma l’ottimismo dura poco perché una recidiva ne vince in poco tempo la resistenza. David e Margot si trovano soli a fare i conti con un lutto che ha sconvolto le loro vite. Margot frequenta vari social dal suo PC ed una sera, mentre è fuori casa, in connessione audio/video con il padre dal suo smartphone gli comunica che si sarebbe fermata a dormire a casa di un’amica che fa parte del suo stesso gruppo di studio di biologia. E’ già notte fonda e David è profondamente addormentato quando non sente un paio di chiamate di Margot sul suo PC. La mattina prova a richiamarla ma trova sempre la segreteria. Inizia a preoccuparsi soltanto nel pomeriggio avanzato, non avendo più ricevuto alcuna notizia dalla figlia e scoperto che ha lasciato sorprendentemente a casa i libri di scuola ed il suo Mac. Ricordandosi improvvisamente che è venerdì, giorno abituale di lezione della figlia al pianoforte, David contatta la sua insegnante, la quale però si mostra sorpresa perché sono già sei mesi che non vede più Margot. Il pover’uomo, che ha consegnato con regolarità alla figlia i soldi delle lezioni, resta basito e si rende conto tutto ad un tratto di conoscere molto poco anche le amicizie di Margot. Decide allora di aprire il Mac della figlia e di accedere, seppure con molta fatica e grazie alla sua familiarità con il mezzo, ad alcuni suoi profili nei Social Media che lei abitualmente frequenta, identificando un po’ alla volta le varie password. Trova prima il numero di una compagna del gruppo di studio alla quale telefona immediatamente ma gli risponde che Margot ha lasciato casa sua la sera precedente; quindi compone il numero di casa di un altro compagno di scuola, ma gli risponde la madre la quale lo informa che suo figlio ed un gruppo di ragazzi, inclusa Margot, sono partiti per un campeggio. Sorpreso ma anche rinfrancato dalla notizia, David va a dormire ma all’alba del giorno dopo è svegliato dalla telefonata del ragazzo che gli dice che Margot non è con loro, avendo rinunciato all’invito. David si decide quindi a chiamare il 911 al quale denuncia la scomparsa della figlia e viene contattato poco dopo dalla detective Rosemary Vick che gli comunica di essere stata assegnata al caso e gli detta immediatamente le procedure per predisporre le ricerche, iniziando da tutte le informazioni che lui stesso può fornire per agevolarle. Nonostante Rosemary abbia usato tutto il tatto possibile per rassicurarlo, Kim però vuole rendersi utile e non ce la fa proprio a restare passivo ad attendere gli sviluppi. Scopre così, analizzando dati e cronologia del Mac della figlia, alcuni dettagli della sua vita che ignorava completamente: la sua sofferenza per la morte della madre, la solitudine dalla quale è afflitta da tempo ed anche un conto corrente bancario nel quale Margot caricava di volta in volta i cento dollari che le affidava il padre per pagare l’insegnante di pianoforte. Salta fuori infine il pagamento di duemilacinquecento dollari che la figlia ha eseguito a favore dell’account di un Social, che poco dopo però è stato rimosso. La detective Vick sta eseguendo a sua volta tutte le ricerche possibili ed ha scoperto, grazie alle telecamere piazzate lungo alcune strade principali, che l’auto che guidava Margot ha svoltato, la notte in cui è scomparsa, verso una strada di campagna. Sembra il classico caso da ‘Chi l’ha visto’, conseguente ad una carente comunicazione fra padre e figlia, un disagio non compreso per tempo, ma in realtà gli sviluppi riservano ancora molto sorprese e colpi di scena.    

VALUTAZIONE: Il ventottenne debuttante regista Aneesh Chaganty ha realizzato un piccolo capolavoro, mettendo in scena un film originalissimo che parla di tecnologia, Social Media e rapporti fra genitori e figli, visto però interamente attraverso le webcam dei loro PC, anziché la classica macchina da presa. La tecnologia e la Rete Internet quindi considerate non soltanto come straordinari mezzi d’accesso, informazione e socializzazione, che la famiglia Kim dimostra di aver imparato ad utilizzare con dimestichezza, ma anche come rischio di concretizzazione dei peggiori incubi per un genitore, per quanto maturo e responsabile esso sia. La sparizione della figlia Margot ne è la riprova ma grazie agli stessi mezzi che la tecnologia informatica mette contraddittoriamente a disposizione, David riesce un po’ alla volta, passando attraverso cantonate, delusioni ed una risolutiva intuizione, a scoprire la verità.

Nonostante il cinema ci fornisca da sempre opere di grandi autori che, pur rimanendo nei canoni classici della narrazione, grazie alla qualità dei temi e della loro rappresentazione, risultano utili, godibili e meritevoli di essere ricordate nel tempo, raramente capita d’imbattersi nel film di un esordiente che, pur senza ricorrere ad effetti strabilianti, oppure ad iperbole filosofiche di complicata comprensione per i più, utilizzando mezzi tecnici che molti potrebbero avere a disposizione, anche a livello amatoriale, si distingue per inventiva e capacità di stupire pure lo spettatore più smaliziato ed esperto. E’ il caso di ‘Searching‘ del regista indo-americano Aneesh Chaganty, non ancora trentenne, dal quale quindi è lecito aspettarsi un futuro radioso.

Leggendo qualche informativa riguardo la genesi del suo film, sembra che inizialmente il tutto dovesse diventare un ‘corto’, cioè uno di quei filmati di durata limitata, di solito presentati in qualche rassegna collaterale dei vari festival del cinema, che servono a mettere in luce nuovi talenti. La produzione però, forse avendone intuito l’originalità e le potenzialità, ha spinto il regista a realizzarne un lungometraggio. L’idea che sta alla base di ‘Searching‘ in effetti è geniale, ma Aneesh Chaganty si era chiesto con apprensione, in un primo momento, come farla durare oltre cento minuti senza che apparisse già stantia e monotona dopo la prima mezzora. Il rebus è stato risolto trasformando il plot in un giallo sociologico dalle tinte thriller ed il risultato finale è davvero eccellente. Per essere sicuro però che il tutto si reggesse adeguatamente dal punto di vista narrativo Chaganty ha girato una prima volta, seppure approssimativamente, il film con lui soltanto come protagonista e quando ha ricevuto il pauso della troupe cui l’ha mostrato, ha rigirato le scene con gli attori nei vari ruoli.

Searching‘ innanzitutto è un film attuale, sia per i temi che propone che per i mezzi che utilizza, nonostante le prime immagini mostrino a pieno schermo il desktop di un PC con il sistema operativo Windows XP, oramai superato da una decina d’anni, con i classici suoni che chi ha avuto modo di adoperarlo riconoscerà al volo. Ma quello che conta non è l’aggiornamento all’ultima release di Microsoft, cui s’affianca nel corso del film anche un Mac di Apple con il suo sistema operativo iOS (forse per non far torto all’altro principale ‘competitor’ di sistemi operativi). In realtà, nonostante i tre componenti la famiglia Kim si dimostrino addestrati e spigliati utilizzatori dei sistemi operativi testé citati e delle loro funzionalità, non è questo che è importante per lo spettatore, anche se non fosse altrettanto confidente al riguardo.

Quello che fa la differenza in questo caso è che lo strumento di ripresa utilizzato per girare il film, che non è la classica macchina usata sin dalla nascita del cinema, pur evoluta nelle varie forme e specifiche tecniche, ma le ‘webcam’ integrate negli stessi PC usati da David, Pam e dalla loro figlia Margot. Oltre a questa, nelle poche scene riprese in campo aperto Chaganty si è servito di un altro tipo di videocamera il cui nome sibillino dirà molto poco a chi non l’ha mai sentita nominare: GoPro. La quale è di piccole dimensioni ed è abitualmente utilizzata in ambito sportivo e naturalistico per filmare un’impresa proprio da parte dello stesso che la compie, dalla sua stessa prospettiva, senza la necessità di essere ripreso da terzi perché si può posizionare sopra la testa, come la lampade dei minatori, ad esempio, oppure sul manubrio di una bicicletta ed anche in riprese subacquee.

Il lettore che fosse meno pratico riguardo la terminologia tecnologica applicata all’informatica potrebbe a questo punto legittimamente chiedersi cosa è una ‘webcam’. Bene, si tratta di una piccola videocamera a sua volta, spesso installata sui PC portatili e posta sopra il display, di fronte all’utente che viene quindi ripreso in primo piano. Le immagini possono essere registrate oppure trasmesse ad altri utenti attraverso l’utilizzo di applicativi che consentono, appunto, a due o più persone persone di interagire, collegandosi fra loro, sia in modalità audio che video. Chiusa questa parte descrittiva, dove sta l’originalità di quest’opera? Nel fatto che tutta la storia è mostrata dal lato della ‘webcam’ o GoPro che sia, e soprattutto nell’interazione fra Social Media, connessioni fra PC e smartphone, così come fra la vita in presa diretta e le cronologie registrate in files, audio e video.

Insomma tutta la vicenda è visualizzata attraverso lo schermo del PC utilizzato da David Kim per connettersi abitualmente con la figlia, prima della sua scomparsa e poi con la detective Rosemary Vick. Unica eccezione le ‘News’ dei canali televisivi che aggiornano i loro telespettatori riguardo l’evoluzione delle indagini, con tutto il corollario d’ipocrisia, spregiudicatezza e violazione della privacy che casi del genere inevitabilmente provocano, specie in chi cerca occasioni di facile notorietà, seppure a spese di un immenso dolore…

Un cambiamento di prospettiva che si può considerare tanto semplice quanto geniale, perché lo spettatore è come se diventasse il PC stesso, il suo display e relativa ‘webcam’. Una sorta di finestra che mostra ciò che avviene dentro la casa della famiglia Kim ed in seguito anche in quella del fratello Peter. Si potrebbe forse azzardare inoltre che si tratta di una rivisitazione in chiave tecnologica del ‘cult’ ‘La Finestra sul Cortile‘ di Alfred Hitchcock (clicca sul titolo di diverso colore se vuoi leggere il mio commento al film). Attraverso i click del mouse, le chat, i filmati, i collegamenti audio/video lo spettatore diventa parte muta ed incorporea della famiglia Kim, testimone persino della fase statica, come quando David dorme e riceve una chiamata sul PC tanto importante, che però non sente e lo spettatore vorrebbe tanto poterlo svegliare, avendo già intuito che non si tratta di una chiamata di semplice routine per dargli la buonanotte. E’ una reazione spontanea quindi quella partecipare alla sua ansia, all’evoluzione del suo dramma, al suo non volersi arrendere, così come in precedenza invece è stato istintivo trovare analogie e partecipare alle testimonianze di normale vita familiare che David era solito condividere con la moglie Pam e la figlia Margot… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

Film: ‘Sicilian Ghost Story’

SICILIAN GHOST STORY

Titolo Originale: idem

Nazione: Italia, Francia, Svizzera

Anno: 2017

Genere: Drammatico, Thriller

Durata: 105’ Regia: Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

Cast: Julia Jedlikowska (Luna), Gaetano Fernandez (Giuseppe), Corinne Musallari (Loredana), Andrea Falzone (Nino), Federico Finocchiaro (Calogero), Lorenzo Curcio (Mariano), Vincenzo Amato (Padre di Luna), Sabine Timoteo (Madre di Luna), Filippo Luna (U’Nanu)

TRAMA:  Giuseppe e Luna sono adolescenti e coetanei. C’è della simpatia fra loro, anche se Luna non vuole ancora ammetterlo. Giuseppe è figlio di un pentito della mafia che sta collaborando con la polizia. La madre di Luna, anche per tale ragione, non vuole che lo frequenti. Luna è una ragazza sveglia che disegna molto bene, anche i muri della sua stanza. Un boss di Cosa Nostra non ha gradito il comportamento del padre di Giuseppe e sta facendo pedinare suo figlio, che è anche un abile cavaliere ed al maneggio possiede un cavallo. Un giorno, Giuseppe porta Luna a vederlo mentre cavalca ma alla fine, mentre lei è distratta a guardare il panorama ed il giovane è all’interno del capannone del maneggio, due auto s’avvicinano ed il ragazzo viene caricato a forza e portato via. Luna non trovandolo più, scende a piedi la strada verso il paese e viene raggiunta dal padre in auto, preoccupato per il suo ritardo. Luna ha anche un’amica, Loredana, con la quale si scambia messaggi dalle reciproche camere, poste di fronte ma a distanza, con i lampi di luce delle torce utilizzando l’alfabeto Morse. Luna non si rassegna alla sparizione di Giuseppe, anche se a casa di lui la madre non risponde quando suona insistentemente il campanello ed il padre del ragazzo poi la caccia in malo modo. A scuola nessuno ne vuole parlare, anche quando Luna chiede esplicitamente notizie. In casa sua madre, una donna molto protettiva ma fredda, la invita apertamente a disinteressarsi del destino di Giuseppe. Il padre è più comprensivo e cerca di difenderla. Il tempo passa, Luna e Loredana per attirare l’attenzione si tingono i capelli di blu e distribuiscono volantini con la foto di Giuseppe stampata fra il disinteresse o la riprovazione dei passanti del loro paese. Nel frattempo il giovane è prigioniero dentro un casolare isolato, legato ad una catena. L’unico contatto con il mondo esterno è una lettera che gli aveva consegnato Luna il giorno del rapimento, nella quale si dichiarava e che lui continua a leggere. L’obiettivo dei rapitori è costringere il padre del giovane a rinunciare alla collaborazione con la polizia, ma il tempo passa e nulla cambia al riguardo. Luna ha delle visioni ed è convinta di riuscire a trovare il luogo dove Giuseppe è prigioniero. Cerca di spingere i carabinieri a non mollare le indagini ma complice una suggestione che si trasforma in un tentativo di suicidio nel laghetto dove l’aveva portata il padre per trascorrere un pomeriggio assieme, Luna viene considerata psicologicamente instabile. Dopo alcuni mesi il ragazzo è allo stremo ed il suo destino sembra segnato. Luna è oramai ossessivamente legata a quel ricordo e frustrata dalla mancanza d’iniziativa da parte di tutti, incluse le autorità, per trovarlo. La conclusione è tragica.

VALUTAZIONE: un’opera realizzata in omaggio e ricordo della crudele e feroce vicenda della quale è stato protagonista e vittima il povero Giuseppe Di Matteo, il ragazzino sequestrato dalla mafia nel 1996 e sciolto nell’acido dopo 779 giorni di prigionia. Fra sogno, incubo e realtà la coppia di registi e sceneggiatori Fabio Grassadonia e Antonio Piazza ha realizzato un thriller duro e romantico al tempo stesso, che ovviamente non può avere un lieto fine ma che nel confronto fra fantasia e realtà colpisce al cuore lo spettatore. L’opera prende spunto dalla storia vera di quello spietato delitto in tutto il suo crescendo di malvagità, ma lancia anche un messaggio di speranza affinché molti giovani come Luna ed anche Loredana siano capaci di ribellarsi e scardinare i tabù ed i retaggi secolari che ancora oggi purtroppo avvelenano quelle terre e non solo, a causa delle organizzazioni mafiose e delle loro complicità. La distanza che separa la ragazzina protagonista dalla società ancora schiava dell’omertà appare siderale, ben maggiore di quella generazionale.

Opera che ha aperto la Settimana della Critica del Festival di Cannes del 2017, ‘Sicilian Ghost Story‘ della coppia di registi Fabio Grassadonia e Antonio Piazza aveva ricevuto dieci minuti di applausi. E li aveva meritati tutti, innanzitutto per aver avuto il coraggio di riportare alla luce uno degli episodi criminali più esecrabili di fine secolo scorso legati alla mafia. Poi perché i due sceneggiatori, cioè la stessa coppia citata in precedenza, ispirandosi liberamente al racconto ‘Un Cavaliere Bianco‘ scritto da Marco Mancassola, hanno saputo rielaborare l’episodio della brutalità dell’assassinio di Giuseppe, un ragazzo adolescente, filtrandola attraverso una sorta di favola socio-politica con venature dark, alla quale hanno aggiunto la tenera storia sentimentale di una coppia di giovanissimi, seppure purtroppo destinata ad una fine prematura e soprattutto tragica. La sceneggiatura è stata premiata con il David di Donatello nel 2018 e l’opera nella sua interezza con il Sundance Institute Global Filmmaking Award al Sundance Film Festival del 2016, un riconoscimento che viene attribuito a ‘registi emergenti dalle diverse parti del pianeta che posseggono l’originalità, il talento e la visione per essere celebrati come futuro del cinema mondiale’.

Il titolo del film è appropriato e fuorviante al tempo stesso. Potrebbe risultare ingannevole per lo spettatore che, senza nulla sapere del contesto narrativo, dovesse supporre trattarsi di un fantasy nostrano, se non addirittura con sfumature horror. Diventa invece un titolo allusivamente appropriato se si considera il destino crudele dello sfortunato protagonista Giuseppe, un ragazzo educato e di bell’aspetto, appassionato di equitazione, nato e cresciuto in Sicilia, il quale sparisce improvvisamente dalla sua famiglia, dai suoi compagni di scuola, dal suo paese e soprattutto da Luna, con la quale stava per nascere qualcosa di più di una simpatia adolescenziale, diventando per questo una sorta di fantasma, appunto.

In realtà il suo è un rapimento di stampo mafioso, cui seguono alcuni messaggi ricattatori per il padre, un pentito e collaboratore della polizia. Nella più completa indifferenza dei compaesani, è la giovanissima Luna, compagna di scuola di Giuseppe, verso il quale prova qualcosa di più di un’amicizia, l’unica a ribellarsi ad un destino che per molti è già scritto ed all’omertà che tipicamente contorna questi eventi e non manca neppure in questo caso.

L’ostilità della madre di Luna, una donna castigata, dura e perfettamente integrata in quel contesto, cui interessa soltanto che la figlia faccia bene a scuola e non frequenti quel ragazzino di una famiglia compromessa; l’atteggiamento scostante del padre di Giuseppe, che non si capisce quanto sia dovuto a riservatezza, vergogna oppure ad evitare che Luna possa compromettersi a sua volta; la disperazione repressa della moglie, chiusa in casa e già vestita a lutto; la reticenza della comunità che se non è schierata a favore del boss mafioso, di certo si comporta come se il fatto non fosse accaduto o comunque non la riguardasse ed infine persino l’atteggiamento degli insegnanti che negano l’evidenza riguardo la prolungata assenza da scuola di Giuseppe, diventano a tal punto insopportabili per Luna che le sue iniziative, aiutata dall’amica Loredana, l’unica che sembra comprenderla e volerla aiutare, si trasformano in una sorta di disperata ossessione, snobbata da tutti, tollerata solo per la sua giovane età ed alimentata dal tempo che trascorre inesorabile senza che nulla cambi ed evolva. La frustrazione di Luna si tramuta perciò in rabbia, poi in delusione, quindi in depressione ed infine in suggestione, al punto che arriva ad avere delle visioni, neppure tanto lontane dalla verità dei luoghi e dei fatti, i cui indizi la portano per davvero sulle tracce di Giuseppe prigioniero. La sua immaginazione poi le fa addirittura sperare e supporre di arrivare in tempo per salvarlo.

Sicilian Ghost Story‘ è quindi un film nel quale realtà, sogno ed utopia si sovrappongono spesso, sempre a causa, se così si può dire, di una vicenda che è osservata da un lato attraverso gli occhi a lungo pieni di convinzione e speranza di Luna e dall’altro in quelli purtroppo via via sempre più disperanti di Giuseppe. Mentre l’ambito sociale, nelle sue molteplici espressioni, è muto ed immobile e domina il retaggio secolare di una terra nella quale certe faccende si regolano chiudendosi occhi ed orecchie e facendosi gli affari propri, così che un giovane innocente può essere sciolto nell’acido nell’indifferenza generale, come se fosse la naturale conseguenza di uno sgarro rivolto al boss della zona; Luna, nella sua innocenza, spregiudicatezza ed entusiasmo giovanile, è determinata ad agire anche da sola, inconsapevole ed in spregio ai rischi che corre nel tentativo di superare il menefreghismo e la complicità silenziosa che la circonda, assumendo in prima persona iniziative e responsabilità che spetterebbero ad altri, ad iniziare dalle autorità che invece si sono appiattite a loro volta sulla mentalità corrente…  (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

Film: ‘The Circle’

THE CIRCLE

Titolo Originale: idem

Nazione: USA

Anno: 2017

Genere: Fantastico, Drammatico, Sociologico

Durata: 110’ Regia: James Ponsoldt

Cast: Emma Watson (Mae Holland), Tom Hanks (Eamon Bailey), John Boyega (Kalden), Karen Gillan (Annie Allerton), Ellar Coltrane (Mercer Regalado), Patton Oswalt (Tom Stenton), Bill Paxton (Vinnie Holland), Glenne Headly (Bonnie Holland), Amir Tala (Matt), Poorna Jagannathan (Dott.ssa Jessica Villalobos), Nate Corddry (Dan), Jimmy Wong (Mitch), Ellen Wong (Renata), Smith Cho (Gina), Judy Reyes (Deputata Olivia Santos), Elvy Yost (Sabine), Eve Gordon (Sen. Williamson)

TRAMA: Mae Holland, grazie all’amica Annie, viene invitata ad un colloquio presso la società The Circle che si occupa di telecomunicazioni, tecnologia e social media. Viene assunta e si ritrova in un ambiente giovane, dinamico, ben retribuita e nel quale i due proprietari e soci fondatori, Eamon e Tom, spingono i dipendenti a condividere il più possibile le loro esperienze ed il loro tempo in un campus dotato di ogni comfort. Mae è stupita da tutto ciò che la circonda ma anche perplessa riguardo il fatto che la privacy in quel posto non è più considerata un bene da rispettare. Impara velocemente, comunque, come migliorare le proprie performance nei confronti dei clienti e viene spinta a scoprire e condividere il sistema di social media interno, TrueYou, attraverso il quale si può trovare qualsiasi opportunità, anche sostegno e cure per suo padre, affetto dalla SLA. Nel frattempo conosce Kalden, un giovane di colore che mostra di saperla lunga riguardo l’origine e la direzione intrapresa da The Circle. In una delle riunioni plenarie dei dipendenti che si tengono tutti i venerdì, Eamon mostra alla platea una nuova telecamera microscopica che ha la forma di un occhio, dal costo di produzione irrisorio, installabile ovunque, grazie alla quale si può controllare e gestire ogni luogo, persona e situazione. Una riprova della sua efficacia la scopre pochi giorni dopo la stessa Mae quando, uscita di notte in kayak nella baia senza curarsi dei rischi, si ritrova immersa nella nebbia e poi capottata in acqua. Sarebbe annegata se le telecamere non l’avessero ripresa e fatto scattare l’allarme per i soccorritori che infatti sono prontamente intervenuti. Spinta da Eamon e Tom a raccontare la sua esperienza davanti a tutti i suoi colleghi, Mae per sdebitarsi accetta di partecipare in prima persona ad una nuova iniziativa, denominata ‘See Change’, indossando come una spilla all’occhiello una di quelle piccole telecamere per condividere ogni momento della sua vita, esclusi ovviamente i bisogni fisiologici e le ore di sonno. Travolta dal successo dell’iniziativa che la rende popolare in tutto il mondo, Mae diventa a sua volta una convinta sostenitrice delle attività di The Circle e addirittura propositiva affinché ne seguano altre ancora più ambiziose e coinvolgenti, nonostante a causa sua siano andate in onda immagini intime imbarazzanti dei suoi, il che li ha spinti a spegnere le telecamere che avevano accettato d’installare in casa loro. Mae però, oramai è diventata una star del Web e condivide la filosofia di The Circle, perciò accetta di pubblicizzare un altro sistema, denominato ‘Soul Search’, il quale grazie alla condivisione globale permette persino di catturare una latitante fuggita già da tempo dal carcere dove scontava la pena per un delitto agghiacciante. ‘Soul Search’ però può essere usato anche per scopi meno eclatanti, come per ritrovare vecchi amici ad esempio e la platea la spinge controvoglia ad avviare l’algoritmo per cercare il suo amico Mercer, il quale ha sempre avuto un rapporto di distacco dalla tecnologia e nel frattempo si è nascosto per sfuggire alle spiacevoli conseguenze di una non richiesta impopolarità, innescata involontariamente dalla stessa Mae. Viene ritrovato nel giro di pochi minuti e cercando di fuggire, viene inseguito da numerose persone, sinché la sua auto finisce per sfondare la paratia di un ponte e precipitare nel vuoto. Pur sconvolta da questo evento e sorpresa anche dall’amica Annie che nel frattempo, da entusiasta stacanovista, ora sembra distrutta dallo stress degli impegni pressanti cui è stata sottoposta in giro per il mondo per conto di The Circle, Mae è ancora convinta, nonostante tutto, che The Circle abbia delle potenzialità positive ma che è stato usato impropriamente sino a diventare un pericoloso boomerang. Perciò si mette in contatto con Kalden, dal quale viene a sapere i retroscena del sistema messo in atto da Eamon e Tom, non propriamente volto al bene comune. Grazie alle capacità tecniche di Kalden, Mae decide di usare gli stessi metodi dei due soci per smascherarli pubblicamente, senza però distruggere quanto di buono The Circle può comunque offrire come servizio innovativo e utile alla comunità globale.  

VALUTAZIONE: un’opera che punta a mettere il luce le distorsioni alle quali può portare l’uso improprio della tecnologia quando viene sfruttata da soggetti senza scrupoli per ragioni di affermazione personale, potere, interesse economico o per condizionare le coscienze a discapito del libero arbitrio. Le allusioni ad alcuni colossi del mondo Internet, Social Media in particolare e delle Telecomunicazioni sono evidenti. James Ponsoldt ha però sprecato l’occasione ed alcuni interpreti del calibro di Tom Hanks e Emma Watson. Il film parte bene infatti e sino a metà contiene spunti di apprezzabile efficacia figurativa, ma sprofonda nella seconda parte in un cliché che svilisce la portata e l’importanza del tema sino a scivolare ad un finale arrangiato, frettoloso e consolatorio. Peccato, perché c’erano tutti gli ingredienti utili per realizzare un’efficace analisi critica sull’uso del Web e della psicologia delle masse per finalità di persuasione ed inganno. 

Senza segreti, con l’accesso a tutte le informazioni personali, potremo esprimere al massimo il nostro potenziale. Potremo vedere ogni cosa…‘. Questa frase, pronunciata da Eamon Bailey (interpretato da Tom Hanks), cofondatore della società di telecomunicazioni The Circle, si può considerare alla stregua di una sintesi dell’idea che sta alla base del film omonimo, tratto dal romanzo con lo stesso titolo scritto da Dave Eggers. Una enunciazione volta a trasmettere un significato positivo e che genera però al tempo stesso anche inevitabili interrogativi, le cui risposte possono portare a conclusioni di segno completamente opposto. Purtroppo c’è di mezzo l’uomo, con la sua natura contraddittoria di genio, sregolatezza e malvagità, di filantropo e di cinico egoista, a seconda dei casi e dei soggetti. La storia che racconta quest’opera ne è un’ulteriore conferma.

La sede dell’immaginaria società che è al centro di ‘The Circle‘, come indica il suo stesso nome, ha la forma di un anello ed è impossibile non notare l’impressionante somiglianza con quella di Apple Park, ovvero la sede principale dell’omonima società di Cupertino, nella famosa Silicon Valley, non lontana da San Francisco nello stato della California, dove risiedono anche molti altri giganti della tecnologia e del Web, come Microsoft, Facebook/Instagram, Adobe, Netflix, Cisco, Intel, una parte di Amazon e solo per citarne alcuni fra i più noti. Diventare dipendenti di una qualsiasi di quelle organizzazioni è tuttora il sogno di milioni di giovani e non. In The Circle li chiamano ‘guppy‘ i nuovi assunti, che nella realtà è ‘un piccolo pesce d’acqua dolce, nativo di Trinidad e parti del Sud America, ampiamente utilizzato in ricerche di laboratorio…‘ ed è difficile escludere, a proposito di ciò che è richiesto agli ultimi arrivati come Mae Holland, che non via sia una diretta e voluta ironica allusione.

Come si può notare nel video pubblicitario realizzato dalla stessa Apple e proposto su Youtube, accessibile qui sotto, all’interno dell’anello c’è un ‘campus‘ dove natura, servizi e tecnologia trovano, nello spirito di chi l’ha ideato e degli architetti che l’hanno realizzato, la loro sintesi ideale. Il filmato mostra proprio la struttura, in parte interna ed in parte esterna, dell’avveniristica sede del colosso americano, produttore fra l’altro, di iPhone, iPad, Mac e del sistema operativo IOS. Per quanto possa colpire lo spettatore l’esibizione di alta tecnologia, le immense vetrate dalla geometrica ed utilitaristica forma ed i servizi offerti ai propri dipendenti (pare contenga oltre 9.000 piante appositamente interrate di mele, albicocchi, cachi e ciliegie, sia dentro che nell’area esterna a quella specie di astronave), tutto ciò però non è che solo una frazione di ciò che lo scenografo Gerald Sullivan ha cercato di rappresentare in ‘The Circle‘. 

Le persone che entrano a far parte di questa società all’avanguardia, nella visione dei due soci fondatori Eamon Bailey e Tom Stenton, si devono sentire parte di un progetto innovativo e grandiosamente ambizioso. In un’ottica ancora più estesa, i dipendenti, quasi tutti molto giovani, si devono spersonalizzare e mettere al servizio di una ‘mission‘ che si pone l’obiettivo di fornire servizi ad alto contenuto ed utili a semplificare la vita delle persone, non solo in USA ma anche nel resto del mondo, attraverso una sorta di condivisione globale. In tale velleitario progetto il vissuto precedente del singolo e con esso anche il suo libero arbitrio è superato da una nuova concezione, riassunta nel motto ‘i segreti sono bugie‘. Al tempo stesso, la sede di The Circle è una sorta d’idealizzazione circoscritta di ciò che dovrebbe e potrebbe diventare il mondo seguendone la stessa filosofia.

Al di fuori della futuristica sede rappresentata dal cerchio, infatti non ci sono bisogni, necessità, aspettative che non si possano soddisfare già al suo interno, perciò non hanno senso le comuni forme d’individualismo e di riservatezza. Mae (interpretata da Emma Watson, l’ex bambina prodigio nei panni di Hermione Granger nella saga di ‘Harry Potter‘, qui alla soglia oramai dei trent’anni) resta al tempo stesso strabiliata e perplessa, già la prima volta che mette piede in quel posto, grazie all’amica Annie che la ritiene sprecata nel deprimente ‘call center’ della locale società del gas e le procura, persino a sua insaputa ma con l’intento di renderla partecipe del suo stesso entusiasmo, un colloquio con un giovane ma già esperto selezionatore del personale di The Circle, che le pone domande anche stravaganti ma utili a comprenderne carattere e personalità. Mae si esprime con convinzione e sincerità ottenendo il plauso del suo intervistatore.

Anche nella sua nuova postazione di lavoro, almeno inizialmente Mae deve rispondere alle chiamate dei clienti ma il sistema che le hanno messo a disposizione è tutt’altra cosa dal punto di vista tecnologico, più complesso ma anche più stimolante; l’ambiente intorno a lei è composto da giovani entusiasti; la retribuzione è al di sopra delle sue più rosee aspettative ed il contesto lavorativo è straordinariamente vibrante e coinvolgente. L’amica Annie a sua volta è iperattiva e compie continui viaggi in giro per il mondo, animata da un entusiasmo che è contagiante anche per la stessa Mae. Eppure qualcosa non convince appieno la neo assunta dall’aderire senza riserve allo spirito di quell’organizzazione e la spinge a trattenersi, pur senza darlo a vedere apertamente, dal sentirsi pienamente inserita nella stessa filosofia aziendale… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

Film: ‘Amiche Di Sangue’

AMICHE DI SANGUE

Titolo Originale: Thoroughbreds

Nazione: USA

Anno: 2017

Genere: Thriller, Noir, Drammatico

Durata: 90’ Regia: Cory Finley

Cast: Olivia Cooke (Amanda), Anya Taylor-Joy (Lily), Anton Yelchin (Tim), Paul Sparks (Mark), Francie Swift (Cynthia), Kaili Vernoff (Karen)

TRAMA: Amanda ha ucciso il suo cavallo in modo crudele ed in conseguenza è stata sottoposta a sedute psichiatriche. Lily è una sua amica d’infanzia, da quando andavano a scuola e facevano assieme equitazione. Entrambe sono ancora molto giovani ed appartengono a famiglie agiate. Da quando il padre di Lily è deceduto, le due ragazze si sono però perse di vista. La madre di Lily è diventata la compagna di Mark, un uomo molto ricco, proprietario di una favolosa villa, con il quale però la figliastra ha un rapporto freddo e molto problematico. La madre di Amanda ha chiesto a Lily, dietro lauta ricompensa, di darle qualche ripetizione per riportarla in pari con la scuola nell’anno della maturità, anche perché Amanda dopo quell’episodio, per il quale dice di non provare alcun pentimento, si è isolata dai suoi coetanei, che a loro volta la evitano volentieri. Amanda ha un carattere forte ed una spiccata personalità, Lily perciò l’accoglie inizialmente con circospezione, come se la temesse e Amanda d’altra parte non fa niente per nascondere il cinismo con il quale le viene naturale esprimersi. Riprendendo a frequentarsi di nuovo però, le due ragazze tornano ad affiatarsi e Amanda nota l’ostilità che vige fra Lily e Mark, così che un giorno le chiede se ha mai pensato di ucciderlo. La prima reazione di Lily è di sorpresa e rifiuto ma con il tempo l’idea di liberarsi del patrigno e di farla franca, seguendo la strategia proposta dall’amica e cotanea, inizia a prendere corpo. Il piano architettato dovrebbe garantire ad entrambe un alibi di ferro perché decidono di lasciare l’incombenza materiale del delitto a Tim, un giovane spacciatore con il quale Lily ha avuto nel frattempo un breve dialogo al termine di una festa studentesca e che poi assieme hanno contattato ed allettato con una sostanziosa cifra. Resosi però conto del contesto dove dovrebbe compiere il delitto e dei rischi annessi, Tim vorrebbe tirarsi indietro, ma le due complici lo costringono a collaborare ricattandolo con una registrazione vocale che lo inchioderebbe alle sue responsabilità. Le cose però non vanno nel senso sperato e Mark, ignaro della trama ordita contro di lui, si presenta inaspettato e sorridente nel centro benessere dove Lily è andata con la madre a trascorrere il weekend nel corso del quale lui avrebbe dovuto essere assassinato. Nei giorni a seguire però impone a Lily di andare prossimamente in un college dove, secondo Mark, le insegneranno a vivere e per quanto lo riguarda, finirà di pesare sul suo conto spese. La decisione, che è avallata dalla madre, convince la giovane ad agire in prima persona, coinvolgendo ancora una volta Amanda. Il finale non è per nulla scontato.

VALUTAZIONE: opera d’esordio di Cory Finley, il quale però mostra di aver appreso con profitto la lezione di maestri come Hitchcock, De Palma, Kubrick e Tarantino sulla corretta messa in scena di un dark thriller. Sarcasmo, freddezza, cura dei dialoghi, eleganza formale, una trama ben congegnata e due ragazze inquietanti, ognuna a suo modo, rendono quest’opera particolare e dotata di una buona dose di suspense. E se anche lo si considerasse soltanto un bell’esercizio di stile, non essendo chiaro dove il regista voglia effettivamente andare a parare, è di quelli che non lasciano indifferenti e fanno ben sperare sulle promettenti qualità del giovane regista.  

Thoroughbreds’ è il titolo originale di ‘Amiche di Sangue‘. In inglese significa ‘purosangue‘, che gli esperti di equini ci spiegano trattarsi di una razza pura di cavalli, cioè non mescolata ad altre. Viste le prime immagini si potrebbe pensare in effetti ad una stretta correlazione con il tema del film mentre invece ne rappresenta soltanto la premessa ed in seguito assume al più un carattere allegorico e liberatorio. L’impressione quindi è che il titolo nostrano una volta tanto descrive meglio il contesto di questa opera d’esordio di Cory Finley, che inizialmente ne aveva scritto il soggetto per farne una ‘pièce teatrale‘, ambito dal quale lui proviene, ma poi è stato convinto a scriverne anche la sceneggiatura per un film e misurarsi persino dietro la macchina da presa, con risultati senz’altro lusinghieri.

Purosangue (senza che l’accostamento debba apparire in nessuna misura offensivo) si possono definire, a loro modo, anche Amanda e Lily, le due giovani maturande protagoniste di questo film che inizia con connotazioni di stampo psico-sociologico per poi virare decisamente nel dark-thriller. Entrambe infatti sono appartenenti alla cosiddetta ‘upper class‘, la grande ed opulenta borghesia che abita, in questo caso, in sfarzose ville immerse nel verde dello stato del Connecticut, negli USA e sono cresciute perciò negli agi e nei privilegi, fra i quali è inclusa anche la pratica dell’equitazione. Nel parco che circonda la dimora dove abita Lily, il prato è costantemente curato da addetti a bordo di apposite macchine per rasare perfettamente l’erba, necessarie per operare nei vasti spazi intorno e c’è persino una scacchiera a cielo aperto i cui elementi sono costruiti con pietre di grandi dimensioni. Amanda però ha ucciso il suo cavallo, con freddezza ed in modo talmente crudele da essere stata costretta ad una terapia psichiatrica, mentre a suo dire ha compiuto soltanto un atto di pietà, dato che l’animale era zoppo e non poteva più correre com’era solito fare assieme a lei. E ciò nonostante, nella sua camera conserva ancora trofei e medaglie che ha vinto in groppa a lui.

Amiche di Sangue‘ è stato presentato al Sundance Festival nel 2017, una rassegna di film che spesso ha rivelato giovani talenti. Purtroppo è diventato tristemente noto, in questo caso, soprattutto perché l’attore che interpreta il personaggio di Tim, ovvero Anton Yelchin, è morto in circostanze paradossali pochi giorni dopo il termine delle riprese, schiacciato dalla sua auto, dopo essere sceso per aprire il portellone del box di casa.

Tornando al film, un’idea sul genere di appartenenza si riceve, prim’ancora che dalle immagini, dalla colonna sonora, attribuita al violoncellista Erik Friedlander e costituita più che da una serie di armonie (a parte un ‘Ave Maria‘ di Shubert, invero un po’ sorprendente laddove viene proposta), semmai da suoni, scelti ad hoc dagli esperti di ‘sound designer‘ e finalizzati ad anticipare ed a meglio rappresentare gli stati d’animo, alcuni particolari di scena e di stile, o in senso più lato talune situazioni. Già l’arrivo di Amanda, accompagnata in auto sino alla villa dove abita l’amica d’infanzia Lily, è appunto sottolineato da alcuni effetti acustici inquietanti che rendono palese, precorrendola, la tensione che resterà costante nel corso dell’opera.

Suddivisa in quattro capitoli che rappresentano altrettanti momenti di ‘cambiamento’, nel primo c’è proprio la figura di Amanda posta in primo piano. La quale peraltro dimostra subito di non essere estranea all’interno di quella lussuosa villa, nonostante di lì a poco si viene a sapere che non la frequentava più da tempo. Ricevuta all’ingresso da una cameriera, che la invita ad attendere che Lily la raggiunga, Amanda invece inizia per conto suo a muoversi e curiosare nei locali del piano terra dove emerge, fra numerosi e ricercati oggetti ed arredamenti di valore, anche una parte del suo passato, raffigurato in una foto appesa ad una parete che la ritrae, giovanissima, a cavallo di fianco a Lily. Addirittura Amanda ripropone allo specchio, posto di fianco, il sorriso che mostrava da piccola in quella stessa foto. Poi ispeziona indiscreta una busta appoggiata sulla balaustra delle scale, che contiene un bel gruzzolo di banconote e quindi la ripone sul medesimo posto e nella stanza attigua sale in piedi su una poltrona per sfilare dalla custodia una katana, cioè una spada giapponese, appesa sopra il camino, di proprietà del patrigno di Lily. Ed è proprio lì che la raggiunge quest’ultima, la quale anziché riprenderla per le libertà che si è presa in casa d’altri, si mostra cordiale seppure distaccata e guardinga. La ragione ovviamente è dipendente dalla vicenda del cavallo sgozzato da Amanda. E insomma, come darle torto? (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

Film: ‘Piuma’

PIUMA

Titolo Originale: idem

Nazione: Italia

Anno: 2016

Genere: Commedia

Durata: 98’ Regia: Roan Johnson

Cast: Luigi Fedele (Ferro), Blu Yoshimi (Cate), Michela Cescon (Carla Pardini), Sergio Pierattini (Franco Pardini), Francesco Colella (Alfredo), Francesca Antonelli (Rita), Brando Pacitto (Marco), Clara Alonso (Consuelo), Bruno Squeglia (Paolo), Francesca Turrini (Stella), Massimo Reale (Leo), Bruno Squeglia (Nonno Lino)

TRAMA: Ferro e Cate l’hanno combinata grossa: l’anno della maturità lei è rimasta incinta. Cate è figlia di Alfredo, un uomo che s’arrabatta da sempre senz’arte né parte e convive con Rita. La madre di Cate, rumena, l’ha già piantato da tempo e se n’è tornata nel suo paese. Ferro è un ragazzo sensibile e un po’ guascone. Ne ha combinate già un bel po’, per la disperazione del padre Franco e l’indulgenza della madre Carla. Nonostante l’imminente responsabilità che, per loro stessa ammissione, non sono preparati a gestire; senza soldi e senza una casa, Cate e Ferro non rinunciano comunque a progettare di portare a termine la maternità e assieme ad alcuni loro compagni d’iniziare una vacanza in Spagna e Marocco, appena concluso l’esame di maturità. La giovane coppia, molto affiatata, ha rinunciato subito a soluzioni estreme come l’aborto, una minaccia del quale però si verifica proprio nel momento in cui Cate sta per entrare nell’aula davanti alla commissione per l’esame orale. Il ginecologo le prescrive assoluto riposo ed esclude la possibilità del viaggio con i loro compagni, che partono quindi senza di loro. Trovata una temporanea sistemazione nella casa del nonno materno di Ferro, che sta proprio sopra quella dei genitori, sono costretti a dare alloggio anche al padre di Cate, cacciato da Rita dopo l’ennesimo fallimento sul lavoro e per i soldi persi nelle scommesse ai cavalli. Al ritorno dei compagni dal viaggio, Ferro va con l’auto del padre a prendere all’aeroporto l’amico Marco, timido e titubante alla partenza ma tornato trasformato, in compagnia di alcuni giovani stranieri, fra i quali un’argentina che subito lascia capire a Ferro di essere sin troppo disinibita e disponibile. Lui, per resistere alla tentazione, dopo aver telefonato invano a Cate che non l’ha sentito avendo le cuffie alle orecchie, chiede ospitalità a Stella, una cugina adulta, esperta a suo dire di chinesiterapia che è stata chiamata da Franco per aiutare il nonno Lino a recuperare l’uso delle gambe conseguente ad un malore. Complici il fumo di alcune canne e le pareti della stanza disseminate di fotografie osé di Stella, finisce per andarci a letto. Al ritorno a casa, Cate capisce che Ferro l’ha tradita ed ha una reazione rabbiosa accusandolo d’aver iniziato troppo presto a mentirle. Un mese dopo anche Stella risulta incinta e Ferro, disperato, si confida, di nascosto a Cate ed alla madre, con il padre Franco, sempre più insofferente per la situazione familiare che lo ha portato addirittura alle soglie della separazione dalla moglie Carla, quando invece sognava, una volta in pensione, di poter vendere la casa di Roma e tornare serenamente all’amata e natia Toscana. Ferro si rinfranca un po’ quando incontra Stella e lo mette al corrente di aver rinunciato alla maternità, ma Cate, oramai rassegnata dalla situazione precaria a non poter crescere come vorrebbe alla nascitura, alla quale hanno deciso di dare il nome Piuma, gli propone di darla in affido. Il giorno in cui si devono recare dall’avvocato per avviare le pratiche, ci sono tutti nel furgonato del padre di Ferro: lui, la madre, Cate, suo padre Alfredo e persino il nonno Lino. Durante il viaggio sentono il commovente messaggio audio che ha inciso Ferro per Piuma che lei dovrebbe ascoltare quando sarà grande abbastanza da capire. Si rendono conto però che sarà difficile che ciò possa accadere; per giunta il nome scelto da loro probabilmente sarà cambiato dai nuovi genitori e non potranno neppure sceglierli, come avrebbero voluto. Ferro non regge all’evidenza di una realtà che non aveva immaginato così dura e rischiando di provocare un incidente, costringe il padre di Cate, che era alla guida, ad accostare finendo la corsa con un po’ di paura su un prato. Una volta scesi, rassicurati da Cate sulle sue condizioni e dopo uno sguardo d’intesa fra lei e Ferro, rinunciano al proposito di dare in affido Piuma. Anche i loro genitori ed il nonno sono d’accordo stavolta, quindi tornano tutti a casa ed il futuro sarà quel che sarà.   

VALUTAZIONE: un’opera tutto sommato fresca e simpatica, che permette di ridere spesso alle battute in romanesco e in accento toscano dei protagonisti ed alle situazioni paradossali che comunque, fra il serio ed il faceto, trattano temi importanti come la maternità prematura, l’affido, genitori irresponsabili e/o egoisti, giovani ancora impreparati alle grandi scelte della vita ma comunque coraggiosi ad affrontare la sfida, vada come vada. Il tutto comunque in un clima di leggerezza, come la piuma del titolo appunto, con un regista italiano dal nome straniero per via del padre, un’attrice italiana con il nome di un filosofo buddista e maturi caratteristi nostrani che sanno rendere al meglio i rispettivi personaggi. Non è tutto oro che luccica, naturalmente, ma i pregi sono superiori ai difetti ed il film ispira ottimismo e speranza in un futuro meno precario, per quanto ancora tutto da costruire.   

Piuma‘ lo avevo già visto tempo fa ma non ne avevo scritto perché in quel momento non avevo avuto purtroppo il tempo per farlo, però mi ero riproposto di rimediare in seguito. Mi è ricapitato recentemente e l’ho iniziato, così, tanto per rivederne solo alcuni momenti e rinfrescarmi la memoria. Mi sono ritrovato invece ad andare sino in fondo, pur conoscendone già gli sviluppi e persino ricordandone, prima ancora che le pronunciassero i protagonisti, alcune fra le battute più divertenti, nonostante al centro ci siano alcune questioni invero piuttosto serie. Il che non significa per nulla che sia un film superficiale, ruffiano, o che punti a risolvere tutto, appunto, con qualche facezia divertente e ad effetto.

Altrimenti tutto un filone storico cinematografico, non solo italiano, andrebbe rivisto con una severità di giudizio che non merita assolutamente. Anzi, vedi la recensione ultima del film ‘Il Cielo Può Attendere‘ di Ernst Lubitsch (clicca sul titolo se vuoi leggerla), il regista di origine tedesca ma emigrato in USA, con elegante spirito trasgressivo trattava con il suo celebre ‘tocco’ temi molto seri e profondi, come l’infedeltà coniugale e addirittura il giudizio dopo la morte, dimostrando che ci sono stati e ci sono autori che hanno fondato e costruiscono tuttora la loro brillante carriera sulla dissacrazione, l’ironia ed il sarcasmo, realizzando comunque opere di grande qualità, contenuti, per il massimo gradimento del grande pubblico.  

Il regista Roan Johnson, italiano nonostante le apparenze, essendo figlio di un inglese e di una donna di Matera, ma cresciuto a Pisa, dove si è laureato e poi a Roma dove si è specializzato nel cinema, in questa sua quarta prova dietro la macchina da presa non si pone di certo, sia chiaro, al pari di certi autori che hanno fatto la storia del cinema e legittimati a parlare di questioni serie, anche provocatorie, con leggerezza e raffinatezza, come il già citato Ernst Lubitsch (ma la lista sarebbe lunga, scorrendola a volo d’angelo fra alcuni dei nomi più prestigiosi: da George Cukor a Charlie Chaplin, da Vittorio De Sica ad Alfred Hitchcok, da Billy Wilder a Woody Allen, ecc. ecc…). Johnson disegna comunque il quadro non banale – per quanto in chiave di commedia a sfondo sociale che vuole essere spiritosa senza rinunciare a fornire anche spunti di riflessione, gradevole quindi ma non banale – di uno spaccato familiare forse meno singolare di quel che possa sembrare ad un primo sguardo distratto e di un’età dei giovani nella quale la demarcazione fra senso di responsabilità ed incoscienza si misura alla stregua della pressione di un dito sul filo della lama di un rasoio, cioè basta spingere appena un po’ per farsi male.

Nonostante ciò, chi si trovasse a leggere la trama del film descritta qui sopra, prim’ancora di questo mio commento, potrebbe facilmente dedurre che si tratta di una commedia molto seria ed impegnata, come si diceva forse un tempo, incentrata su argomenti spinosi ed attuali che vedono coinvolti due giovani. In effetti in parte è proprio così, ma sin dalle prime sequenze ‘Piuma‘ s’arrischia però a mostrare toni tutt’altro che grevi e pessimisti. Sopratutto evita d’inoltrarsi in analisi sociologiche che molto probabilmente non sarebbe poi stata capace di reggere sino in fondo. Eppure i due giovani maturandi, Cate (probabile diminutivo di Caterina) e Ferro (diminutivo di Ferruccio), sembrano più legati ed affiatati fra loro che i rispettivi genitori, come se fossero assieme da molti anni e si conoscessero quindi molto più a fondo di quello che la loro età, a dire il vero, lascerebbe presumere.

Di certo si trovano in una situazione difficile, da quando Cate ha scoperto di essere rimasta incinta e fra i due è lei ad essere più preoccupata, guardando alle oggettive difficoltà che si prospettano davanti a loro, così giovani, senza lavoro, senza una loro casa, senza soldi, mentre Ferro, avventato ma positivo al limite della superficialità, non sembra di essere spaventato per l’inaspettato ed impegnativo evento, al contrario dei suoi genitori, in particolare il padre. Cate vive con il genitore naturale e la sua compagna in una situazione economica a dir poco precaria. Malgrado ciò, la sceneggiatura scritta a otto mani da Roan Johnson, Ottavia Madeddu, Carlotta Massimi e Davide Lantieri, ha trovato il modo più ironico possibile per descrivere in poche ma ficcanti parole la figura di Alfredo, cioè il padre di Cate, il quale vive d’espedienti, con poca dignità e poco impegno. La figlia, con una battuta fulminante, forse la più azzeccata del film, lo rimprovera di fronte all’ultima di una lunga serie di prove di scarsa serietà e senso di responsabilità, quasi che le parti fra loro, nonostante tutto, fossero invertite: ‘…sei l’unico italiano che è riuscito a farsi lasciare da una rumena!…‘.

Ecco, lo stile di ‘Piuma‘ si può riassumere in questa boutade, che detta così sembra quasi un’irrispettosa cattiveria, della quale ci sarebbe ben poco da ridere, se fosse estrapolata dal contesto nel quale viene proferita, ma che invece s’incastra perfettamente nel clima sospeso fra il serio ed il faceto che caratterizzano la trama e le situazioni del film di Roan Johnson. La figura del padre di Ferro non è meno paradigmatica al riguardo. Pur essendo, la famiglia Pardini, ben più salda ed anche economicamente più stabile di quella di Cate (il cui cognome non mi pare venga mai citato), Franco è spesso esilarante nei suoi atteggiamenti ed esternazioni sconfortate con la tipica calata toscana, regione dalla quale proviene, anche se da trentanni s’è trasferito a Roma. Le sue reazioni disperanti, nelle quali qualcuno potrà forse riconoscersi e rendersi conto, a metà fra un sorriso ed un po’ d’imbarazzo, quanto appaiono risibili, espresse in quel modo così colorito e rassegnato. Soprattutto se poi ogni evento negativo viene preso come se fosse l’effetto della malasorte, di un dispetto alla sua persona (Franco dice persino al figlio Ferro ad un certo punto che se lo vuole morto, basta dirlo e lui provvede da sé) o una punizione del cielo e non il risultato di un atteggiamento egoistico e di un mancato dialogo, per quanto tardivo, difficile e complesso, fra padre e figlio. Così che gli viene facile, a Franco, rovesciare tutte le colpe all’atteggiamento troppo indulgente nei confronti del figlio, a suo dire, della moglie Carla, la quale dimostra a più riprese di avere le idee più chiare e propositive del marito… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

I Miei Classici della Storia del Cinema: ‘Il Cielo Può Attendere – 1943′ (Ernst Lubitsch)

IL CIELO PUO’ ATTENDERE

Titolo Originale: Heaven Can Wait

Nazione: USA

Anno: 1943

Genere: Commedia

Durata: 112’ Regia: Ernst Lubitsch

Cast: Gene Tierney (Martha Strabel Van Cleve), Don Ameche (Enrico Van Cleve), Charles Coburn (Hugo Van Cleve), Marjorie Main (Signora Strable), Laird Cregar (Sua Eccellenza), Spring Byington (Bertha Van Cleve), Allyn Joslyn (Alberto Van Cleve), Eugene Pallette (E.F. Strabel), Signe Hasso (Mademoiselle), Louis Calhern (Randolfo Van Cleve), Helene Reynolds (Peggy Nash), Aubrey Mather (James), Tod Andrews – con il nome Michael Ames (Jack Van Cleve), Clarence Muse (Gianni), Florence Bates (Edna Craig), Scotty Beckett (Henry Van Cleve a 9 anni), Dickie Moore (Henry Van Cleve a 15 anni), Nino Pipitone Jr. (Jack Van Cleve da Bambino), Tod Andrews (Jack Van Cleve da adulto), Clara Blandick (Nonna Van Cleve), Leonard Carey (Flogdell), Claire Du Brey (Miss Ralston), Maureen Roden-Ryan (Bediliah)

Questo film appartiene ad una mia personale categoria dei ‘Classici del Cinema’ nella quale, senza rispettare una vera e propria cronologia, proporrò alcuni dei titoli che ritengo più significativi o che mi hanno particolarmente colpito nel corso degli anni.

Sua Eccellenza: ‘…Quand’è successo, signor Van Cleve?…‘.
Enrico Van Cleve: ‘…Lunedì. Sono morto esattamente alle nove e trentasei di sera…‘.
Sua Eccellenza: ‘…Spero che non abbia sofferto molto…‘.
Enrico Van Cleve: ‘…Oh no, no, niente affatto. Avevo finito la cena…‘.
Sua Eccellenza: ‘…Gustosa, spero…‘.
Enrico Van Cleve: ‘…Oh, eccellente, eccellente, tutto quello che il dottore mi aveva proibito, e poi… ebbene, in poche parole mi sono addormentato senza che me ne accorgessi. Quando mi svegliai c’erano tutti i miei parenti che parlavano a bassa voce, facendo solo apprezzamenti favorevoli sul mio conto. E allora capii d’essere morto…‘.
Sua Eccellenza: ‘…Spero che le esequie siano state di suo gradimento…‘.
Enrico Van Cleve: ‘…Sì, hanno tutti pianto di gusto, quindi credo che si siano tutti divertiti….‘.

Gli appassionati di cinema, magari non proprio dell’ultima generazione, dovrebbero conoscere il significato del cosiddetto ‘Lubitsch’s touch‘, che è un mix di elegante irriverenza, raffinatezza, ironia, trasgressione ed allusione, anche di natura sessuale (seppure siamo nel 1943), ma garbata e mai volgare. In due parole lo stile inconfondibile di questo grande regista, deceduto prematuramente quattro anni dopo aver girato questo film, a soli 57 anni. Mi piace pensare che sia stato accolto con la stessa cortesia e benevolenza, caso mai gli fosse toccato a sua volta l’obbligo di presentarsi, cappello in mano e con la stessa pacata rassegnazione, di fronte a ‘Sua Eccellenza’.

Il Cielo Può Attendere‘ (a proposito, il film è interamente visibile su Youtube, cliccando sull’immagine riportata qui sotto) appartiene all’ultima fase della carriera americana di Ernst Lubitsch, nato e vissuto in Germania sino ai trent’anni, apprezzato regista già agli inizi degli anni ’20, sul quale hanno finito per posare gli occhi le Major’s di Hollywood, al pari di altri registi tedeschi di talento come, per esempio (la lista completa sarebbe piuttosto lunga), Fritz Lang, Billy Wilder, Friedrich Wilhelm Murnau, Otto Preminger e Fred Zinnemann. Pur essendo di razza ebraica e quindi destinato in patria di lì a breve ad un futuro problematico, per usare un eufemismo, per sua fortuna Lubitsch già nel 1922 era emigrato negli Stati Uniti su invito della celebre attrice Mary Pickford e non è più tornato indietro. A Hollywood ha continuato a sfornare film che hanno reso luminosa la sua carriera, consentendogli di dirigere dive del cinema del calibro della connazionale Marlene Dietrich, a sua volta attratta dalle sirene hollywoodiane, Carole Lombard, Gene Tierney, protagonista del film in oggetto e Greta Garbo, a proposito della quale si disse che Lubitsch fu l’unico regista capace di farla sorridere in un film, cioè ‘Ninotchka‘.

Se non si può dire con certezza che ‘Il Cielo Può Attendere‘ sia il film più significativo della filmografia di Lubitsch, sicuramente ne conferma la classe cristallina. ‘Vogliamo Vivere!‘, ‘Scrivimi Fermo Posta‘, ‘Mancia Competente‘ ed il già citato ‘Ninotchka‘ sono alcune delle altre opere più apprezzate e note della sua corposa filmografia dopo il trasferimento oltreoceano. Come costante del suo stile, anche in questo caso, i dialoghi e non soltanto le situazioni nel corso della trama, hanno un ruolo fondamentale nel giustificare la fama del ‘tocco’ di questo grande regista.

Il Cielo Può Attendere‘ è anche il primo film a colori di Lubitsch ed è tratto da una commedia teatrale di Leslie Bush-Fekete intitolata ‘Birthday’. Il titolo nostrano diverge da quello originale che cita esplicitamente il paradiso, ‘Heaven Can Wait‘, perché di questo film in realtà esistono due distinti finali, che cambiano radicalmente il senso della storia: uno piaceva al regista, l’altro alla produzione. Indovinate chi l’ha spuntata? Questa versione presenta appunto il finale voluto da quest’ultima, quello ‘politically correct‘, per intenderci.  

A parte ciò, Ernst Lubitsch era un abilissimo narratore ed intrattenitore, capace di catturare lo spettatore passando con disinvoltura da momenti di elegante, svenevole ed ironico romanticismo, ad altri d’irresistibile e sottile sarcasmo. Ai primi appartiene ad esempio la scena in cui Enrico Van Cleve nota per strada una bellissima donna, la segue sin dentro una libreria e con un mix di audacia e galanteria, dopo aver simulato di essere impiegato in quel negozio ed aver cercato, andando contro l’interesse della stessa proprietà, di dissuaderla dall’acquistare un libro su come far felice il proprio marito – perché secondo lui proprio non aveva bisogno di aiuti in merito – si libera di quel falso ruolo e le rivela: ‘…Io non sono un commesso, non sono impiegato qui. Mi è bastato vedervi e vi ho seguito. Se foste andata al ristorante sarei diventato cameriere, se foste entrata in un edificio in fiamme sarei diventato pompiere, se aveste preso l’ascensore l’avrei fermato tra un piano e l’altro per tutta la vita…‘.

Ai secondi invece si può senz’altro attribuire la sequenza nella quale avviene l’incontro fra il nonno Hugo Van Cleve ed il borioso magnate E.F. Strabel nell’abitazione di famiglia, in occasione della festa del ventiseiesimo compleanno di Enrico durante la quale Alberto ha l’intenzione di presentare ai parenti la fidanzata Martha ed i suoi genitori. Hugo se n’esce con questa battuta dall’evidente doppio senso, che i coniugi Strabel non colgono per fortuna nel significato più irriverente e caustico, al contrario di Alberto che cerca immediatamente di porre fine ad ogni ulteriore proseguimento del dialogo, indirizzando la loro attenzione altrove: ‘…spero che oggi comincerà un’amicizia duratura e che voi possiate restare nei nostri cuori come ci rimanete sullo stomaco…‘… …(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’) Continua a leggere…

I Miei Classici della Storia del Cinema: ‘Zabriskie Point – 1970′ (Michelangelo Antonioni)

ZABRISKIE POINT

Titolo Originale: idem

Nazione: USA

Anno: 1970

Genere: Drammatico, Allegorico

Durata: 110’ Regia: Michelangelo Antonioni

Cast: Mark Frechette (Mark), Daria Halprin (Daria), Paul Fix (Proprietario del Bar), G.D. Spradlin (Socio dell’Avvocato Lee), Bill Garaway (Morty), Kathleen Cleaver (Kathleen), Rod Taylor (Avvocato Lee Allen), Harrison Ford (Un Lavoratore Aeroportuale), Lee Duncan (Poliziotto dell’Autostrada), Jim Goldrup (Studente del College), Michael L. Davis (Poliziotto con il Megafono)

Questo film appartiene ad una mia personale categoria dei ‘Classici del Cinema’ nella quale, senza rispettare una vera e propria cronologia, proporrò alcuni dei titoli che ritengo più significativi o che mi hanno particolarmente colpito nel corso degli anni.

…Ci sono migliaia di aspetti di ogni cosa: non solo buoni e cattivi…‘ (Mark Frechette)

Zabriskie Point’ è un film del 1970 realizzato sull’onda della contestazione studentesca nata negli anni immediatamente precedenti, dapprima sulla spinta delle battaglie dei neri contro la segregazione razziale ed in seguito estesa anche ai bianchi, in particolare i giovani che si opponevano alla guerra in Vietnam. Facendo riferimento a figure carismatiche di rivoluzionari come Che Guevara e Fidel Castro, i contestatori ritenevano di poter sovvertire l’ordinamento capitalistico degli stati occidentali fondati, a loro dire, sul cinismo della speculazione finanziaria, sulla falsità e complicità dei media, sulla corruzione dei governi, sull’egoismo individualista e l’esasperato consumismo.

Michelangelo Antonioni con questa sua opera, che fa parte di una trilogia girata in lingua inglese negli Stati Uniti, che comprende anche ‘Blow Up’ e ‘Professione: Reporter’, ha tentato di rappresentare, seppure con altalenanti risultati, quel particolare momento storico di protesta contro i capisaldi dominanti della civiltà occidentale ed americana in particolare, utilizzando una narrazione basata comunque sui ritmi tipici del cinema americano ed i suoi estesi spazi territoriali, mettendo al tempo stesso in evidenza gli stridenti contrasti di natura sociale, mediati dal punto di vista narrativo da uno spiccato lirismo allegorico ed al tempo stesso da uno stile vicino al cinema europeo, solitamente più cerebrale ed introspettivo.

Zabriskie Point’ si può suddividere in quattro distinte parti. Nella prima, che possiamo considerare una sorta di reportage storico, descrive attraverso le figure paradigmatiche di alcuni studenti universitari di Los Angeles, la nascita della contestazione passata alla storia per l’anno di riferimento, cioè il 1968, che si è poi estesa praticamente a livello globale, in disparate forme espressive, ma spesso ideologicamente confuse e contraddittorie, represse peraltro con determinazione e, nei casi peggiori, anche con violenza dal ‘potere’, con il ricorso sistematico alle forze di polizia. La reazione altrettanto violenta, in alcuni casi, da parte degli stessi studenti, perlomeno dalle frange più intransigenti al loro interno, contrastava con la cultura cosiddetta hippy di altri coetanei contestatori, fondata invece su principi, per quanto utopistici, di pace e amore.

Antonioni sottolinea tutto ciò con alcune significative sequenze. Il giovane protagonista Mark (Mark Frechette: non a caso alcuni dei principali protagonisti si chiamano con il loro vero nome, proprio per avvicinare la realtà alla sua raffigurazione), ad esempio, sente la necessità, come altri suoi compagni studenti, di perseguire valori alternativi rispetto a quelli che la società ed i suoi genitori gli hanno insegnato a rispettare, ma i discorsi che sente fare nelle assemblee studentesche, inconcludenti oppure dottrinali, non lo convincono e così giunge alla conclusione che sia solo tempo sprecato (‘…voglio morire, ma non di noia…’ dice, andandosene).

Un poliziotto (rappresentante in senso più generale delle istituzioni che si oppongono al disordine ed alla ribellione) prende i dati di alcuni studenti in stato di ferma ma non si accorge che Mark, che è andato a sostenere alcuni amici suoi, si sta prendendo gioco di lui e delle sue carenze culturali, dichiarando di chiamarsi niente meno che Carl Marx. In seguito Mark stesso ed un suo amico si procurano facilmente due pistole in un negozio, convincendo il negoziante a vendergliele, aggirando i vincoli di legge dello stato perché, nel mostrarsi solidali con i principi di autodifesa dei quali si sente paladino il negoziante, lo spingono a chiudere entrambi gli occhi sul diritto di acquistare armi alla loro età.

Cambiando bersaglio, ma sempre con l’intento di mostrare le contraddizioni della società americana, il regista ferrarese mostra l’uso insistito, sistematico e perciò condizionante della pubblicità (simbolo a sua volta del consumismo e delle tecniche di persuasione), che si manifesta in innumerevoli modalità, per spingere le masse a consumare in maniera ossessiva, condizionate continuamente da devianti stimoli bulimici di possesso e realizzazione. Non dimentichiamo che quelle che oggi sono considerate abituali operazioni di marketing, nel bene e nel male, per promuovere i prodotti dell’industria e per incrementare la crescita economica delle aziende per mezzo della cartellonistica stradale, la TV, gli apparati tecnologici digitali e qualsiasi altro mezzo di fruizione mediatica, in quegli anni si stava appena sviluppando, seppure sono trascorsi da allora ‘soltanto’ cinquantanni circa. (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

Film: ‘The Place’

THE PLACE

Titolo Originale: idem

Nazione: Italia

Anno: 2017

Genere: Drammatico, Allegorico

Durata: 105’ Regia: Paolo Genovese

Cast: Valerio Mastandrea (Uomo), Marco Giallini (Ettore), Alba Rohrwacher (Suor Chiara), Vittoria Puccini (Azzurra), Rocco Papaleo (Odoacre), Silvio Muccino (Alex), Silvia D’Amico (Martina), Vinicio Marchioni (Gigi), Alessandro Borghi (Fulvio), Sabrina Ferilli (Angela), Giulia Lazzarini (Marcella)

TRAMA: un uomo siede da mattina a sera allo stesso posto del bar ‘The Place’: fa colazione, beve caffè, pranza, cena, ogni tanto sfoglia il giornale o scrive su un’agenda e pensa, con aria stanca, come se avesse un peso da sopportare o un oneroso obiettivo da portare a termine. Di fronte a lui si siedono di continuo ed in alternanza fra loro otto persone, che entrano ed escono dal bar ad intervalli di tempo irregolari nel corso di alcune giornate. Si sono rivolte a lui per risolvere i loro problemi e l’uomo (senza nome e storia pregressa), dopo aver consultato la sua agenda, ha assegnato loro dei compiti, con l’assicurazione che, se li porteranno a termine, contemporaneamente i loro problemi si risolveranno. L’agenda dell’uomo è densa di pagine ed appunti scritti che aggiorna ogni qual volta parla con uno dei suoi interlocutori, ai quali spesso rivolge domande sulle sensazioni che provano, anche se sembrano meno importanti delle azioni che ha impartito loro di portare a termine. Le otto persone non si conoscono vicendevolmente e le mansioni che devono compiere comportano, come conseguenza inevitabile e non trattabile, un danno più o meno grave ad altre persone. Nessuno comunque è obbligato a portare a termine il compito assegnato e tutti possono rinunciare, in qualunque momento, ma in tal caso i problemi resterebbero per lei o per lui irrisolti. Gli otto non lo sanno, ma le loro storie sono destinate ad intrecciarsi fra loro, anche se sono dei perfetti sconosciuti, perché il gioco delle parti li porta ad agire gli uni contro gli altri, in maniera spesso crudele. Nonostante i dubbi e gli scrupoli, le accuse di malvagità rivolte all’uomo ed i tentativi di farsi cambiare il compito dato che però non vengono accettati, alcuni di loro al momento opportuno non hanno il coraggio di compiere il passo richiesto sino in fondo ma neppure di rinunciare a perseguirlo. Ed anche quando sembra che qualcuno degli accordi sia giunto infine alla conclusione, succede qualcosa che lo riporta in discussione ed a riaprirlo. L’uomo non è felice del suo ruolo e sembra portare sulle sue spalle, oppure a rappresentarlo lui medesimo, tutto il peso dell’egoismo umano, seppure con distacco, freddamente e senza pietà. Che sia Dio o Satana, la proprietaria del bar, Angela, l’osserva ogni giorno incuriosita, a volte si avvicina al suo tavolo e cerca d’iniziare una conversazione, seppure l’uomo non è mai disposto a collaborare e permetterle di scardinare la sua impenetrabilità. Quando però infine i ruoli s’invertono, anche la sicurezza, il cinismo e l’indifferenza nei riguardi delle angosce altrui cambiano prospettiva. Allora il carnefice diventa la vittima e se si lascia andare ad esprimere, una volta tanto, il desiderio di smettere gli scomodi panni che qualcuno gli ha fatto indossare, si sente rispondere quel ‘…si può fare’, che lui ha sempre usato in risposta alle richieste di chi gli si è seduto di fronte.

VALUTAZIONE: tratto da una nota Serie TV americana, il film di Paolo Genovese è molto intrigante, nonostante sia l’antitesi del cinema, dato che si svolge tutto dentro un bar, davanti ad un tavolo dove, seduti di fronte ad un uomo senza nome e senza storia, s’alternano otto personaggi che accettano la proposta di compiere azioni crudeli nei confronti di ‘perfetti sconosciuti’, pur di risolvere egoisticamente i loro grandi problemi familiari e/o esistenziali. Senza azione, ma tutto incentrato sui dialoghi fra Valerio Mastrandrea ed i suoi otto (più uno) interlocutori, il film del regista romano ripropone il tema del ‘patto con il diavolo’ e del confronto dell’uomo con la propria coscienza, lasciando però lo spettatore alla fine con gli stessi dubbi irrisolti. Forse è proprio questo il limite di un’opera che promette di essere ambiziosa, non solo a chiacchiere, ma che al lato pratico non sembra molto più che un mero esercizio stilistico che lascia il tempo che trova. La bravura degli interpreti è la nota decisamente più positiva del film.

Otto personaggi con problemi più o meno gravi da risolvere, interpretati da alcuni fra i più bravi attori, giovani ed un po’ meno, del panorama cinematografico italiano. Certamente un dilemma ce l’ha, più nella forma che nella sostanza, Martina (Silvia D’Amico), angosciata dal desiderio di voler diventare più bella. Al contrario, ce l’ha più nella sostanza che nella forma invece, Marcella (Giulia Lazzarini), che farebbe carte false pur di veder guarito il marito dall’Alzheimer che lo sta consumando. E’ un problema tutto interiore quello che invece vuole risolvere Suor Chiara (Alba Rohrwacher) la quale, sin da bambina, sente la presenza di Dio vicina a lei, ma ora, nonostante abbia scelto di prendere i voti, non lo avverte più. Dal canto suo Fulvio (Alessandro Borghi) sente tutti i rumori intorno ma è cieco e farebbe di tutto pur di poter acquistare la vista. Poi c’è Ettore (Marco Giallini), un fallimento come marito, padre e poliziotto, come ammette lui stesso, ma nell’immediato ha bisogno di recuperare la refurtiva di una rapina che si è fatto sfuggire sotto il naso. Un problema risibile, in fondo, ce l’ha anche Odoacre (Rocco Papaleo), il quale è innamorato della star raffigurata nel poster che da anni è appeso sul muro della sua officina di meccanico e sarebbe disposto a qualunque sacrificio, pur di poter trascorrere anche una sola notte di sesso con lei. A sua volta Azzurra (Vittoria Puccini) vuole riconquistare il marito, poiché i loro rapporti nel corso degli anni si sono progressivamente raffreddati ed infine Gigi (Vinicio Marchioni) è disposto a qualunque compromesso, in cambio della guarigione del giovanissimo figlio ammalato di cancro.

A questo punto la sceneggiatura di Isabella Aguilar e Paolo Genovese pone un quesito, non tanto ai protagonisti di cui sopra, che in realtà la loro risposta e scelta l’hanno già fatta, quando inizia il racconto del film, ma allo spettatore: sin dove si è disposti a scendere a patti con la propria coscienza, pur di ottenere ciò che si desidera assolutamente per sé o per i propri cari?

Diciamolo subito: non si tratta certo di una novità, se già Johann Wolfgang von Goethe aveva ampiamente trattato l’argomento all’inizio del XIX secolo nel suo ‘Faust‘, con il noto personaggio di Mefistofele (il cui nome deriva dalla parola ebraica ‘distruttore‘) e peraltro la sua figura era già presente in una leggenda popolare tedesca del XVI secolo. Un essere umanizzato nella forma che si può identificare a sua volta con Satana, il quale propone a Faust un patto, la cui sostanza è che potrà godersi il resto della sua vita, vendendo però la sua anima, che il Diavolo verrà a reclamare al momento della morte.

In questo caso nei panni di Mefistofele c’è un personaggio (Valerio Mastrandrea) che non ha un nome proprio ma in compenso possiede alcuni poteri sovrannaturali, essendo in grado, ad esempio, di anticipare l’arrivo di una chiamata telefonica oppure di tranquillizzare la persona che ha di fronte quando due poliziotti stanno entrando nel bar e quest’ultima teme che siano lì per arrestarla, anziché andare semplicemente al bancone per ordinare qualcosa. L’Uomo (così, genericamente, lo chiamerò d’ora in poi) non ci è dato sapere da quanto tempo svolge quello strano lavoro, al solito tavolo del bar ‘The Place’, perciò neppure in un ufficio privato, nonostante la delicatezza dei dialoghi con i suoi interlocutori, che non sappiamo, a loro volta, come sono giunti sino a lui. Non ci è dato sapere nulla della sua storia personale ed a chi gli chiede: ‘…ma lei crede in Dio?…‘, lui risponde, neanche tanto enigmaticamente, come vedremo più avanti: ‘…diciamo che credo nei dettagli!…

Altro particolare da tenere a mente è che, forse per via del passaparola di chi è già ricorso a lui in passato, tutte le persone che si rivolgono a l’Uomo hanno grande fiducia nei suoi mezzi. A chi gli manifesta un desiderio da realizzare, lui risponde sempre con la solita frase: ‘…si può fare…‘ e dopo aver consultato la sua agenda, manco si trattasse delle tavole dei comandamenti, stabilisce il compito da assegnare in cambio. Nessuno dubita, se non in brevi momenti di rabbia che, portato a termine quell’accordo che comporta, pur con diverse conseguenze e gravità d’azione, un pesante impatto sugli scrupoli di coscienza di chi lo ha accettato, si realizzerà quanto promesso. 

Anche se ad ognuno degli otto protagonisti l’Uomo assegna un solo compito, in alcuni casi gli effetti che ne conseguono sono molteplici. Martina, ad esempio, ha ricevuto la richiesta di compiere una rapina che frutti un bottino di centomila euro e… cinque centesimi (non viene spiegato però, a che pro servono questi ultimi). Marcella deve fabbricare una bomba (acquistando i componenti necessari da assemblare in Internet) e farla esplodere in un locale pubblico affollato. Suor Chiara deve avere una relazione con un uomo, tradendo la promessa fatta prendendo i voti e per giunta rimanere incinta. A Fulvio addirittura è stato chiesto di violentare una donna, facendo leva sulla pena e fiducia che il suo status di cieco gli può assicurare. Ettore invece deve menare a sangue una persona affinché possa ritrovare i soldi della rapina. Odoacre poi deve vigilare per due settimane su una bambina in pericolo, per realizzare il suo sogno erotico. Azzurra deve inserirsi nella vita di coppia di due vicini e provocarne la rottura per riacquistare la solidità del suo rapporto con il marito. Gigi infine deve addirittura uccidere una bambina per compensare la guarigione di suo figlio malato. Tutti, in qualche modo, tentano di barare ma l’Uomo se ne accorge e non concede loro la speranza che possano ingannarlo. Quando Ettore gli chiede: ‘…perché chiedi cose così orrende?…‘, l’Uomo risponde sicuro: ‘…perché c’è chi e’ disposto a farle!…‘. (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

I Miei Classici della Storia del Cinema: ‘Dersu Uzala – Il Piccolo Uomo delle Grandi Pianure’ – 1975 (Akira Kurosawa)

DERSU UZALA – IL PICCOLO UOMO DELLE GRANDI PIANURE

Titolo Originale: Dersu Uzala

Nazione: URSS, Giappone

Anno: 1975

Genere: Drammatico, Avventura

Durata: 129’ Regia: Akira Kurosawa

Cast: Jurij Solomin (Cap. Vladimir Arseniev), Maksim Munzuk (Dersu Uzala), Svetlana Danilchenko (Moglie di Arseniev), Dmitri Korshikov (Wowa), Suimenkul Chokmorov (Jan Bao), Vladimir Kremena (Turtwigin), Aleksandr Pyatkov (Olenin)

Questo film appartiene ad una mia personale categoria dei ‘Classici del Cinema’ nella quale, senza rispettare una vera e propria cronologia, proporrò alcuni dei titoli che ritengo più significativi o che mi hanno particolarmente colpito nel corso degli anni.

Forse è un po’ esagerato inserire questo film nella mia personale lista dei ‘Classici del Cinema‘ essendo stato girato in fondo ‘soltanto’ nel 1975 ma purtroppo bisogna dire che non è di facile reperibilità, nonostante la qualità dei contenuti, anche di grande attualità, che propone e la poesia delle immagini, delle situazioni e dei dialoghi che contiene. Un’opera che appartiene all’ultima parte della carriera di un ‘totem’ della regia come il giapponese Akira Kurosawa, ma tant’é, se riusciste a trovarlo in qualche ‘cineforum’ o in una miracolosa riproposizione in TV, sicuramente trasmessa ad orari impossibili per i comuni mortali, non perdetevelo, perché di certo non ve ne pentirete.

La luna ed il sole dice che sono persone. Il fuoco per lui è un uomo cattivo che a volte grida (cioè quando la legna crepita sul fuoco, ndr.). Lo stesso fuoco, l’acqua ed il vento mettono paura se si arrabbiano, afferma convinto. No, non è la sintesi di una favola raccontata ad un bambino affinché si addormenti fantasticando, ma è il linguaggio banale, eppure inconsapevolmente allegorico e panteista al tempo stesso, con il quale si esprime il personaggio, curioso e persino buffo esteticamente parlando, di Dersu Uzala, a proposito dell’ambiente che lo circonda e nel quale si è adattato a vivere da lunghissimo tempo, fianco a fianco alle bestie, anche feroci come le tigri e gli orsi, per le quali invece la taiga costituisce l’habitat naturale. Questo omino dai connotati mongoli (interpretato da un attore non professionista, Maksim Munzuk) si rivolge, facendo queste associazioni elementari sugli elementi della natura, ai soldati-esploratori russi di un drappello al comando del capitano Arsen’ev che hanno il compito di redigere alcune carte topografiche in zone incontaminate dell’immensa Siberia.

Il regista Kurosawa aveva coltivato a lungo, quando era ancora giovane, l’idea di trarre un film dalla storia di questo stravagante personaggio, peraltro realmente esistito, che ha vissuto in solitudine nella taiga e nei boschi, rispettandone gli equilibri ed acquisendo un po’ per volta l’esperienza e gli insegnamenti indispensabili per sopravvivere in armonia con essi, animali inclusi. Autore di opere unanimemente considerate capolavori della storia del cinema internazionale, come ‘Rashomon’ e ‘I Sette Samurai’ (che ha ispirato al regista americano John Sturges l’adattamento in chiave western de ‘I Magnifici Sette’: clicca sui titoli di diverso colore se vuoi leggere i miei commenti ad entrambi i film, ndr.), il giapponese Akira Kurosawa, in realtà usciva da poco da un tentativo di suicidio, a seguito dell’insuccesso delle sue due ultime prove dietro la macchina da presa e dall’aver subito in ultimo persino l’umiliazione della sostituzione in corso d’opera. Una cosa che lo aveva sprofondato nella depressione, dalla quale è riemerso soltanto quando una produzione russa nel 1975 gli ha offerto l’occasione non solo di dare finalmente concretezza al suo sogno giovanile, ma anche di riscattarsi con un film di notevole livello artistico, oltreché di grande impatto emotivo, evocativo e commovente lirismo. Grazie al quale non solo ha recuperato l’ispirazione e la stima generale ma anche il successo ed un tangibile riconoscimento con l’assegnazione dell’Oscar per il film straniero.

Dersu Uzala – Il Piccolo Uomo delle Grandi Pianure’ è un film che nella semplicità si esalta e restituisce un alto significato etico. Un’opera incentrata sul rapporto uomo-natura e sull’importanza e sacralità di valori assoluti come amicizia virile, rispetto del prossimo, l’unione degli intenti per raggiungere un obiettivo comune, l’equilibrio e l’accortezza necessari per sopravvivere a contatto della natura selvaggia, l’esperienza come crescita e l’umiltà per imparare dai propri errori. Sembrano i propositi di un uomo di profonda cultura e saggezza ed invece appartenevano ad un ignorante che però in mezzo alla foresta era in grado d’impartire lezioni a chiunque.

Akira Kurosawa si affida al flashback per rappresentare questa storia attraverso il ricordo struggente del capitano Arseniev, quando un giorno si reca a far visita ai posti dove anni prima aveva assistito alla tumulazione del ‘piccolo uomo delle grandi pianure’ in una semplice fossa scavata di fianco a due grandi alberi ne territorio dove ha preferito tornare nell’ultima fase della sua vita. Purtroppo però quando il capitano giunge sul posto, gli alberi sono già stati abbattuti e la zona ha cambiato aspetto rispetto ad un tempo perché con la costruzione in corso della ferrovia, con annesse abitazioni ed infrastrutture civili per gli addetti ai lavori, è modificata anche la geografia del luogo, incluso il posto dove si trovavano le spoglie del vecchio amico. 

Il ricordo quindi torna a quando Dersu Uzala era ancora in vita, una sorta di gnomo di età indefinita che viveva da solo nella foresta da quando aveva perso la famiglia a causa della peste e da allora traeva alimento e sostentamento dalla natura, grazie alla caccia, che gli permetteva di vendere le pellicce dei zibellini, non certo per arricchirsi ma solo per poter acquistare le necessarie attrezzature, scorte e risorse per affrontare il rigido inverno siberiano e, soltanto nel caso che fosse aggredito, per difendersi dalla terribile ed astuta Amba (il nome con cui lui chiamava la tigre) e gli orsi, oltreché dagli innumerevoli rischi e pericoli che si possono incontrare, anche improvvisi, in una maestosa ed immensa quanto pericolosa foresta, per gran parte ancora incontaminata. (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

Film: ‘Mamma Mia! – Ci Risiamo’

MAMMA MIA! – CI RISIAMO

Titolo Originale: Mamma Mia! Here We Go Again

Nazione: Italia

Anno: 2018

Genere: Musicale, Romantico

Durata: 114’ Regia: Ol Parker

Cast: Amanda Seyfried (Sophie Sheridan), Lily James (Donna Sheridan da Giovane), Christine Baranski (Tanya Chesham-Leigh), Jessica Keenan Wynn (Tanya Chesham-Leigh da Giovane), Julie Walters (Rosie Mulligan), Alexa Davies (Rosie Mulligan da Giovane), Pierce Brosnan (Sam Carmichael), Jeremy Irvine (Sam Carmichael da Giovane), Colin Firth (Harry Bright), Hugh Skinner (Harry Bright da Giovane), Stellan Skarsgård (Bill Anderson), Josh Dylan (Bill Anderson da Giovane), Dominic Cooper (Sky), Andy García (Fernando Cienfuegos), Cher (Ruby Sheridan), Meryl Streep (Donna Sheridan)

TRAMA: Donna Sheridan, appena raggiunta brillantemente la laurea, decide di compiere un viaggio iniziatico in giro per il mondo ed il caso la porta nell’isola di Kalokairi in Grecia, dove resta come fulminata sia dal posto che dalla simpatia di alcuni folcloristici abitanti locali, per cui decide di fermarsi con l’obiettivo di trasformare una vecchia e cadente fattoria, che un’anziana proprietaria le ha proposto di darle gratuitamente in uso, per pura e semplice empatia, in un albergo. Durante il suo breve viaggio, Donna aveva avuto due brevi e goliardiche avventure, prima con Harry a Parigi e poi con Bill sul suo yacht in Grecia, mentre direttamente sull’isola ha conosciuto Sam, un giovane architetto con il quale ha trovato immediato feeling e vissuto un’intensa settimana, innamorandosene infine ma rimanendo delusa quando ha scoperto che era già fidanzato e stava per sposarsi. Passato un po’ di tempo, Donna ha scoperto di essere incinta ma non si è persa d’animo e l’anziana greca, che si è affezionata a lei, l’ha aiutata a partorire. E’ nata così Sophie che ora ha venticinque anni ed ha deciso di onorare la figura della madre, scomparsa da un anno, inaugurando con una grande festa quello che è stato trasformato nel frattempo in un elegante hotel, il Bella Donna. I tre amanti della madre, che si considerano, in mancanza di prove certe, padri in parti uguali di Sophie, sono rimasti segnati a loro volta da quella storia e da quella donna coraggiosa, generosa e spontanea. Dei tre però solo Sam, che infine l’aveva sposata Donna, è già sul posto per l’inaugurazione, ma complice una tempesta che danneggia la struttura, mettendo in dubbio che si possa regolarmente effettuare la festa alla data prevista, anche Harry e Bill, interrompendo i rispettivi impegni dirigenziali a Totyo e celebrativi a Stoccolma, si precipitano per arrivare in tempo sull’isola, assieme alle due vecchie amiche di Donna, cioé Tanya e Rosie, che cantavano assieme a lei nel gruppo Donna and the Dynamos ed alle quali s’aggiunge infine anche Ruby, la madre di Donna, con la quale non era mai andata d’accordo e nonna di Sophie, seppure non invitata, ma ancora piuttosto arzilla, la quale al tempo aveva avuto una storia con Fernando Cienfuegos, un nativo dell’isola diventato ora direttore dell’hotel. Sophie deve sposarsi con Sky, il quale però è andato a New York per sei settimane per apprendere le tecniche del business alberghiero, ma ha ricevuto un’allettante offerta di lavoro. Seppure ne sia attratto, infine ha posto l’amore davanti alla carriera. La festa può quindi avere luogo ma nel corso della stessa Sophie scopre di essere incinta, esattamente come sua madre. Nove mesi dopo, durante il battesimo, nella stessa chiesetta dove Donna aveva battezzato lei, Sophie ha una visione della madre che si mostra felice di darle la sua benedizione, prima di un ultimo commiato, sia a lei che al nipotino. 

VALUTAZIONE: due storie di epoche diverse, sviluppate in parallelo dal regista e sceneggiatore Ol Parker che si rifà al quasi omonimo film del 2008, della cui vicenda riprende sia il ‘prequel’ che il ‘sequel’, sempre sulle note e sui testi, sottotitolati, di alcune fra le più famose canzoni del gruppo pop svedese degli ABBA, che ebbe grande successo negli anni settanta. La parte più fresca e forse riuscita del film è quella del ‘prequel’ con protagonista Lily James, messa in scena con contagiosa gioiosità in location di grande fascino naturalistico, mentre nel ‘sequel’ prevalgono la spettacolarità delle scene corali e una buona dose di romanticismo, anche commovente a tratti ma senza mai scadere nei toni patetici, semmai impreziosito da alcune indovinate intuizioni registiche. Se il cinema non deve necessariamente sfornare capolavori e proporre seriose tematiche, a volte ci si può anche accontentare di trascorrere una serata piacevole con una storia semplice, ben strutturata, ben interpretata e ben accompagnata dalle musiche, anche senza essere per forza degli appassionati del musical, che lascia il buon sapore del buonumore e magari strappa anche una lacrimuccia.

Quando si dice che il cinema è la fabbrica dei sogni non si fa di certo una scoperta, ma si comprende anche in questa occasione, e analogamente a ciò che a volte ci capita illusoriamente di vivere per davvero dormendo e sognando appunto, come tutto sia possibile anche grazie a questo meraviglioso mezzo di espressione inventato più di cento anni fa dai fratelli Lumiere ed alla creatività ed al mestiere di chi ancora oggi lo utilizza. Se poi il prodotto finale non è un capolavoro, come in questo caso e nemmeno il più convinto fra i suoi autori probabilmente ha mai neppure presuntuosamente pensato e voluto che fosse, nonostante ci siano comunque momenti di grande cinema ed emozione, non è poi così importante.

Chi ha l’opportunità di assistere a ‘Mamma Mia! – Ci Risiamo‘, che inizia in sordina, per chi non è strettamente appassionato del genere musical (ma dopo i primi dieci minuti assume toni decisamente più convincenti), giunti alla fine ritengo possa serenamente concludere di aver ricevuto sensazioni positive, una buona dose di buonumore ed anche qualche emozione, forse neppure preventivate, senza che ciò suoni scandaloso. Ed una volta tanto grazie ad una storiella piacevole, romantica e divertente, girata in posti incantevoli e interpretata da un ‘parterre de roi‘ di attori appartenenti a varie generazioni ma egregiamente amalgamati fra loro. Il tutto condito, o per meglio dire, imbastito attorno alla colonna sonora portante, con chiaro riferimento anche nel titolo, di un gruppo pop storico come gli ABBA (le singole lettere sono maiuscole perché rappresentano le iniziali dei nomi dei componenti), che negli anni settanta ha avuto un successo planetario grazie ad una serie di brani popolari ed orecchiabili, quelli che poi, come un tormentone, restano in mente a lungo, insomma. Una corposa selezione dei quali è riproposta nel corso di questo stesso film, i cui testi, sottotitolati per il pubblico italiano, riflettono in maniera sorprendente gli stati d’animo e gli avvenimenti che accadono nel corso della vicenda brillantemente messa in scena. 

Per comprendere appieno la storia che racconta quest’ultimo film di Ol Parker, bisogna però tornare all’opera di riferimento, uscita dieci anni prima, con analogo format e musiche dello stesso gruppo svedese, che vedeva protagonista un quasi identico cast, ma con l’aggiunta in questo caso anche degli interpreti impiegati nel ‘prequel‘, ovvero Lily James nel ruolo della giovane Donna Sheridan ed i tre padri di sua figlia Sophie, cioé Sam (Jeremy Irvine), Harry (Hugh Skinner) e Bill (Josh Dylan), quando erano ancora soltanto dei rampanti ed impenitenti seduttori. Oltre alle due simpatiche ed allupate amiche Tanya (Jessica Keenan Wynn) e Rosie (Alexa Davies).

A tal proposito si potrebbe forse obiettare che, almeno all’epoca d’ambientazione del ‘sequel‘, con un banale esame del sangue o del DNA si sarebbe potuto finalmente scoprire chi fra i tre presunti candidati è il vero padre, ma insomma, un po’ come quei prossimi genitori che non vogliono conoscere il sesso del nascituro sino al momento del parto, vuoi mettere come sia più originale ed anche comodo per Sophie e forse anche per i suoi stessi presunti padri al trentatré per cento cadauno, continuare a mantenere questo mistero inalterato nel tempo? Specie se poi fra di loro sono diventati degli amiconi che si ritrovano sempre con piacere e non vedono alcuna necessità pertanto di chiarire il merito. Ma insomma se ci mettessimo a sottilizzare su ogni singolo particolare, come se si trattasse di un atto giudiziario e non di uno spettacolo di puro intrattenimento, potremmo liquidare la cosa in quattro e quattr’otto, ma per fortuna non è questo il caso e neppure la finalità.

Insistendo ancora per un attimo su questo esercizio di puntualizzazione, si potrebbe aggiungere che è perlomeno curioso che una brillante studentessa appena laureata, che ha la fortuna oltreché i mezzi economici per iniziare un viaggio in giro per il mondo senza avere un vero obiettivo, se non forse trovare una qualche ispirazione che possa indirizzarne la vita futura, sia al tempo stesso così ingenua ma anche già così smaliziata e sessualmente disinvolta da cadere fra le braccia e nel letto dei primi tre giovani seduttori che incontra per strada, per così dire, seppure lei continua a sostenere, nonostante le apparenze e le circostanze, che non è quel genere di ragazza lì.

Ma anche se così fosse, la neo laureata, alla quale uno dei tre sussurra ‘…hai uno di quei sorrisi che fa sorridere anche il resto dell’anno…‘ ed ha le fattezze di Lily James, pare non avere alcun dubbio, nel primo caso, a credere che Harry sia, in buonafede, un giovane dolce ed ansioso di celebrare proprio con lei l’addio alla verginità (come dargli torto, d’altronde); nel secondo caso, con Bill, un fascinoso skipper in procinto di partecipare ad una regata, si può sportivamente condividere il letto sul suo yacht, dopo aver persino provato per un po’ a resistergli; con il terzo infine, non cercato ma trovato nell’isola durante un temporale, cioè Sam, è nata una fulminante intesa ed ha vissuto un’intensa settimana prima di risvegliarsi bruscamente innamorata e tradita. Che errori di valutazione si possono imputare in fondo a Donna, signor giudice, potrebbe affermare la difesa in un ipotetico processo morale, se vive con gaiezza e spontaneità la sua età, lasciandosi guidare dai suoi sentimenti, incluse le conseguenze e responsabilità però che poi ne conseguono? ‘…Non so cosa mi riserva il futuro, ma il mondo è grande e io voglio farmi dei ricordi…‘ è stato il motto pronunciato davanti alle amiche Tanya e Rosie, compagne anche nel gruppo musicale Donna and the Dynamos, poco prima della partenza. …(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

Film: ‘I Magnifici Sette’

I MAGNIFICI SETTE

Titolo Originale: The Magnificent Seven

Nazione: USA

Anno: 1960

Genere: Western

Durata: 128’ Regia: John Sturges

Cast: Yul Brynner (Chris Adams), Steve McQueen (Vin), Charles Bronson (Bernardo O’Reilly), James Coburn (Britt), Brad Dexter (Harry Luck), Robert Vaughn (Lee), Horst Buchholz (Chico), Eli Wallach (Calvera), Rosenda Monteros (Petra), Vladimir Sokoloff (Anziano Messicano), Jorge Martinez de Oyos (Hilario), Robert J. Wilke (Wallace, Uomo alla Stazione), Pepe Hern (Tomas), John A. Alonzo (Miguel), Rico Alaniz (Sotero), Val Avery (Henry, Venditore di Busti), Whit Bissell (Chamlee, Titolare delle Pompe Funebri)

TRAMA: i contadini del villaggio Ixcatlan, posto al confine fra Messico e Stati Uniti, subiscono periodiche razzie da parte di Calvera, un fuorilegge a capo di una quarantina di banditi. Stanchi di lavorare duramente nei campi e poi essere puntualmente depredati ed umiliati, su suggerimento del più vecchio e saggio fra loro, due contadini si recano in città per assoldare, seppure in cambio solo di una limitata cifra in denaro, qualche abile pistolero disposto ad aiutarli. Il primo che risponde al loro appello, a seguito del racconto commovente dei contadini, è Chris Adams, un uomo coraggioso e risoluto che non sopporta le prepotenze e le ingiustizie, il quale si adopera in prima persona anche per convincere ad unirsi a lui altri cinque pistoleri, solo un paio dei quali sono a lui già noti, ma tutti comunque di grande abilità e carisma. Ciò che li spinge ad accettare la pericolosa missione non è certo il misero compenso, quanto piuttosto il fatto che da tempo sentono la necessità di tornare a sentirsi utili e protagonisti. Ad essi si aggiunge anche il giovane Chico, un tipo piuttosto borioso, che si è subito proposto ma non ha superato il semplice test cui l’ha sottoposto Chris. Orgoglioso e perciò desideroso di rifarsi, ha seguito i sei pistoleri lungo la strada verso Ixcatlan, sino a convincerli che le sue capacità sono superiori all’inesperienza. Non tutti i contadini però sono d’accordo che la soluzione migliore sia portare a casa loro alcuni pistoleri e temendo che a farne le spese per prime possano essere le loro donne, le nascondono, così che al loro arrivo i pistoleri trovano uno scenario deserto e soltanto dopo escono allo scoperto esclusivamente gli uomini ed i bambini. Per affrontare Calvera ed i suoi uomini però, Chris, al quale tutti riconoscono il ruolo di capo e di stratega, dopo un sopralluogo decide di far eseguire intorno al villaggio alcune fortificazioni utili a migliorarne le difese e che i contadini siano addestrati all’uso delle armi, che si tratti di bastoni o fucili, sotto la guida dei pistoleri. Chico nel frattempo scorge casualmente nei dintorni del villaggio Petra, la giovane e bella figlia di un contadino, la quale fugge alla sua vista ma dopo un breve inseguimento e colluttazione, il giovane ha la meglio e la conduce al villaggio. Petra, nonostante Chico l’abbia trattata con sufficienza, ne è rimasta colpita. Calvera infine torna minacciosamente al villaggio ma stavolta trova ad accoglierlo i sette pistoleri che lo costringono a ritirarsi. E’ però solo un primo atto, infatti nei giorni a seguire i banditi tornano alla carica ed avvengono molti scontri, in alcuni casi favorevoli ai contadini, in altri a Calvera ed i suoi. Quando però sembra che quest’ultimo possa avere la meglio ed i sette pistoleri sono stati disarmati e costretti ad andarsene, per aver salva la pelle, decidono poco dopo aver lasciato il villaggio di tornare indietro e di combattere per portare a termine il lavoro per il quale sono stati ingaggiati. Nella battaglia che ne segue di loro però se ne salvano solo tre di loro: Chris, Vin e Chico, ma Calvera ed i suoi uomini non hanno migliore sorte essendo infine sconfitti ed uccisi. I contadini però, come dice Chris rivolgendosi a Vin poco prima di andarsene, sono gli unici vincitori, a parte Chico, oramai innamorato di Petra, che ha deciso di stabilirsi a Ixcatlan, perché nel destino dei pistoleri c’è quello di vagabondare, privi di affetti e di solide radici.  

VALUTAZIONE: uno dei film western classici fra i più noti, diretto da John Sturges con grande mestiere, senza mai cedere alla tentazione dell’agiografia dei personaggi coinvolti. I magnifici sette infatti possiedono caratteri e capacità molto diverse fra loro, che risaltano senza mai apparire però forzate. In un crescendo di tensione, non privo di momenti d’ironia e rituali tipici del genere di appartenenza, sono esaltati valori come il rispetto dell’amicizia, degli impegni civili ed il senso di giustizia sino al sacrificio personale. Sturges è riuscito contemporaneamente nell’impresa di rendere omaggio al regista Akira Kurosawa ed alla sua più celebre opera, al quale questo film è ispirato ed a realizzare un’ardita quanto efficace trasposizione dal feudalesimo giapponese al western della ‘grande frontiera’ americana.

Nel 1954 il regista giapponese Akira Kurosawa girava un’opera che è diventata un ‘cult’, da molti considerata la più significativa della sua carriera, cioè ‘I Sette Samurai‘. Il cinema del Sol Levante era stato da poco scoperto e valorizzato in occidente grazie ad alcuni Festival e molti autori europei ed americani guardavano con curiosità ed ammirazione allo stile severo ma di grande fascino che quella cinematografia trasmetteva, grazie a registi di grande qualità come, fra gli altri ed oltre a quello già citato, Kenji Mizoguchi, Yasujirō Ozu e Kon Ichikawa.

Nel 1950 il film ‘Rashōmon‘ di Kurosawa ha vinto il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia e l’Oscar per il Film Straniero, ma lo stile e le tematiche de ‘I Sette Samurai‘ (clicca sul titolo di diverso colore se vuoi leggere il mio commento al film), la cui vicenda è ambientata nel medioevo del Giappone, hanno impressionato a tal punto il regista americano John Sturges da spingerlo a trasporne la storia fra i contadini che vivono al confine fra Messico e Stati Uniti al tempo dell’epopea western, trasformando i sette samurai in altrettanti pistoleri. Il risultato è diventato a sua volta un classico del genere di appartenenza e chiunque ne conosca anche solo superficialmente i titoli più significativi non dovrebbe avere difficoltà a riconoscere fra essi ‘I Magnifici Sette‘, oltre alla famosissima colonna sonora composta da Elmer Bernstein. Avendo appena avuto l’occasione di vedere l’opera di Kurosawa, non ho resistito alla tentazione di rivedere subito dopo anche l’adattamento di Sturges.

Si tratta ovviamente di una libera rielaborazione, ma il regista americano nativo dell’Illinois (già noto per aver diretto opere significative come ‘Sfida all’OK Corrall‘ nel 1957 e ‘Sfida nella Città Morta‘ l’anno seguente), già nei titoli di testa cita apertamente come riferimento l’opera di Kurosawa e difatti, ambientazione ed epoca a parte, che sono ovviamente molto distanti fra loro, le differenze nello sviluppo della trama sono invece minimali e più che la vicenda in sé, che rispecchia quindi in larga parte quella de ‘I Sette Samurai‘, sono alcune specifiche nei ruoli dei sette protagonisti che ne ‘I Magnifici Sette‘ sono state scambiate rispetto all’opera del regista giapponese.

Tanto per fare un esempio, nel film di Kurosawa il più giovane è un aspirante samurai, mentre quello che si aggrega agli altri sei, per volontà sua e non per essere stato ingaggiato in base ai meriti acquisiti o sulla fiducia perché di fama già nota, è un personaggio maturo, interpretato da un attore carismatico come Toshiro Mifune. Nell’opera di Sturges invece, la sceneggiatura assegna al più giovane il ruolo del presuntuoso che si candida ad aggiungersi al gruppo dei sei. Messo però alla prova da Chris Adams, il pistolero che svolge un po’ il ruolo che oggi definiamo del ‘recruiter’ o selezionatore, Chico (questo il suo nome) fallisce miseramente. Per cui se ne va furibondo e deluso per essere stato ridicolizzato, salvo poi recuperare la credibilità e la stima utili per conquistarsi un posto fra i magnifici sette quando, dopo averli testardamente seguiti da lontano lungo il viaggio per raggiungere il villaggio, dimostra da abile cacciatore la sua capacità di sopravvivenza in un ambiente selvaggio. Persino di avere carattere ed iniziativa, quando Chico sale sul campanile per far suonare le campane, usate di solito per lanciare un allarme generale ai contadini per farli tornare al più presto dai campi, oppure in questo caso per farli uscire dalle loro case, timorosi e sospettosi nei confronti dei nuovi arrivati. Il vecchio saggio del villaggio per giustificarne il comportamento a Chris, gli dice infatti che: ‘…hanno paura di tutti e di tutto. Hanno paura se piove o se non piove, l’estate può essere troppo calda, l’inverno troppo freddo. Se la scrofa non ha maialini il contadino ha paura di morir di fame, se la scrofa ne fa troppi han paura che muoia la scrofa…‘.

Detto ciò, ‘I Magnifici Sette‘ è un western che, contrariamente alla tipologia del genere, non punta a mettere in mostra i muscoli o le performance balistiche dei sette pistoleri, ma a descrivere ognuno di loro con attenzione al carattere ed alle specifiche peculiarità, senza esagerazioni in termini di raffigurazione. Semmai, come nei riguardi del giovane Chico, oppure durante la fase di selezione dei sei compagni di ventura da parte di Chris, emerge anche qualche nota ironica a stemperare la seriosità dei rispettivi momenti. Di certo, ben consci di essere solo in sette ad affrontare una quarantina di banditi, per giunta armati di tutto punto, i pistoleri non si comportano da smargiassi; al contrario sono consapevoli di rischiare la vita in un’azione di difesa dei più deboli dalla quale non potranno comunque trarre gran vantaggio, né in denaro, né in natura e neppure in gloria, trattandosi di un villaggio sperduto dal quale, l’eco del loro sacrificio, non andrà comunque molto lontano. Per tale ragione decidono di addestrare alla bell’e meglio anche i contadini ritenendo, con umiltà ed avvedutezza, che sia indispensabile anche il loro contributo.

Chris Adams si era dimostrato immediatamente l’uomo giusto per la delegazione di contadini scesi sino alla più vicina città per ingaggiare i pistoleri necessari per affrontare una volta per tutte il prepotente e spietato Calvera, rifiutandosi di subire ancora passivamente le sue angherie, seppure alcuni fra loro invece preferirebbero ancora sottomettersi, temendo ancora di più la sua vendetta. I poveretti hanno assistito di persona alla coraggiosa iniziativa di Chris di farsi avanti e sfidare alcuni bianchi razzisti che avrebbero voluto impedire ad un povero pellerossa defunto di essere sotterrato nel cimitero, come se potesse contaminarne la terra e nonostante in vita si fosse distinto a lungo in quel posto per il suo comportamento. Chris (Yul Brynner) si era offerto di guidare la carrozza funebre, subito affiancato da Vin (Steve McQueen) seppure i due non si conoscevano affatto prima di quella occasione e fra loro era nata un’immediata intesa ed empatia…(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

I Miei Classici della Storia del Cinema: ‘I Sette Samurai’ – 1954 (Akira Kurosawa)

I SETTE SAMURAI

Titolo Originale: 七人の侍

Nazione: Giappone

Anno: 1954

Genere: Drammatico, Storico

Durata: 207’ Regia: Akira Kurosawa

Cast: Takashi Shimura (Kambei Shimada), Toshirō Mifune (Kikuchiyo), Yoshio Inaba (Gorobei Katayama), Seiji Miyaguchi (Kyuzo), Minoru Chiaki (Heihachi Hayashida), Daisuke Katô (Shichiroji), Isao Kimura (Katsushiro Okamoto), Keiko Tsushima (Shino), Kamatari Fujiwara (Manzo, padre di Shino), Yoshio Tsuchiya (Rikichi), Yukiko Shimazaki (moglie di Rikichi), Yoshio Kosugi (Mosuke), Bokuzen Hidari (Yohei), Kokuten Kodo (Gisaku)

Questo film appartiene ad una mia personale categoria dei ‘Classici del Cinema’ nella quale, senza rispettare una vera e propria cronologia, proporrò alcuni dei titoli che ritengo più significativi o che mi hanno particolarmente colpito nel corso degli anni.

Nel 1954 dalla fucina di Hollywood uscivano film come ‘La Finestra Sul Cortile‘ di Alfred Hitchcock (clicca sul titolo se vuoi leggere il mio commento al film); si confermavano il talento e l’eleganza di Audrey Hepburn in ‘Sabrina‘ di Billy Wilder; il giovane Marlon Brando interpretava il personaggio carismatico di ‘Fronte del Porto‘ di Elia Kazan; Marylin Monroe si consacrava diva e sex symbol ne ‘La Magnifica Preda‘ di Otto Preminger; in Italia Luchino Visconti girava ‘Senso‘ con due assistenti come Francesco Rosi e Franco Zeffirelli; David Lean in UK realizzava una classica commedia come ‘Hobson il Tiranno‘ e  Henri-Georges Clouzot in Francia con ‘I Diabolici‘ inaugurava in pratica il genere thriller (a chiudere questo comunque parziale elenco di opere ed autori fra i più significativi).

Il cinema giapponese invece, sconosciuto ai più in occidente, stava per uscire da una sorta di splendido isolamento. La scoperta di autori come Kenji Mizoguchi, Yasujirō Ozu e Akira Kurosawa, che apparivano per la prima volta in alcuni Festival e Mostre del Cinema in Europa, portò alla Luce dei riflettori una sorta di miniera d’oro autoriale che ha influenzato in seguito i registi di tutto il mondo. Lo stesso film oggetto di questo commento ha ispirato, ad esempio, John Sturges nella realizzazione del suo celebre western ‘I Magnifici Sette‘, il quale anche nei titoli di testa, oltreché nella storia quasi fotocopia che racconta, cita apertamente il riferimento di origine.

I Sette Samurai‘ è considerato il capolavoro di Akira Kurosawa e segue un’altra opera molto importante come ‘Rashomon‘. La durata del film nella versione integrale è di circa tre ore e quindici minuti. Proprio questa lunghezza anomala è stata oggetto di numerosi problemi nella sua distribuzione, anche in Giappone, tant’è che la stessa copia presentata alla Mostra del Cinema di Venezia e che è stata insignita del Leone d’Argento, fra una sforbiciata e l’altra durava circa la metà, un tempo ritenuto più consono per lo spettatore europeo. Pare che Kurosawa ebbe a commentare al riguardo che in quell’occasione il pubblico aveva avuto modo di vedere non tanto ‘I Sette Samurai‘ quanto semmai ‘Tre e mezzo‘…

Vorrei evitare però il rischio di essere frainteso e passare per il solito cinefilo a suo modo masochista. Un film giapponese, profondamente radicato nella storia medioevale e nella cultura di quel paese, che racconta un episodio di rivolta e di battaglia fra i contadini di un villaggio sperduto, difesi da sette coraggiosi e prodi ‘samurai’, contro le ripetute violenze di un gruppo di briganti razziatori, non è che di per sé rappresenti uno spettacolo che potesse intrigare allora, ma soprattutto oggigiorno, il più largo numero di pubblico. In particolare quello occidentale, se oltretutto si considera che la pellicola è stata girata in bianco e nero, circa sessantacinque anni fa.

Non è un film insomma che sia consigliabile vedere sdraiati sul divano dopo una cena abbondante, se non si è proprio degli appassionati cultori e dotati di particolare interesse per il genere di appartenenza di quest’opera. Ciò nonostante, alla prova dei fatti, il film di Akira Kurosawa non lascia indifferenti neppure oggi, provare per credere e per una serie di ragioni che chi non parte prevenuto in partenza può trovare puntualmente espresse. Ovvio che ci vuole pazienza e voglia di non lasciarsi sopraffare dalla pigrizia, assieme alla curiosità di scoprire una storia ambientata in una civiltà profondamente diversa dalla nostra.

Per chi ci volesse provare quindi, non solo al termine potrà forse arrivare a concludere di avere appena assistito ad un’opera d’arte, ma se non altro ad un film decisamente diverso dalla norma. Per partire con il piede giusto però non si può prescindere, sia per comprendere al meglio gli avvenimenti che i personaggi coinvolti in questa storia, dall’inquadrare la figura del ‘samurai’ così radicata nella cultura giapponese e che si è conservata a lungo nei secoli, giungendo sino ai nostri giorni. Si tratta sostanzialmente di guerrieri, i migliori, addestrati all’uso delle armi, come la celeberrima ‘katana‘ ed alle arti marziali, con un ferreo codice di condotta nel rispetto delle antiche tradizioni nipponiche, i quali in origine erano veri e propri militari, servitori dei nobili. Una sorta di guardia speciale ma anche con compiti di rappresentanza a fini intimidatori o dimostrativi delle possibilità economiche e dell’importanza in ambito di classe sociale di chi poteva permettersi di tenerli al suo servizio. Nelle varie epoche seguenti il feudalesimo, questa figura ha assunto diversi connotati, non sempre positivi, perché alcuni di essi si sono macchiati di azioni criminose ed altri sono diventati invece mercenari al servizio di chi li pagava di più, non sempre con compiti di alta natura morale. I ‘samurai’ liberi invece, erano chiamati ‘rōnin‘ e vagavano per città e villaggi in cerca di vantaggiose offerte di lavoro…(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

Film: ‘Cuori Puri’

CUORI PURI

Titolo Originale: idem

Nazione: Italia

Anno: 2017

Genere: Drammatico, Sociologico

Durata: 114’ Regia: Roberto De Paolis

Cast: Selene Caramazza (Agnese), Simone Liberati (Stefano), Barbora Bobuľová (Marta), Stefano Fresi (don Luca), Edoardo Pesce (Lele), Antonella Attili (Angela), Federico Pacifici (Ettore), Isabella Delle Monache (Beatrice)

TRAMA: Stefano è all’inseguimento di Agnese, che ha appena compiuto il furto di un cellulare (anche se di poco valore), in un supermercato della periferia romana, dove lui svolge attività di anti taccheggio. Quando la raggiunge, di fronte alle insistite ed accorate preghiere della ragazza non ancora diciottenne, affinché la lasci andare e non consegnarla come invece dovrebbe alle autorità, infine Stefano si lascia convincere e desiste. Agnese ha compiuto quel furto come reazione alla madre che le ha ritirato il suo smartphone dopo aver scoperto una chat, a suo modo di vedere impropria, con un compagno di scuola. Figlio di una coppia che vive nei quartieri popolari, Stefano ha circa venticinque anni ed è da tempo in aperta polemica con il padre che non fa niente per cercare di guadagnarsi da vivere ed evitare che lui e la moglie siano sfrattati dal piccolo appartamento per il quale da tempo non paga più l’affitto. Stefano è arrabbiato perché non trova sbocchi ad una vita priva di concrete prospettive ma intanto sta per suo conto e s’arrangia con lavoretti qua e là, che cambia continuamente però perché ogni volta, per sfortuna o per situazioni come quella che ha visto protagonista Agnese, si ritrova a dover ricominciare daccapo. Non volendo finire a spacciare droga, persino ai minorenni, come fanno invece alcuni suoi compagni di borgata capeggiati dal cinico Lele, Stefano s’arrangia guadagnando pochi euro come guardiano delle auto parcheggiate davanti ad un supermercato, fiancheggiato da un accampamento di zingari, con i quali sin dal primo momento non ha instaurato buoni rapporti, dovendo continuamente discutere con loro per fargli rispettare i confini. Agnese vive invece con la madre, una donna ancora giovane ma ossessionata dalla fede religiosa che sembra dedita solo a due obiettivi: il volontariato ed a controllare la figlia temendo che qualcuno si possa approfittare di lei. Per tale ragione spinge perché accetti di aderire al vincolo di verginità sino al matrimonio che don Luca ha promosso nel gruppo di Agnese dell’oratorio. Un sacerdote che ha un approccio molto franco e costruttivo con i giovani, parla la loro lingua e cerca con il dialogo di farli ragionare sulla dottrina ma fuori dalla retorica, così come sui propositi ed i principi che riguardano la loro esistenza. Agnese un giorno accompagna la madre a consegnare abiti usati proprio nel campo Rom di fianco a Stefano, che la riconosce. Si apparta con lui per un momento per ringraziarlo, senza farsi accorgere dalla madre. Fra i due scocca immediata una reciproca intesa. Iniziano perciò a frequentarsi ma Agnese che ha confidato a Stefano la sua promessa di verginità, fa fatica a tenerlo a freno ed a sua volta a resistere all’attrazione che prova per lui. Subentra perciò un periodo di contrasto interiore per lei, fra la voglia di trasgressione e gli scrupoli e le paure che poi prova. Si allontana da Stefano che ovviamente ci resta male, ma poi torna da lui che nel frattempo deve gestire la situazione dei suoi genitori sfrattati e costretti a vivere dentro una roulotte. Quando la madre di Agnese scopre la relazione, la costringe ad una visita ginecologica per sincerarsi della sua intatta illibatezza. Per reazione Agnese torna da Stefano che però vorrebbe cacciarla, sentendosi usato a sua volta, ma poi a casa di lui consumano un rapporto completo. Più tardi, anziché tornare a casa Agnese, spaventata dal sangue che macchia il lenzuolo ed i suoi slip, vaga per un po’ per la strada, sinché un’auto della polizia la scorge confusa e quindi viene ricoverata. Per non compromettere Stefano, dichiara di essere stata violentata da un estraneo, probabilmente un Rom. La notizia si sparge nel quartiere e persino nelle TV locali, sino a che ne viene a conoscenza anche Stefano…     

VALUTAZIONE: opera d’esordio di Roberto de Paolis, rivela un autore sorprendentemente già maturo, attento ai temi sempre attuali e oggetto di discussione che riguardano l’emarginazione, la gestione della periferia degradata di una grande città come Roma, la difficile convivenza fra gli abitanti ed i Rom ed infine come conciliare gli esasperati principi della fede con gli istinti naturali della carne, specie quando di mezzo c’è una figlia. I due giovani protagonisti sono seguiti spesso con la telecamera a mano e ripresi in primo piano, senza nulla nascondere della loro intimità, ma anche senza compiacenza nel riprenderli. Due cuori puri di fronte ad una realtà sociale e famigliare che sembra costruita per rendere invece la loro storia irta di ostacoli, addossandogli colpe, vincoli, responsabilità e frustrazioni delle quali, nella loro semplicità e spontaneità, non dovrebbero sentire la presenza e tanto meno il peso.   

Presentato nella rassegna collaterale del Festival di Cannes, la ‘Quinzaine des Réalisateurs’, che spesso ha il merito di rivelare nuovi autori di talento, ‘Cuori Puri‘, opera prima di Roberto De Paolis, colpisce perché ha il dono raro dell’immediatezza e riesce a conciliare tematiche di carattere sociale molto complesse, con le esigenze di un film d’ambito popolare, che propone con lucidità e buon ritmo una storia di emarginazione e sofferenza, senza scendere a compromessi retorici, ma neanche al prezzo di schierarsi apertamente in senso polemico e ideologico.

Il regista romano, che ha scritto anche la sceneggiatura a otto mani con Luca Infascelli, Carlo Salsa e Greta Scicchitano, osserva, riprende, spesso ricorre alla virtù del silenzio degli sguardi e delle espressioni del viso, piuttosto che alle parole e tratta argomenti che in genere stridono fra loro, come ad esempio la fede religiosa ed il sesso come ricerca del piacere, oppure il difficile tema della convivenza fra gli abitanti di una borgata romana ed i Rom, ponendosi spesso da entrambi i lati della prospettiva. Se si esclude la critica, questa sì più esplicita, alla violenza fisica e psicologica di una madre nei confronti della figlia, votata a preservarne a tutti i costi la verginità sino al più comodo e canonico giorno del matrimonio, come se la maturazione sessuale e psicologica della stessa e le responsabilità del genitore si concretizzassero e concludessero in quel momento, l’intento non è quello d’impartire una lezione o soluzioni di comodo.       

I due protagonisti, la già nota in alcune ‘fiction’ in TV, ma debuttante al cinema Selene Caramazza, nei panni di Agnese ed il più esperto, inteso come grande schermo, Simone Liberati in quelli di Stefano (tutti e due da pollice su per la loro interpretazione), appartengono apparentemente a due mondi diversi ed inconciliabili, ma hanno bisogno entrambi di aiuto che trovano proprio uno ‘nell’universo’ dell’altra, pur conoscendosi in circostanze particolari. Il primo viene dalla periferia degradata, nella quale convivono miseria, droga, contrasti fra poveri e contraddizioni di natura sociale e religiosa ed ha perciò tutta l’aria di non aver mai avuto un’infanzia serena, bensì di aver sempre dovuto lottare. Sulla strada per farsi rispettare, spesso usando le mani più che le parole, ma non di meno anche in famiglia, dovendo barcamenarsi fra una madre affettuosa ma debole ed un padre con il quale è in aperto contrasto e che non hai mai fatto nulla per assumersi le proprie responsabilità.

Stefano così ha dovuto ben presto arrangiarsi da solo, uscendo da quell’ambito senza speranza e dalla dura realtà dell’ambiente dove è cresciuto, cercando di tenersi lontano dalle tentazioni della facile quanto deprecabile soluzione di entrare, come invece fanno alcuni suoi coetanei, nel giro degli spacciatori, ma anche senza sapere spesso dove sbattere la testa per rimanere nell’ambito della legalità, se non accettando lavori umilianti, precari e poco retribuiti che non gli concedono nessuna chance di crescita individuale e professionale. O piuttosto metterlo, come nel caso del giorno in cui incontra per la prima volta Agnese, di fronte a situazioni di conflitto interiore che conosce già molto bene per suo conto.

Dal canto suo Agnese è in procinto di compiere diciotto anni e vive una situazione famigliare forse meno definita, almeno per quanto è dato sapere allo spettatore (non c’è traccia del padre), ma dal punto di vista economico sembra avere meno problemi di Stefano. La madre si può permettere pure di fare attività di volontariato presso un accampamento Rom e regalare gli abiti più vecchi, trovando conforto per il resto nella fede religiosa che vive con grande partecipazione, al limite dell’ossessione però per quanto riguarda la figlia, sulla quale riversa molte delle sue ansie e frustrazioni con un atteggiamento iperprotettivo ed anche punitivo che però, anziché avvicinarle fra loro, le allontana. Agnese la subisce, non vuole dispiacerle ma al tempo stesso vede i suoi atteggiamenti come limitativi della sua libertà di scelta. Nonostante ciò, frequenta l’oratorio con partecipazione attiva e soprattutto grazie all’atteggiamento propositivo di don Luca, con il quale sia lei che il suo gruppo hanno un buon rapporto, si è lasciata convincere a condividere un voto di verginità sino al matrimonio che soddisfa e convince però molto più la madre che lei.

Il furto di un cellulare presso un supermercato della zona, andando contro gli stessi principi etici che ha ricevuto ed imparato, nasce perciò come reazione ad una imposizione della madre che gli ha sequestrato il suo, piuttosto che per una reale esigenza o deriva verso il mondo del crimine e quando Stefano la coglie sul fatto e la insegue sino a raggiungerla, il terrore di essere denunciata la spinge a chiedergli con insistenza ed accoratamente di lasciarla andare. Il suo atteggiamento supplicante riesce a muovere le giuste corde della sensibilità in Stefano, che forse nella sua angoscia vede riflessi anche molti fantasmi della sua, così che infine la libera, fingendo di non essere riuscito a raggiungerla. Probabilmente però non è stato creduto, perché poi ha perso il posto di guardia. D’altra parte se non è in grado di scoprire i colpevoli dei furti e soprattutto di consegnarli alle autorità competenti, che ci sta a fare in quel ruolo, devono avere concluso i responsabili del punto vendita?…(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

I Miei Classici della Storia del Cinema: ‘La Finestra Sul Cortile’ – 1954 (Alfred Hitchcock)

LA FINESTRA SUL CORTILE

Titolo Originale: Rear Window

Nazione: USA

Anno: 1954

Genere: Drammatico

Durata: 112’ Regia: Alfred Hitchcock

Cast: James Stewart (L.B. ‘Jeff’ Jefferies), Grace Kelly (Lisa Carol Fremont), Thelma Ritter (l’Infermiera Stella), Wendell Corey (Detective Thomas J. Doyle), Raymond Burr (Lars Thorwald), Irene Winston (la Signora Thorwald), Judith Evelyn (Miss Cuore Solitario), Ross Bagdasarian (il Compositore), Georgine Darcy (Miss Torso, la Ballerina), Anthony Warde (Detective), Sara Berner (Padrona del Cagnolino), Alan Lee (Padrone di Casa), Ralph Smiley (il Cameriere Carl), Georgine Darcy (La Ballerina), Sara Berner (Donna sul Ballatoio), Frank Cady (Uomo sul Ballatoio), Jesslyn Fax (La scultrice), Rand Harper (Lo Sposo Novello)

Questo film appartiene ad una mia personale categoria dei ‘Classici del Cinema’ nella quale, senza rispettare una vera e propria cronologia, proporrò alcuni dei titoli che ritengo più significativi o che mi hanno particolarmente colpito nel corso degli anni.

In una intervista ad Alfred Hitchcock, che ammirava profondamente, del regista francese Francois Truffaut (protagonista della cosiddetta corrente cinematografica francese della ‘Nouvelle Vague’ in voga alla fine degli anni ’50 ed alla quale appartengono, fra gli altri, anche autori come Jean-Luc Godard, Eric Rohmer, Jacques Rivette e Claude Chabrol), parlando de ‘La Finestra Sul Cortile’, il maestro britannico diceva: ‘…abbiamo l’uomo immobile che guarda fuori. È una parte del film. La seconda parte mostra ciò che vede e la terza la sua reazione. Questa successione rappresenta quella che conosciamo come la più pura espressione dell’idea cinematografica…’.

In questa affermazione, se vogliamo, c’è davvero una sintesi ideale di questo grande film, che è al tempo stesso di chiara impostazione teatrale, essendo interamente sviluppato fra una stanza ed un cortile sul quale si ergono, racchiudendolo quasi completamente, una serie di palazzi ed appartamenti, oltre a quello nel quale si trova il protagonista. In pratica una sorta di microcosmo della società in senso più generale, metaforicamente parlando, seppure limitato ad un’area i cui abitanti sono costretti, per ragioni di conformazione architettonica, ad esporsi agli sguardi altrui, senza esclusione neppure della loro intimità.

Queste singole persone, pur considerate una ad una, costituiscono nel loro insieme una comunità, cioè l’estratto rappresentativo della più ampia popolazione di una via, di un paese o di una città intera anche se, al lato pratico, i singoli componenti sono e restano fra loro, magari per sempre, degli sconosciuti. In questo caso siamo al Greenwich Village di New York, ma l’ambientazione potrebbe essere posta in ogni luogo, tant’è che quest’opera è tuttora rappresentata in teatro, ovviamente perché si presta benissimo ai tempi ed agli spazi del medesimo.

La Finestra Sul Cortile’ è anche un film contenitore di alcuni altri, come una sorta di scatola cinese o ‘matrioska‘ che dir si voglia. Il protagonista della storia è a sua volta ed al tempo stesso interprete e spettatore. Jeff o Jeffries (James Stewart) infatti è un fotografo e reporter professionista, costretto suo malgrado, a seguito di un incidente sul lavoro a rimanere bloccato in casa con una gamba ingessata sin quasi all’inguine. Abituato a girare il mondo nei posti più disparati, scomodi e rischiosi, è una sorta di leone in gabbia costretto a stare su una sedia a rotelle chiuso nella sua casa, seppure accudito al meglio e quotidianamente da una infermiera, Stella (la brava Thelma Ritter), inviata dalla compagnia di assicurazione, con la quale ha sviluppato con il passare del tempo una discreta confidenza e curiosamente i dialoghi più frizzanti ed ironici del film avvengono spesso proprio fra Jeff e Stella.

Ogni giorno viene a trovarlo anche la sua fidanzata, Lisa (la sempre splendida Grace Kelly), una donna tanto bella quanto poco affine a Jeff, per estrazione sociale e tenore di vita. Incredibilmente però questa donna, che potrebbe conquistare qualunque altro uomo sulla piazza, come gli suggerisce di fare, con l’autolesionismo dal quale sembra affetto spesso Jeff, è innamorata di lui e vorrebbe che si sposassero al più presto, mentre il fotografo infortunato è per decisa convinzione piuttosto caustico sull’istituzione del matrimonio e ritiene che il loro rapporto vada bene già così com’è, essendo certo altrimenti che, se fossero sposati, non sarebbe destinato a durare molto a lungo…(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

I Miei Classici della Storia del Cinema: ‘Il Settimo Sigillo’ – 1957 (Ingmar Bergman)

IL SETTIMO SIGILLO

Titolo Originale: Det Sjunde Inseglet

Nazione: Svezia

Anno: 1957

Genere: Drammatico

Durata: 96’ Regia: Ingmar Bergman

Cast: Max von Sydow (Antonius Block, il Cavaliere), Gunnar Björnstrand (Jöns, lo Scudiero), Bengt Ekerot (la Morte), Nils Poppe (Jof), Bibi Andersson (Mia), Inga Gill (Lisa), Maud Hansson (Strega), Inga Landgré (Karin Block), Gunnel Lindblom (Giovane che segue lo scudiero), Bertil Anderberg (Raval), Anders Ek (Monaco), Åke Fridell (Plog, il Fabbro), Gunnar Olsson (Albertus Pictor), Erik Strandmark (Jonas Skat)

Questo film appartiene ad una mia personale categoria dei ‘Classici del Cinema’ nella quale, senza rispettare una vera e propria cronologia, proporrò alcuni dei titoli che ritengo più significativi o che mi hanno particolarmente colpito nel corso degli anni.

Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me in questo modo doloroso e umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché, nonostante tutto, continua ad essere una realtà illusoria da cui non riesco a liberarmi?… Io voglio sapere. Non credere. Non supporre. Voglio sapere. Voglio che Dio mi tenda la mano, che mi sveli il suo volto, mi parli … Lo chiamo nelle tenebre, ma a volte è come se non esistesse…’. (Max von Sidow # Antonius Bock, il Cavaliere)

Il regista svedese Ingmar Bergman è probabilmente l’autore cinematografico più noto riguardo tematiche d’introspezione psicologica e l’interrogazione perpetua, ossessiva ma anche senza risposta sui grandi temi della vita, primo fra tutti quello sulla fede, sull’esistenza di Dio, sulla sua presenza-assenza e sul destino dell’uomo dopo la morte.

Ne ‘Il Settimo Sigillo’ il grande regista svedese non potrebbe essere più franco e chiaro al riguardo perché il protagonista, Antonius Block (Max von Sydow), un cavaliere di ritorno dalle crociate assieme al suo scudiero Jöns (Gunnar Björnstrand), si ritrova su una spiaggia (che possiamo considerare l’allegoria di una possibile salvezza dell’anima dopo un precedente naufragio, a sua volta metafora della perdizione) atteso addirittura dalla Morte (Bengt Ekerot), raffigurata da una persona avvolta in un mantello, naturalmente nero. Una figura carismatica ed ovviamente inquietante che ricorre spesso nella cinematografia del celebre regista.

Nonostante la morte sia, com’è noto, uno stato inevitabile e terminale della vita, temuta e scantonata il più a lungo possibile e in realtà per sua natura impersonale, il protagonista non sentendosi ancora pronto ad affrontarla e non avendo ancora chiarito i dubbi ed ottenuto le risposte alle domande che lo angosciano da molto tempo sulle cose ultime della vita e che ha cercato invano anche in Palestina, la considera come un ostacolo. A maggior ragione dato che la Morte si mostra indisponibile a chiarire i suoi dubbi a proposito dell’aldilà (è Antonius a pronunciare la frase citata all’inizio) e neppure a concedergli alcuna garanzia. Il suo scudiero Jöns, che è profondamente convinto che dopo la morte non ci sia nulla ad attendere e soddisfare le speranze dell’uomo, ha invece un atteggiamento molto meno tormentato e di natura fatalista.

Antonius in realtà non ha paura di morire, ma tornando dopo dieci lunghi anni dalla guerra, prima di arrendersi vorrebbe guadagnare ancora un po’ di tempo e perlomeno avere l’opportunità d’incontrare sua moglie Karin e sapere che fine ha fatto nel frattempo, nel castello di sua proprietà. Chiede quindi una dilazione temporale alla Morte, che per sua natura non è mai disposta a concederne, anche se tutti gliene fanno immancabilmente richiesta al momento opportuno, ricorrendo ad un curioso escamotage: la sfida ad una partita a scacchi, da svolgersi a tappe lungo il percorso sino al castello, nel corso del quale Antonius si augura di trovare nel frattempo e nel suo animo la pace, la serenità e magari qualche risposta sulle domande relative ai massimi sistemi che lo tormentano da sempre…(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

Film: ‘Le Conseguenze Dell’Amore’

LE CONSEGUENZE DELL’AMORE

Titolo Originale: idem

Nazione: Italia

Anno: 2004

Genere: Drammatico, Noir, Thriller

Durata: 100’ Regia: Paolo Sorrentino

Cast: Toni Servillo (Titta Di Girolamo), Olivia Magnani (Sofia), Adriano Giannini (Valerio Di Girolamo), Raffaele Pisu (Carlo), Angela Goodwin (Isabella), Diego Ribon (Direttore dell’Hotel), Giselda Volodi (Cameriera), Giovanni Vettorazzo (Signor Letizia), Ana Valeria Dini (Lettrice), Gianna Paola Scaffidi (Giulia), Antonio Ballerio (Direttore Banca), Gilberto Idonea (Sicario), Gaetano Bruno (Sicario), Nino D’Agata (Mafioso), Vittorio Di Prima (Nitto Lo Riccio), Enzo Vitagliano (Pippo D’Antò)

TRAMA: Commercialista di alto bordo, abituato a maneggiare miliardi di lire, persino l’acquisto di una petroliera, Titta Di Girolamo ha commesso l’errore di perdere in borsa una cifra spropositata di proprietà di ‘Cosa Nostra’. Il boss gli ha riconosciuto la buona fede e lo ha risparmiato, costringendolo però ad una sorta di esilio in un hotel in Svizzera dove vive da otto anni, prestandosi a fare il galoppino del riciclo di denaro sporco, tramite valige piene di banconote che gli vengono recapitate di volta in volta da una misteriosa donna e che Titta deve poi consegnare in banca. Di Girolamo in conseguenza di ciò è rimasto anche tagliato fuori dalla sua famiglia, che però non ha fatto nulla per sostenerlo ed in pratica quindi lo ha abbandonato. Quando chiama al telefono la moglie, la conversazione è breve ed insignificante, mentre i tre figli grandi evitano il più possibile di parlargli. In quell’hotel, né brutto né bello, passa le sue giornate in maniera apatica. L’unica abitudine della sua vita precedente che gli è rimasta e che svolge da ben ventiquattro anni, immancabilmente tutti mercoledì mattina alle ore dieci, è iniettarsi una dose di eroina e poi una volta all’anno spende una grossa cifra per farsi depurare il sangue in un centro specializzato. Per il resto, Titta il tempo lo vive nell’attesa della successiva consegna, sempre seduto allo stesso posto nella hall dell’hotel, da dove osserva tutto quello che avviene intorno a lui, ma senza darlo a vedere, pigro ed impenetrabile con espressione seriosa e rifiutando qualsiasi contatto, a parte una coppia di nobili decaduti che una volta sono stati anche i proprietari di quell’hotel, con i quali gioca a carte, e che nella loro camera conservano gelosamente gli ultimi oggetti preziosi che gli sono rimasti, temendo continuamente di perdere pure quelli. Di Girolamo, immancabile sigaretta in bocca, per non dare nell’occhio non dà confidenza a nessuno, anzi spesso si mostra scostante ed antipatico, ma proprio questo suo atteggiamento finisce invece per attirare la curiosità e l’attenzione di chi l’osserva a sua volta quotidianamente, cioè Sofia, la barista della hall, che pur essendo molto più giovane e con degli occhi splendidi, tenta in ogni modo, ma invano, di attirare la sua attenzione, persino d’intrigarlo lasciando uno spiraglio aperto dello spogliatoio mentre si cambia. Titta non è più gentile nemmeno con l’altra cameriera che gli rassetta la camera ogni giorno dei lunghi anni da quando è ospite nell’hotel e non risponde mai neppure al suo saluto. Per il resto non guarda la TV, dentro lo chassis della quale ha addirittura nascosto una pistola, che però non ha mai usato. E’ come se avesse staccato la spina dal mondo esterno. Fuma ed osserva la scena che si svolge attorno a sé, ripetitivamente, un giorno dietro l’altro e soprattutto senza mai mostrare un barlume d’interesse per qualcosa o qualcuno. L’unica distrazione dal solito cliché gliela offre il fratellastro Valerio, un personaggio opposto a lui, non solo fisicamente, che lo passa a trovare prima di prendere il volo per le Maldive dove andrà a tenere un corso di surf e nel comportarsi da galante con Sofia, provoca la reazione di quest’ultima nei confronti di Titta, accusandolo di maleducazione per non aver mai risposto, neanche a lei, ai suoi ripetuti saluti. Questo fatto, apparentemente insignificante, determina però una svolta nel comportamento di Titta che nei giorni a seguire, si avvicina a Sofia, aprendo una nuova fase della sua vita. Inizia così a farle dei regali, sempre più costosi, sino a far sparire centomila dollari da una valigia, negando poi l’ammanco al direttore della banca che per non perdere il prezioso cliente accetta infine di farsi carico della differenza. Con quei soldi Tittta regala a Sofia una lussuosa auto che lei però rifiuta, ritenendo quel dono troppo importante da parte di una persona in fondo sconosciuta per lei e con ciò spingendolo a confidarle la sua storia paradossale. Il giorno dopo Titta compie cinquantanni ma aspetta invano che Sofia, come gli aveva promesso, lo raggiunga per festeggiarlo assieme, mentre alcuni sicari di ‘Cosa Nostra’ che erano venuti a Lugano per eliminare un traditore, decidono di appropriarsi dell’ultima valigia che contiene nove milioni di dollari, lasciando a Titta il compito di giustificarsi con il boss mafioso, il quale lo convoca, ma Titta stavolta ha deciso di fare di testa sua e recuperare la proprietà della sua vita.

VALUTAZIONE: nel 2004 Paolo Sorrentino ha girato questo curioso film che è anomalo nel panorama del cinema italiano perché mette insieme al tempo stesso commedia, dramma, grottesco, noir e thriller. Mostrando di aver appreso la lezione di alcuni grandi maestri del cinema, Sorrentino dimostra di possedere già in quest’opera una particolare predilezione per l’attenzione ai particolari ed al gioco delle apparenze, grazie anche alla maschera di uno splendido Toni Servillo. Il regista napoletano ha realizzato un’opera forse imperfetta, forse mancante di equilibrio ma di notevole fascino narrativo e di tecnica cinematografica, aggiungendovi però un suo stile personale, che è riduttivo considerare soltanto in chiave nostrana.     

Secondo film di Paolo Sorrentino, quasi dieci anni prima di girare ed ottenere il successo internazionale che gli ha permesso di vincere il premio Oscar per il film straniero con ‘La Grande Bellezza’, con quest’opera, presentata al Festival di Cannes, ha ricevuto la nomination per la regia, ha conquistato poi ben cinque David di Donatello nelle principali categorie (film, regia, attore protagonista, sceneggiatura e fotografia).

Il titolo, così come buona parte della trama, è fuorviante e si chiarisce solo quando il protagonista Titta Di Girolamo, dopo otto anni di assoluto immobilismo, annota su un foglietto il suo progetto per il futuro, facendo precedere la frase da un avvertimento, rivolto a se stesso: ‘…non sottovalutare le conseguenze dell’amore‘.  Un film che è difficile catalogare in un genere di appartenenza, perché che alla stregua delle luci di una giornata, i toni nel corso della trama mutano continuamente. Inizia infatti come una commedia d’introspezione psicologica, poi diventa un dramma di stampo mafioso, per virare sulla commedia dai toni sentimentali, quindi assume i colori del ‘noir’ con venature grottesche ed infine riprende tematiche consone al cinema d’impegno civile rispetto a ‘Cosa Nostra’.

Sorrentino, oltreché esprimere una critica ed un pessimismo di fondo nei confronti della società, nella quale la solitudine diventa al tempo stesso una conseguenza ed una necessità (con riferimenti che vanno da Antonioni a Bertolucci, sino a Bergman), ma senza rinunciare ad accenni ironici e grotteschi alla Tarantino ed alle abilità narrative di Coppola e Scorsese, è anche un maniaco dell’estetica e della tecnica di ripresa del film e lo si capisce, anche in questo caso, dalle prospettive che sceglie nelle inquadrature, dalla gestione della profondità di campo (che risale sino a Orson Welles), dei piani sequenza, del flashback, addirittura spezzettato a più riprese e dalla gestione delle luci e della musica, sempre funzionali alla narrazione e non solo a semplice corredo delle immagini.

Ad iniziare già dalla sequenza d’apertura, che vede scorrere sulla pensilina mobile dei sotterranei di una grande banca svizzera un addetto che trasporta una valigia e dal fondo si avvicina sempre più in primo piano. Una scena che ricorda, ma non è un difetto la citazione nel caso, quella di apertura di ‘Jackie Brown’ di Quentin Tarantino (clicca sul titolo se vuoi leggere la mia recensione del film), seppure in tutt’altro contesto. Oltre a ciò Sorrentino rivela un’attenzione ricercata dei particolari, ripresi spesso in primo piano, di natura non soltanto estetica o apparentemente futili, che in seguito invece si rivelano determinanti ai fini del racconto. Uno per tutti il pulsante dell’ascensore dell’hotel dove alloggia Titta Di Girolamo, che improvvisamente smette di funzionare. Sembra un particolare trascurabile, un accidente fortuito e temporale, mentre invece poco dopo si dimostra narrativamente decisivo per comprendere il corso degli eventi precedenti e nel dare un senso a quelli successivi.

Le riflessioni interiori del protagonista inoltre (‘…esiste nel mondo una specie di setta della quale fanno parte uomini e donne di tutte le estrazioni sociali, di tutte le età, razze e religioni: è la setta degli insonni, io ne faccio parte da dieci anni. Gli uomini non aderenti alla setta a volte dicono a quelli che ne fanno parte: “se non riesci a dormire puoi sempre leggere, guardare la tv, studiare o fare qualsiasi altra cosa”. Questo genere di frasi irrita profondamente i componenti della setta degli insonni. Il motivo è molto semplice; chi soffre d’insonnia ha un’unica ossessione: addormentarsi…‘), molto frequenti e spesso illuminanti e più in generale i dialoghi (anche la sceneggiatura è stata scritta dallo stesso Sorrentino) che appaiono spesso come strappati di bocca al protagonista, non sono mai banali.

Anzi, quasi a voler dare un peso maggiore alle poche parole pronunciate rispetto ai prolungati silenzi, abbondano le frasi ad effetto, come se dovessero ovviare con la sintesi alla mancanza di una più ovvia e naturale loquacità, sia dettate fuori campo dal protagonista, io narrante, che pronunciate a voce da Titta, interpretato da Toni Servillo, divenuto di lì a breve un’icona straordinaria del cinema nostrano ma già nel 2004 una maschera inconfondibile di classe superiore. Gli aforismi però che non sono mai fini a loro stessi, piuttosto delineano ed ampliano la conoscenza del personaggio, la sua storia, le situazioni e le conseguenze degli stessi sulla sua vita(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

I Miei Classici della Storia del Cinema: ‘Germania Anno Zero’ – 1948 (Roberto Rossellini)

GERMANIA ANNO ZERO

Titolo Originale: idem

Nazione: Italia

Anno: 1948

Genere: Drammatico

Durata: 75’ Regia: Roberto Rossellini

Cast: Edmund Meschke (Edmund Koehler), Ernst Pittschau (Padre di Edmund), Ingetraud Hinzf (Eva, sorella di Edmund), Franz-Otto Krüger (Karl-Heinz, fratello di Edmund), Erich Gühne (il maestro Enning), Jo Herbst (Joe), Christl Merker (Christal), Franz von Treuberg (Generale von Laubniz), Hans Sangen (Signor Rademaker), Heidi Blänkner (Signora Rademaker), Barbara Hintz (Thilde)

Questo film appartiene ad una mia personale categoria dei ‘Classici del Cinema’ nella quale, senza rispettare una vera e propria cronologia, proporrò alcuni dei titoli che ritengo più significativi o che mi hanno particolarmente colpito nel corso degli anni.

Il realismo non è altro che la forma artistica della verità’ (Roberto Rossellini).

Germania Anno Zero’ è il terzo film, dopo ‘Roma Città Aperta’ (1945) e ‘Paisà’ (1946) della cosiddetta ‘Trilogia della Guerra’ del regista romano. Siamo in pieno ‘Neorealismo‘, un movimento che nasce da un lato come emanazione del ‘realismo poetico‘ di alcuni grandi registi francesi degli anni ’30, come Jean Renoir e Marcel Carné; dall’altro come evoluzione del ‘realismo primitivo‘ di autori nostrani come Mario Camerini e Alessandro Blasetti ed infine come reazione al cosiddetto cinema dei ‘telefoni bianchi‘, che mirava a rappresentare una rassicurante società del benessere e dell’ottimismo durante la dittatura fascista.

Il ‘neorealismo‘ intendeva mostrare invece la realtà dell’Italia e come vedremo, non soltanto del nostro paese, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, attraverso gli occhi e le vicende degli strati più popolari, nei luoghi che il conflitto aveva distrutto, lasciando dietro di sé città ridotte in macerie ed una popolazione fortemente provata, impoverita e spesso priva delle più basilari risorse per vivere, aggrappata soltanto alla speranza di un futuro migliore. L’utilizzo di attori non professionisti e di bambini, caratteristica peculiare del ‘neorealismo‘, rende ancora più schiette e genuine le opere legate a questo movimento. ‘Germania Anno Zero‘ è dedicato da Rossellini al figlio Romano, morto pochi mesi prima dell’inizio delle riprese, all’età di nove anni.

I registi del ‘neorealismo‘ si proponevano quindi di essere portavoce di una rinascita politica e sociale. Fra gli autori più significativi di questo movimento (che possiamo considerare compreso fra il 1943, se includiamo in esso anche ‘Ossessione‘ di Luchino Visconti, oppure a partire dal 1945 con ‘Roma Città Aperta‘ dello stesso Rossellini sino al 1950-51, cioè all’uscita di ‘Cronaca di un Amore‘ di Michelangelo Antonioni), oltre ai già citati e fra i più significativi registi, si possono includere Vittorio De Sica, Giuseppe De Santis, Federico Fellini, Alberto Lattuada, Luigi Zampa, Pietro Germi e Renato Castellani.

Rossellini ambiva ad utilizzare il cinema come mezzo di conoscenza e di cultura che fosse in grado di aprire le coscienze ed è stato considerato una sorta di padre del ‘neorealismo‘, amato ispiratore anche degli autori del movimento cinematografico francese della ‘Nouvelle Vague‘ (che seguirà alla fine degli anni ’50), per il suo stile diretto e privo di formalismi. ‘Germania Anno Zero‘ è stato girato nel 1948, in una Berlino distrutta dalla guerra e dalla disfatta del nazismo. La grandezza di un autore si riconosce anche dalla sua capacità di uscire dagli schemi precostituiti ed essere al tempo stesso convincente ed equidistante. Non solo quindi i luoghi sono diversi da quelli relativamente più ‘facili’ di Roma, della popolazione vittima dell’occupazione nazista, ma protagonista di questo film è una famiglia qualsiasi tedesca di Berlino, ridotta ad un cumulo di macerie ed in special modo emerge nella trama la figura di Edmund, un bambino la cui infanzia è stata rubata e rovinata dalla guerra e dalla povertà conseguente.

La famiglia Koehler ha perso la casa ed è ospitata, malvolentieri peraltro, dai coniugi Rademaker, che si comportano con durezza e poco rispetto nei loro confronti. La madre del dodicenne Edmund è morta; il padre è malato di cuore e bloccato a letto; la sorella maggiore Eva si procura sigarette, da rivendere al mercato nero, frequentando i soldati alleati che hanno occupato Berlino, senza cedere però alla facile ma anche più umiliante tentazione di prostituirsi; il fratello Karl-Heinz è un ex soldato dell’esercito nazista, la Wermacht, che si nasconde in casa per evitare di essere arrestato dai soldati delle nazioni vittoriose che occupano ora la città, essendo oltretutto privo di documenti d’identità ed è quindi bisognoso, al pari del padre, di essere sostenuto dalla sorella ed il fratellino.

Edmund cerca, in un tale difficile contesto familiare, di darsi da fare per procurare qualcosa di utile al loro sostentamento. Nel suo girovagare fra il mercato nero e le rovine della città distrutta, incontra il suo ex maestro Enning, probabilmente un pedofilo, al quale innocentemente il ragazzino chiede aiuto. Il professore è un nazista che non si è ancora rassegnato alla sconfitta e perciò cerca d’inculcare nel giovane, che gli parla del padre malato, il malsano convincimento che solo i forti devono sopravvivere, mentre i deboli e i malati sono destinati a perire…(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

Film: ‘Birdman’

BIRDMAN

Titolo Originale: Birdman

Nazione: USA

Anno: 2014

Genere: Commedia, Drammatico

Durata: 119’ Regia: Alejandro González Iñárritu

Cast: Michael Keaton (Riggan Thomson), Zach Galifianakis (Jake), Edward Norton (Mike Shiner), Emma Stone (Sam Thomson), Naomi Watts (Lesley), Andrea Riseborough (Laura), Amy Ryan (Sylvia Thomson), Merritt Wever (Annie), Lindsay Duncan (Tabitha Dickinson), Bill Camp (Uomo Pazzo), Michael Siberry (Larry), Benjamin Kanes (Birdman), Antonio Sánchez (Batterista del Teatro)

TRAMA: Riggan è un attore rimasto troppo tempo legato alla figura di un personaggio di fantasia del cinema, ‘Birdman’. Stanco del solito cliché ed in difficoltà economica, ha deciso di rimettersi in gioco come regista e attore in una commedia teatrale, nonostante il suo personaggio ‘icona’ insista continuamente affinché torni sui suoi passi, a suo modo di vedere più congegnali e sicuri. Riggan è ancora così compenetrato in ‘Birdman’ che crede di possedere doti sovrannaturali, come rimanere sollevato da terra o muovere gli oggetti soltanto indicandoli con le dita, ma il suo intento è quello di dimostrare, non solo che come attore è tutt’altro che superato o limitato a quel personaggio, ma che è capace di esprimersi ad alti livelli anche a Broadway, in un ambiente per lui nuovo come il teatro. Si rende ben presto conto però che il ruolo di regista è tutt’altro che agevole ed essendo esordiente in quell’ambiente, nonostante il sostegno del suo agente, si ritrova ben presto ad affrontare numerose difficoltà gestionali, come sostituire il coprotagonista della commedia che si rivela non all’altezza ed a fare i conti con la critica spietata che lo considera presuntuoso ed è decisa a stroncare il suo lavoro prima ancora che sia rappresentato. Anche Mike Shiner, l’attore che viene ingaggiato al posto del precedente, un nome già noto nell’ambiente teatrale e che perciò potrebbe richiamare molto pubblico, si rivela però caratterialmente difficile da gestire. Riggan è separato dalla moglie Amy, dalla quale ha avuto una figlia, Sam, la quale si è appena disintossicata dalla droga ed è uscita da una comunità. Ora vive accanto al padre, cercando di rendersi utile nel lavoro quotidiano in teatro, dove Riggan, dopo tre anteprime davanti ad un limitato pubblico, sta per rappresentare ufficialmente la sua commedia, tratta dall’opera ‘Di cosa parliamo quando parliamo di amore’ di Raymond Carver. La giovane non ha un buon rapporto con il padre e quest’ultimo non le dedica molto tempo, essendo totalmente compresso ed ossessionato dal suo lavoro. Per giunta Mike critica apertamente la sua performance attoriale, ben lontana a suo dire, dalla spontaneità necessaria. Le anteprime in effetti si rivelano un mezzo fallimento, ma la sera della prima avviene un episodio sorprendente che cambia totalmente la vita di Riggan.  

VALUTAZIONE: quattro premi Oscar, fra i quali miglior film e regia, in un’opera che è una lezione di virtuosismo tecnico da parte del regista Alejandro González Iñárritu, il quale ha girato tutte le sequenze come se fossero un unico ‘piano sequenza’. ‘Birdman’ inoltre scava nella psicologia della figura attoriale ed anche genitoriale, oltreché sul ruolo dei media, della critica e dei social, non più da considerarsi come entità separate fra loro ma un tutt’uno che ridisegna anche il cinema come mezzo d’espressione. Da vedere anche solo per capirne l’evoluzione.

Ci sono film, anche molto riusciti e formalmente ineccepibili, che pur raccontando e rappresentando storie di grande appeal, però non aggiungono una virgola al cinema dal punto di vista dell’evoluzione dello stesso come mezzo d’espressione. Ce ne sono altri invece che, pur rischiando di non incontrare il gusto del grande pubblico, cercano di andare oltre la consuetudine, aggiungendo ai contenuti anche mirabolanti prestazioni dal punto di vista tecnico, sondando ‘territori’ mai affrontati da altri autori in precedenza, anche se poi i primi possono balzare all’occhio soltanto degli appassionati, degli addetti ai lavori e dei critici cinematografici. ‘Birdman‘ appartiene a questa seconda categoria di film.   

Sin dalle prime immagini comunque ci si rende conto che questa è un’opera diversa dalle altre, con quella figura in posizione yoga sospesa da terra, che poi è lo stesso protagonista Riggan Thomson, interpretato magnificamente da Michael Keaton. ‘Birdman‘ infatti riesce al tempo stesso ad essere un film metaforico ed uno di realistica e profonda introspezione psicologica, spiazzando lo spettatore nel raccontare una storia che contiene persino elementi autobiografici, se si considera che Michael Keaton ha acquisito notorietà al cinema interpretando il personaggio di ‘Batman‘, non molto diverso, neppure nell’aspetto, da quello di ‘Birdman‘.

Il regista messicano Alejandro González Iñárritu però non si è fermato a questo aspetto ma da funambolo dietro la macchina da presa, ha utilizzato la tecnica del ‘piano sequenza‘, di solito riservata a particolari e limitati momenti di un film, lungo tutta la durata della sua opera, dalla prima all’ultima inquadratura. Il ‘piano sequenza‘, per chi non fosse confidente con il linguaggio cinematografico e per dirla semplice, è una tecnica di ripresa che fa sembrare lo svolgimento del film come se fosse un unico sequenziale anche se ovviamente così non è, e vede la macchina da presa seguire lo svolgimento di una scena più o meno a lunga, senza stacchi o cambi di prospettiva. Un po’ come se fosse l’occhio di un attore che segue il suo piano visivo mentre interagisce con gli altri personaggi e se lo lascia è per seguirne allo stesso modo un altro, senza mai uscire dalla stessa sequenza. Di solito un ‘piano sequenza‘ dura qualche minuto, in questo caso invece il film è costituito da uno che copre la sua intera lunghezza. Un tale virtuosismo ovviamente è stato reso possibile soltanto da un trucco di montaggio.

Birdman‘, tranne brevi momenti, si svolge quasi tutto dentro il teatro dove Riggan sta lavorando alle prove della commedia teatrale adattata dal testo dell’opera ‘Di cosa parliamo quando parliamo di amore‘ di Raymond Carver. L’escamotage narrativo usato da Iñárritu è perciò quello di seguire fisicamente ed alternativamente i vari protagonisti dentro i meandri del teatro, in apparenza senza mai effettuare i classici stacchi e quindi evitando i campi ed i controcampi, come avviene di solito nei dialoghi quando la cinepresa riprende un personaggio di spalle e l’altro di fronte e poi viceversa. Come una sorta di ‘segugio’, la macchina da presa in questo caso segue un personaggio e poi in base a come si sviluppa il dialogo con un altro, lo abbandona per seguire quest’ultimo e così via, come fosse un unicum narrativo, dando allo spettatore l’impressione che regista ed attori abbiano realizzato tutto il film in una singola sessione, anche se nella realtà ovviamente non è così.  

In aggiunta a questa curiosa e straordinaria performance registica, ‘Birdman’ è un’opera che mette in discussione il ruolo del cinema come mezzo privilegiato e lungamente dominante, da quando è nato il cosiddetto ‘star system‘, nel dispensare fama e visibilità in tutto il mondo. In una sequenza che è al tempo stesso grottesca, ironica ed esemplificativa, vediamo il protagonista, rimasto inavvertitamente chiuso fuori dal teatro, mentre sta fumando nervosamente una sigaretta in attesa del momento in cui deve entrare in scena nello spettacolo già in corso di svolgimento al suo interno. Costretto ad abbandonare persino l’accappatoio che indossa, rimasto incastrato nella porta d’acciaio, Riggan non trova di meglio che correre in mutande lungo la strada, in un percorso che sembra non finire mia, aggirando l’edificio per raggiungere l’ingresso del locale, mentre la folla intorno lo riconosce, l’osserva stupita, divertita, alcune persone lo seguono, lo filmano ed ovviamente lo pubblicano sui ‘social‘…(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

I Miei Classici della Storia del Cinema: ‘Quarto Potere’ – 1941 (Orson Welles)

QUARTO POTERE

Titolo Originale: Citizen Kane

Nazione: USA

Anno: 1941

Genere: Drammatico

Durata: 119’ Regia: Orson Welles

Cast: Orson Welles (Charles Foster Kane), Joseph Cotten (Jedediah Leland), Everett Sloane (Mr. Bernstein), Dorothy Comingore (Susan Alexander Kane), Agnes Moorehead (Mary Kane), Ray Collins (James W. Gettys), Ruth Warrick (Emily Monroe Norton Kane), William Alland (Jerry Thompson), George Coulouris (Walter Parks Thatcher), Paul Stewart (il Maggiordomo Raymond), Philip Van Zandt (Mr. Rawlston), Fortunio Bonanova (il Maestro Matiste), Gus Schilling (Capo Cameriere), Georgia Backus (Signorina Anderson), Harry Shannon (Padre di Kane), Erskine Sanford (Herbert Carter), Sonny Bupp (Figlio di Kane), Buddy Swan (Kane a otto anni), Thomas A. Curran (Theodore Roosevelt)

Questo film appartiene ad una mia personale categoria dei ‘Classici del Cinema’ nella quale, senza rispettare una vera e propria cronologia, proporrò alcuni dei titoli che ritengo più significativi o che mi hanno particolarmente colpito nel corso degli anni.

Quando guardiamo un film oggi, diamo per scontati molti meccanismi che in realtà il cinema ha sviluppato progressivamente nel corso del tempo. Le tecniche di narrazione e di ripresa delle immagini, ad esempio, oppure il sonoro, sono stati affinati nei lunghi anni trascorsi dai primi esperimenti dei fratelli Lumiere ad oggi ed i progressi della tecnologia nel frattempo hanno reso oramai possibile qualunque tipo di finzione e rappresentazione. La famosa frase pubblicitaria ‘volevamo stupirvi… ecc. ecc…‘ non ha nemmeno più senso, è diventata la norma e perciò insignificante, appunto.

Nel 1941 però era molto diverso. Gli americani non avevano ancora subìto l’attacco di Pearl Harbor del 7 dicembre e le riprese del film del ventiseienne Orson Welles, al suo d’esordio dietro la macchina da presa, erano terminate a fine ottobre 1940. La distribuzione nelle sale è iniziata solo a metà del 1941, ma non in Europa, che a quel tempo era già impegnata in quella che sarebbe diventata di lì a breve, proprio in conseguenza di Pearl Harbor, la Seconda Guerra Mondiale. In Italia il regime fascista nel frattempo aveva bloccato l’importazione e la distribuzione dei film di provenienza USA e quindi quest’opera, nelle sale del nostro paese, apparve solo nel 1949, in Germania addirittura nel 1962. Il che non è un particolare secondario, perché mentre il cinema americano aveva attinto a piè mani dal cinema europeo continentale degli anni dieci, venti e trenta, quando quest’ultimo (escluso il Regno Unito) si è ritrovato fortemente limitato nella produzione ed anche chiuso in se stesso per il conflitto in atto, gli autori d’oltreoceano intanto andavano avanti a produrre ed anche a migliorare la tecnica di realizzazione cinematografica.

‘Quarto Potere’ è considerato uno dei film più importanti ed innovativi della storia del cinema mondiale, perlomeno in riferimento all’epoca di realizzazione. Un’affermazione certamente impegnativa, ma rivisto oggi, nonostante riteniamo oramai innaturale il formato delle immagini in 4:3, il capolavoro di Orson Welles mantiene intatto il suo fascino narrativo, evocativo e, per chi ne fosse interessato, soprattutto ‘rivoluzionario’ per quanto riguarda la scrittura e la composizione di un’opera cinematografica. A tal punto, da far considerare questo film uno spartiacque fra il cinema di prima e quello successivo alla sua uscita. Seppure, come spesso avviene per chi rompe i canoni della consuetudine, non solo in ambito artistico, la comprensione e l’importanza di ‘Citizen Kane‘ è stata riconosciuta solo in un secondo momento. Ma nel suo caso specifico c’erano anche ragioni legate ai contenuti, come vedremo a breve. 

Il titolo scelto dalla produzione italiana è completamente diverso da quello originale e si riferisce alla definizione che già alla fine del XVIII secolo un deputato inglese, Edmund Burke, diede del ruolo sempre più importante che stavano assumendo i mezzi d’informazione, quelli che oggi chiamiamo per semplicità e sinteticamente ‘media‘. ‘Quarto Potere‘ si riferisce infatti solo alla stampa, in aggiunta ai tre poteri fondamentali dello stato, che com’è noto sono quello legislativo, esecutivo e giudiziario. Sin dalle prime immagini l’opera di Orson Welles rompe gli schemi perché non presenta i titoli di testa e narrativamente parlando parte, inversamente alle abitudini consolidate, dalla morte del protagonista. Se a questo aggiungiamo che non ha voluto nel cast attori di primo piano, il ruolo del protagonista infatti lo ha interpretato lui ed i bravi attori ingaggiati per gli altri personaggi erano ‘solo’ bravi caratteristi o al più divi in divenire, come Joseph Cotten (ai quali però Welles dedica alla fine, uno per uno, un siparietto ad elencarne i pregi, non soltanto recitativi), si capisce come un modello del genere fosse innovativo per l’epoca, ma non solo per questo aspetto.

La trama racconta la vita del personaggio immaginario Charles Foster Kane, ma in realtà, anche se pare non sia mai stato pubblicamente ammesso, in alcuni tratti significativi della stessa si rifà a quella, per quanto romanzata, del magnate William Randolph Hearst. Il quale, non reagì molto bene all’immagine che ne usciva di lui dal film di Orson Welles ed allora scatenò una campagna denigratoria attraverso i numerosi giornali che controllava. Ottenne così il risultato di mettere in cattiva luce un’opera che, in ragione anche di questo aspetto, ebbe scarso successo al botteghino, nonostante si avviasse con ben nove nomination ad essere protagonista alla premiazione degli Oscar, anche se poi ne vinse soltanto uno, quello per la sceneggiatura originale. Ma soprattutto, esclusi gli addetti ai lavori che ne compresero immediatamente il valore, per un po’ di tempo i più non riconobbero l’importanza che invece meritava questo film nella crescita creativa e tecnica della cosiddetta settima arte, che arrivò soltanto in un secondo momento.

In estrema sintesi il film racconta l’inchiesta condotta dal giornalista Jerry Thompson, incaricato dal suo direttore editoriale, dopo aver visionato in redazione un cinegiornale che riassumeva la vita del magnate Charles Foster Kane, appena deceduto, di scoprire l’unico mistero che era ancora rimasto irrisolto riguardo la sua figura e cioè a cosa si riferiva l’ultima lapidaria ed oscura parola pronunciata dal magnate stesso poco prima di morire: ‘Rosabella’ (‘Rosebud’ nell’originale). Attraverso le testimonianze di alcune persone a lui particolarmente vicine, Thompson ne ricostruisce la figura ben al di là delle cronache del tempo, andando ad intervistare con alterna fortuna la seconda moglie Susan, cantante di pessimo valore, per la quale Kane ha costruito dapprima il teatro dell’opera di Chicago perché potesse esibirsi, fra la disperazione del Maestro Matiste e a seguire la megalomane residenza di ‘Candalù‘ (‘Xanadu‘ in originale) in Florida; a seguire Mr. Bernstein, direttore del giornale ‘New York Inquirer’ che accompagnò Kane in molte sue ‘imprese’ senza riuscire mai però a stargli al passo. E’ quest’ultimo ad indirizzare Thompson sino all’amico di un tempo di Kane, quel Jedediah Leland, poi tradito e messo alla porta perché si oppose a scrivere recensioni elogiative delle qualità canore di Susan. Leland è recluso in una casa di riposo dove non si vergogna ad elemosinare un sigaro al giornalista, che i medici e le infermiere, a suo dire, si ostinano a negargli.

Thompson, nonostante le approfondite indagini, non riuscirà mai a scoprire a cosa alludesse quel nome, al contrario dello spettatore che in una sequenza a lui espressamente dedicata, viene a sapere infine che si trattava di un ricordo d’infanzia, inciso su uno slittino che Kane, da piccolo, aveva scagliato contro il suo tutore Walter Parks Thatcher quando si era presentato a casa sua per strapparlo ai giochi ed alla sua innocente infanzia. In base agli accordi con la madre del giovanissimo Charles, osteggiati ma dal padre senza possedere la forza caratteriale necessaria per respingerli, a seguito della scoperta una miniera d’oro nel terreno di famiglia, che non sapevano come gestire, Charles è stato affidato, in cambio di un generoso vitalizio, alle cure di Thatcher, per educarlo al mondo degli affari sino a che fosse diventato maggiorenne, rientrando in possesso della piena proprietà, ma rinunciando nel frattempo e per sempre a vivere spensieratamente la sua giovanissima età. Per questo Charles non ha mai smesso di odiare il suo tutore ed una volta divenuto adulto ha compiuto tutte le scelte che potessero contrariarlo.

L’inizio del film è più simile ad un horror che ad una commedia drammatica, con i toni in bianco e nero fortemente contrastati come nei film espressionisti tedeschi degli anni venti. In primo piano dapprima un cartello con la scritta ‘No trespassing‘ e poi un castello in cima ad una collina che non sarebbe spiaciuto al Nosferatu di Murnau, seguito da una serie d’inquadrature (persino la sagoma di due gondole) che, in rapida successione, mostrano una finestra dalla quale filtra una luce, in una notte di nevosa tempesta. Un vecchio, sul letto di morte, ripreso solo sulla bocca, pronuncia la fatidica parola ‘Rosabella‘, prima di lasciar cadere dalla mano una palla di vetro (di quelle che hanno dentro una casetta ed agitate danno l’illusione che cada la neve) la quale si frantuma ed attraverso alcune immagini distorte che filtrano dai pezzi di vetri rotti, si vede accorrere un’infermiera che, preso atto del compiuto destino, copre pietosamente il viso del cadavere… (leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

Film: ‘Gravity’

GRAVITY

Titolo Originale: Gravity

Nazione: USA

Anno: 2013

Genere: Drammatico, Fantascienza, Thriller

Durata: 92’ Regia: Alfonso Cuarón

Cast: Sandra Bullock (Dott.ssa Ryan Stone), George Clooney (Matt Kowalsky)

TRAMA: La dottoressa Ryan Stone è alla sua prima missione da astronauta nello spazio, mentre il suo collega Matt Kowalsky è all’ultima. Il loro compito è quello di riparare un guasto al telescopio spaziale Hubble. In realtà Ryan è un’ingegnere esperta della specifica strumentazione danneggiata, mentre Matt si limita ad assisterla pilotando un’unità motorizzata sulla quale è comodamente seduto seppure in un contesto molto particolare. Il morale è alto per Matt e gli piace ancora mirare per l’ultima volta la bellezza mozzafiato della terra da quell’altezza e nel mentre si diletta a fare battute spiritose per scaricare la tensione di Ryan. All’improvviso però un messaggio perentorio del centro spaziale di Huston intima ai due di interrompere l’intervento e rientrare nello Space Shuttle. La ragione è che, per cause fortuite, i russi hanno abbattuto con un missile un loro satellite il quale, frantumato in innumerevoli pezzi, ora sono diventati tanti proiettili che viaggiano a tutta velocità nella stessa orbita della maggior parte degli altri satelliti, distruggendoli al loro passaggio. Per molti è già accaduto ed i detriti stanno per raggiungere anche Ryan, Matt e la navetta spaziale dentro la quale ci sono i loro colleghi in attesa che terminino il loro lavoro. Il momento dell’impatto è tremendo perché i danni sono ingentissimi e solo i due astronauti protagonisti sopravvivono, anche se Ryan rischia per un po’ di fluttuare e perdersi nello spazio infinito. L’intervento di Matt, calmo e rassicurante, è decisivo per salvare Ryan e trascinarla, legata con un cavo, sino alla Stazione Spaziale Internazionale. I contatti con la base di Huston nel frattempo sono cessati. Raggiunta la Stazione però Matt ha finito il carburante della sua unità motorizzata, l’unità è fortemente danneggiata e non ci sono superstiti. Ritornano nel frattempo i detriti perché, trascorsa un’ora e mezza, hanno già compiuto l’orbita intorno alla terra. Il nuovo impatto provoca, fra l’altro, la rottura del cavo che manteneva Ryan legata a Matt. Per salvarla quest’ultimo capisce che deve sacrificarsi a sua volta e nonostante lei lo preghi di non farlo, Matt si lascia andare alla deriva, non prima di aver fornito alla sua compagna i suggerimenti e l’incoraggiamento per raggiungere da lì, con una navicella di supporto che si è salvata, una stazione russa. Ryan riesce con non poche difficoltà a raggiungerla ma anche questa è semidistrutta e non s’è salvato nessuno all’interno ed i detriti intanto tornano a distruggere gran parte di ciò che incontrano al loro passaggio. Allora con un’altra navicella di supporto ancora integra l’astronauta cerca di raggiungere un’altra stazione orbitante, in questo caso cinese. Ryan si trova a lottare contro gli eventi che sembrano volgere tutti a suo sfavore. Nel suo tentativo estremo di salvarsi Ryan si trova inoltre a fare i conti con le lingue russe e cinesi che trova nei manuali delle stazioni dentro le quali nessuno, a parte lei, è sopravvissuto.     

VALUTAZIONE: il film di Alfonso Cuarón racconta la storia immaginaria di un errore umano che provoca una catastrofe nello spazio, attraverso le emozioni vissute da un’unica astronauta. Fantascienza sì, ma forse anche una sorta di scenario neppure poi tanto campato per aria. Il finale, come molti altri momenti di quest’opera, è di grande impatto emotivo, scenico ed anche filosofico. Uscito in un formato 3D che i fortunati cui hanno potuto assistervi dicono fosse straordinariamente efficace e coinvolgente, ‘Gravity’ è una testimonianza di creatività in un genere nel quale si pensava che altri autori prestigiosi avessero già detto e fatto vedere il possibile per stupire lo spettatore. Invece, smuovendo le corde delle più intime paure dell’uomo, pur al cospetto di un ammaliante e meraviglioso spettacolo, come quello della terra vista dallo spazio, Cuaron ha realizzato un’opera notevole, che difficilmente lascia indifferenze anche lo spettatore più esigente ed allenato. 

Dopo aver visto ‘2001 odissea nello spazio‘ di Stanley Kubrick e ‘Interstellar‘ di Christopher Nolan (clicca sui titoli di diverso colore se vuoi leggere il mio commento ai film citati) si pensava che la fantascienza ambientata nello spazio avesse raggiunto vertici difficilmente superabili, ma anche solo avvicinabili dal punto di vista emotivo, filosofico e tecnico. Chi, come me, avesse avuto sinora questa sensazione, si sbagliava, innanzitutto dal punto di vista dello spettacolo scenico, ma anche da quello toccante ed appassionante degli eventi che mostra, nonostante quest’opera, a differenza delle altre due, dura non più di un’ora e mezza. Il cast oltretutto è costituito, nonostante le apparenze, da due soli interpreti, uno dei quali per giunta sparisce neanche a metà del film.

Gravity‘ diventa perciò una sorta di monologo che, anziché davanti ad una platea teatrale o in una stanza, si svolge negli abissi profondi dello spazio. È sorprendente l’opera di Alfonso Cuarón e si capisce come abbia convinto, una volta tanto a ragione, i votanti agli Oscar, ad assegnarle i seguenti premi: per la regia ad Alfonso Cuarón, per la fotografia ad Emmanuel Lubezki, per il montaggio ad Alfonso Cuarón e Mark Sanger, per gli effetti speciali a Tim Webber, Chris Lawrence, David Shirk, Neil Corbould e Nikki Penny, per il sonoro a Skip Lievsay, Christopher Benstead, Niv Adiri e Chris Munro, per il montaggio sonoro a Glenn Freemantle e per la colonna sonora a Steven Price. Cioè in pratica si è accaparrato tutti i premi tecnici che sono assegnati ad un film. Non ho gli elementi per dire se le altre opere in concorso nel 2014 fossero migliori di questa, nelle rispettive categorie, ma di certo questa di Cuarón colpisce per originalità e nel riuscire a far immedesimare lo spettatore alla scomoda prospettiva dell’unica protagonista. Detto per inciso, a breve sapremo se anche l’ultimo suo film, intitolato ‘Roma‘, farà incetta di Oscar anche quest’anno, essendo presente in molte categorie.

Gravity‘ ripropone alcune tematiche riconducibili alla storia di Robinson Crusoe o di ‘Cast Away‘ di Robert Zemeckis, per rimanere in ambito cinematografico, solo che al posto di Tom Hanks c’è Sandra Bullock ed invece che in un’isoletta deserta e sperduta del Pacifico che l’unico superstite di un aereo di linea precipitato in mare riesce a raggiungere, considerandosi per questo un miracolato (ma ritenendo con ciò, erroneamente, che il peggio fosse passato), l’ingegnere biomedico Ryan Stone, alla sua prima missione nello spazio, si viene a trovare in mezzo ad un disastro spaziale, stretta fra la bellezza mozzafiato della terra da una parte e l’abisso dell’universo profondo dall’altro.

E si passa perciò in breve tempo dall’estasi di un’esperienza che chiunque non sia particolarmente sedentario o pauroso di andare in direzione del cielo vorrebbe provare al posto suo, anche se prima o poi, dovremo comunque lasciare, che ci piaccia o no, il pianeta nel quale viviamo; alla concretizzazione improvvisa ed inaspettata della peggiore fra le eventualità che possono accedere a chi s’avventura nello spazio. Una situazione terrificante e claustrofobica, come ritrovarsi soli nel mezzo di un disastro provocato da un errore umano, di portata catastrofica, dato che per conseguenza la maggior parte dei satelliti e stazioni orbitanti vengono distrutte, con poche o nulle possibilità di salvarsi per tornare sulla ‘materna’ terra. 

Il ritmo è pressante e l’immedesimazione dello spettatore nei panni della sfortunata astronauta è così naturale e potente, che si fatica a credere dopo un po’ che si tratta soltanto di una finzione scenica girata in assenza di gravità appunto, dentro studi appositamente allestiti. Sandra Bullock si è sottoposta a circa sei mesi di addestramento per poter girare le scene di questo film e se si escludono, un breve momento dentro una delle stazioni spaziali distrutte dall’impatto con i detriti e la sequenza finale, l’attrice recita continuamente dentro una tuta spaziale e spesso indossando il casco dell’astronauta. Speciale attenzione è stata rivolta alla respirazione della protagonista, sottolineata non a caso più volte dal suo partner di metà film, un simpatico, autorevole e fatalista George Clooney…(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

I Miei Classici della Storia del Cinema: ‘Furore’ – 1940 (John Ford)

FURORE

Titolo Originale: The Grapes of Wrath

Nazione: USA

Anno: 1940

Genere: Drammatico

Durata: 129’ Regia: John Ford

Cast: Henry Fonda (Tom Joad), Jane Darwell (Mamma Joad), John Carradine (Casy), Charley Grapewin (Nonno Joad), Dorris Bowdon (Rose of Sharon Rivers), Russell Simpson (Papà Joad), O.Z. Whitehead (Al Joad), John Qualen (Muley Graves), Eddie Quillan (Connie Rivers), Zeffie Tilbury (Nonna Joad), Frank Sully (Noah Joad), Frank Darien (Zio John Joad), Darryl Hickman (Winfield Joad), Shirley Mills (Ruthie Joad), Roger Imhof (Thomas), Grant Mitchell (Custode), Charles D. Brown (Wilkie), John Arledge (Davis), Ward Bond (Poliziotto)

Questo film appartiene ad una mia personale categoria dei ‘Classici del Cinema’ nella quale, senza rispettare una vera e propria cronologia, proporrò alcuni dei titoli che ritengo più significativi o che mi hanno particolarmente colpito nel corso degli anni.

Quando si nomina John Ford immediatamente viene in mente l’associazione con alcuni dei western più famosi della storia del cinema, come ad esempio, ‘Ombre Rosse’, ‘Sentieri Selvaggi’ e ‘L’Uomo Che Uccise Liberty Valance’ (clicca sul titolo di diverso colore se vuoi leggere il mio commento al film). Anche in ragione di queste opere appena citate ma soprattutto di altre che le hanno precedute, il celebre regista americano, che ha diretto dal 1917 al 1966, è stato bollato a suo tempo come reazionario e rappresentante di una cultura di destra. Molti di questi detrattori ed accusatori forse non sapevano o avevano dimenticato che, girando ‘Furore’, John Ford aveva già smentito clamorosamente quelle illazioni.

Il romanzo dal quale il film è tratto è diventato un classico della letteratura americana, scritto da John Steinbeck soltanto un anno prima e che gli fruttò poi il Premio Nobel della Letteratura. Non l’ho ancora letto, quindi non posso fare un confronto specifico fra lo stesso e la sua trasposizione cinematografica, ma è sicuro che John Ford con ‘Furore’ (in originale ‘The Grapes Of Wrath’, cioè ‘I Frutti dell’Ira’, titolo la cui origine pare risalire addirittura al libro dell’Apocalisse di Giovanni del Nuovo Testamento), una parola che nella sua semplicità richiama un sentimento misto di rabbia e ribellione, ha realizzato un capolavoro ed ha spazzato in un sol botto tutte le accuse cui accennavo in precedenza.

Furore’ è la testimonianza ideale dell’insensibilità da parte di alcuni strati della società riguardo i problemi di sopravvivenza della povera gente, degli ultimi nella scala sociale, degli sbandati, dei migranti in cerca di un boccone di pane, a prezzo delle più brutali umiliazioni ed in alcuni casi della loro stessa sopravvivenza. Un dramma sociale provocato dalla cupidigia delle grandi lobby economiche e finanziarie, responsabili della ‘grande crisi del 1929‘ (e non di meno di quella più recente del 2008) che ha gettato sul lastrico milioni di famiglie in tutto il mondo ed anche in quel Midwest Americano che, in questo caso, è al centro della scena. Un’opera che nella sua dinamicità e rappresentazione è straordinariamente attuale, anche per le considerazioni che suscita riguardo i processi migratori che tanto dividono la nostra società al giorno d’oggi.

La ‘grande crisi del 1929‘ ha distrutto economicamente moltissime famiglie rurali e poiché i guai non vengono mai soli, oltre alla crisi finanziaria che ha impedito loro, o ridotto fortemente, la possibilità di vendere i prodotti della terra per mancanza di acquirenti, si sono ritrovate prive di risorse sufficienti persino a sfamare lo loro bocche, a causa delle sfavorevoli condizioni climatiche che si sono aggiunte alle altre, impoverendo miseramente i loro raccolti. Il risultato è stato che le banche proprietarie dei terreni, non ritenendo più remunerativa la mezzadria, hanno deciso di cacciare senza scrupoli i contadini e le loro famiglie, destinando i terreni ad altre attività. In una scena significativa, gli emissari inviati dalle banche a minacciare i coloni e poi a distruggere le loro baracche, costringendoli ad andarsene, se già non l’avevano fatto per conto loro, alla richiesta d’indicare il mandante, o dichiaravano di non conoscerlo affatto oppure che non intendevano rivelarne il nome, se si trattava di uno specifico direttore di banca che poteva metterci la faccia, essendo più semplice ed impersonale citare genericamente una serie di istituzioni, legate ad altre come in un domino senza apparente soluzione di continuità.

Tom Joad è appena uscito dal carcere dove ha scontato quattro anni, tre glieli hanno condonati, a seguito dell’omicidio di un uomo che aveva tentato di accoltellarlo nel corso di una rissa. Al suo ritorno, alla stregua di un cowboy che torna a casa dopo anni di vagabondaggio nel West, non trova più nulla di riconoscibile rispetto a quello che aveva lasciato. La sua famiglia, così come molte altre, gli dice Casey, un ex prete che incontra poco prima di giungere a destinazione, ha lasciato tutto e si è trasferita dallo zio di Tom (se non fosse che si tratta di una situazione drammatica, verrebbe quasi la tentazione d’ironizzare sul noto titolo di un romanzo a favore dell’abolizione della schiavitù come ‘La capanna dello zio Tom’ di Harriet Beecher Stowe, perché in fondo anche le case di questi contadini non sono poi molto di più che misere baracche). Quella che era un tempo una fiorente fattoria è diventata nel frattempo una terra arida nella quale bisogna persino nascondersi alla vista degli emissari della banca proprietaria dei campi, che pattugliano i territori e sparano a chiunque trovano nei paraggi…(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’) Continua a leggere…

Film: ‘American Pastoral’

AMERICAN PASTORAL

Titolo Originale: American Pastoral

Nazione: USA

Anno: 2016

Genere: Drammatico

Durata: 108’ Regia: Ewan McGregor

Cast: Ewan McGregor (Seymour ‘Lo Svedese’ Levov), Dakota Fanning (Merry Levov), Jennifer Connelly (Dawn Levov), David Strathairn (Nathan Zuckerman), Uzo Aduba (Vicky), Valorie Curry (Rita Cohen), Rupert Evans (Jerry Levov), Peter Riegert (Lou Levov), Molly Parker (Dott.ssa Sheila Smith), Hannah Nordberg (Merry Levov a 12 anni), Ocean James (Merry Levov a 8 anni), David Whalen (Bill Orcutt), Julia Silverman (Sylvia Levov), Corrie Danieley (Jesse Orcutt)

TRAMA: Nathan Zuckerman, uno scrittore oramai anziano, accetta di partecipare ad un ritrovo di ex studenti suoi coetanei del liceo di Weequathic a Newport, dove incontra Jerry Levov, suo amico di un tempo e fratello del grande Seymour Levov, detto ‘lo svedese’, in omaggio all’aspetto fisico ed alle origini della sua famiglia. Viene così a sapere che il giorno successivo si svolgerà il suo funerale. ‘Lo svedese’ era bravissimo in quasi tutti gli sport: dal basket, al baseball ed al football americano, ma al posto di una promettente carriera di atleta professionista aveva scelto di seguire invece le orme del padre, il quale aveva fondato un’azienda specializzata nella produzione di guanti in pelle. La figura di Seymour agli occhi di Nathan ha sempre raffigurato una sorta di ideale e la più felice realizzazione del sogno americano, ma ciò che viene ad apprendere da Jerry invece è la storia di un uomo che è stato certamente molto accorto e fortunato inizialmente ma che in seguito ha anche patito vicende familiari dolorose che lo hanno accompagnato e segnato profondamente sino alla fine dei suoi giorni. Sposato infatti con Dawn, una donna molto bella, eletta ‘miss’ New Jersey, hanno avuto una figlia, Merry, che però sin da piccola ha iniziato a tartagliare e secondo la psicologa alla quale si sono rivolti i genitori, per ragioni legate al confronto irrisolto con la madre. Da adolescente Merry ha abbracciato all’insaputa dei genitori alcuni movimenti contestatori della guerra in Vietnam ed in aspro contrasto con i principi della società americana. Si è in seguito radicalizzata, sino a fuggire di casa, ricercata con l’accusa di essere fra gli organizzatori di alcuni attentati dinamitardi che hanno provocato la morte di quattro persone. Mentre Dawn, dopo essere passata dal dolore alla depressione, infine s’è rassegnata ad aver perso la figlia, che è rimasta irreperibile, tornando a vivere normalmente ed anzi riprendendo a curare la sua persona sino a tornare bella come un tempo, ma anche a tradire il marito con un amico di famiglia; ‘lo svedese’ invece non si è mai rassegnato a non ritrovare Merry, ma quando infine ci è riuscito, la verità che ha scoperto è stata ancora peggiore di quella che poteva immaginare.  

VALUTAZIONE: liberamente tratta dal romanzo capolavoro di Philip Roth, la trasposizione di Ewan McGregor può incontrare facilmente due tipi di reazioni: chi non ha letto il romanzo, resterà probabilmente colpito dalle difficili tematiche che affronta e dall’ammirevole e coinvolgente ricostruzione della storia in forma di flashback. Chi invece ha letto ed amato il romanzo, altrettanto probabilmente considererà questo film una battaglia persa in partenza, perché irrimediabilmente limitativo per esprimere l’approfondita e dettagliata prosa del celebre scrittore recentemente scomparso, particolarmente complessa da tradurre, se non in minima misura, in un film di un paio d’ore. 

Sto leggendo proprio in questi giorni il romanzo omonimo di Philip Roth, contrariamente alle mie abitudini di leggere prima il libro e poi semmai vedere il film dal quale è stato tratto. Già nelle prime pagine si palesa una differenza narrativa sostanziale rispetto alla sceneggiatura di John Romano. Il quale ha modificato completamente la premessa facendo incontrare lo scrittore Nathan Zuckerman e Jerry Levov, suo coetaneo ed amico di un tempo oramai piuttosto lontano. Fra loro il dialogo devia subito sulla figura del fratello di quest’ultimo, il celeberrimo Seymour, detto ‘lo svedese‘, vera e propria icona del liceo di Weequathic a Newport, del quale Nathan viene a sapere che è appena deceduto ed i funerali si svolgeranno proprio il giorno seguente. Chiede perciò a Jerry il permesso di partecipare di persona, essendo stato ‘lo svedese‘ un mito giovanile per lui, un modello da considerare alla stregua di un semidio, prima d’iniziare a ripercorrere assieme a Jerry la storia della sua vita.    

Nel romanzo di Philip Roth invece Nathan incontra per caso un già anziano Seymour in compagnia del più giovane dei suoi tre figli (contrariamente al film, nel quale invece ha una sola figlia, Merry) all’ingresso dello stadio di New York dove si gioca una partita di baseball. Molto tempo dopo Nathan riceve una lettera da ‘lo svedese‘ che gli chiede di potergli raccontare la storia del padre, morto da poco e che lui non riesce a scrivere, volendo celebrare la sua figura con amici e conoscenti. Non so ancora quali e quante differenze ci siano poi fra il romanzo ed il film, ma di certo in entrambi al centro della storia c’è Seymour ‘lo svedese‘ Levov la cui vita attraversa varie fasi, delle quali Nathan Zuckerman, sino a quel momento conosceva solo la parte più felice ed elegiaca, mentre dietro le apparenze scopre invece una realtà ben più complessa, variegata e per nulla facile da gestire e sopportare per il suo eroe di un tempo.

Da questo momento abbandono il romanzo, per tornarci su magari quando l’avrò completato e mi limito a scrivere solo del film, interpretato e diretto da Ewan McGregor, esordiente alla regia, anche se proprio così alle prime armi non sembra proprio. Sono comunque già convinto, anche dopo aver letto soltanto una cinquantina di pagine del romanzo, di aver inteso le ragioni per le quali il film non ha riscosso l’assenso di gran parte di coloro che invece hanno letto per intero e amato l’opera di Philip Roth, ahimè recentemente scomparso. Già dopo qualche pagina infatti si ha un quadro talmente delineato e approfonditamente descritto dei personaggi coinvolti, del contesto nel quale si muovono fra innumerevoli considerazioni psicologiche e riflessioni sociologiche, che sarebbe impossibile per chiunque, non solo per un esordiente alla regia come Ewan McGregor trasporli con pari efficacia e profondità d’analisi in immagini.

L’immediatezza del cinema in un caso del genere si trasforma inevitabilmente in superficialità, in una lotta impari che è poi la forza stessa della letteratura. Solo Woody Allen, fra gli autori che io ricordo più da vicino, credo riesca in poche parole e battute a trasmettere almeno la sensazione di una descrizione d’ambiente che va persino oltre ciò che ha appena detto e/o mostrato. Ma Woody Allen scrive lui stesso le sue storie, mentre in questo caso si trattava di tradurre in film un romanzo che è considerato un capolavoro della letteratura contemporanea americana, non un racconto qualsiasi e nel quale, la prosa tipica di Philip Roth, scava profondamente nella storia e nei personaggi che racconta. Lo stesso Stanley Kubrick, se si esclude ‘Lolita‘ di Valdimir Nabokov (clicca sul titolo se vuoi leggere il mio commento al libro), preferiva confrontarsi nelle sue opere con scrittori meno prestigiosi di Philip Roth e romanzi certamente meno impegnativi per poi rappresentarli ben oltre i loro meriti, dopo averli spesso stravolti, nei suoi film.

Tutto ciò per arrivare a dire che personalmente ho trovato il film di Ewan McGregor una piacevolissima sorpresa, ma solo dietro un preciso distinguo. Depurato infatti dal fardello di rappresentare cotanto romanzo, proprio perché non l’ho ancora letto abbastanza a fondo da giustificare un confronto qualitativo, sfido chiunque si trovi nella mia stessa condizione, si badi bene, o non abbia affatto letto l’opera di Roth, a sostenere che il film non rasenta la perfezione ed è in grado di tenere incollato sulla poltrona chiunque, già dopo le prime sequenze. In fondo esordire alla regia con la trasposizione di un romanzo che molti autori ben più navigati hanno opportunamente scantonato, è indice di coraggio e forse anche di convinzione nei propri mezzi ed oltretutto dimostra personalità, che non è una dote proprio da buttare via…(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)   Continua a leggere…

I Miei Classici della Storia del Cinema: ‘La Corazzata Potëmkin’ – 1925 (Sergej Michajlovič Ėjzenštejn)

LA CORAZZATA POTEMKIN

Titolo Originale: Бронено́сец «Потёмкин»

Nazione: URSS

Anno: 1925

Genere: Drammatico, Guerra

Durata: 75’ Regia: Sergej Michajlovič Ėjzenštejn

Cast: Vladimir Barskij (Capitano Golikov), Aleksandr Antonov (Grigorij Vakulinčuk), Grigorij Aleksandrov (Comandante Giljarovskij), Konstantin Feldman (Studente Sovversivo), Beatrice Vitoldi (Donna con la Carrozzina), Julia Ėjzenštejn (Donna col Cibo per i Marinai), Sergej Michajlovič Ėjzenštejn (Cittadino di Odessa)

Questo film appartiene ad una mia personale categoria dei ‘Classici del Cinema’ nella quale, senza rispettare una vera e propria cronologia, proporrò alcuni dei titoli che ritengo più significativi o che mi hanno particolarmente colpito nel corso degli anni.

Oh, mamma mia… immagino possa essere il commento di qualche lettore! Ma davvero chi scrive pensa di poter convincere qualcuno nel 2019 a rivedere o magari vedere per la prima volta un film come ‘La corazzata Potëmkin‘? Proprio quello che è considerato un’icona della preistoria del cinema, ma anche il prototipo di uno spettacolo insopportabilmente pesante e quindi da scantonare assolutamente?

Ad affermare una volta per tutte ciò che molti hanno sempre pensato riguardo il film di Ėjzenštejn, ma mai osato esprimere pubblicamente, ci è riuscito, per assurdo, il ragionier Fantozzi (Paolo Villaggio), con la sua famosa frase. Costretto infatti dall’azienda dov’era impiegato ad assistere a questo ‘polpettone’ assieme ai suoi colleghi nel corso di un Cineforum, come se fosse un’amara medicina da inghiottire, nel corso dell’ancora più noiosa discussione che è seguita alla visione, con un coraggio a lui sconosciuto in precedenza, Fantozzi si è alzato e con un moto liberatorio e di ribellione, ha gridato: ‘…la Corazzata Kokotkin è una boiata pazzesca!…’, suscitando il giubilo fra i suoi colleghi. Da notare che la distorsione del nome in Kokotkin invece che Potëmkin, non era dovuta all’ignoranza del povero ragioniere, ma perché la casa di distribuzione che deteneva i diritti del film di Ėjzenštejn non concesse al regista Luciano Salce la menzione del titolo in senso dissacratorio.

Casualmente mi sono ritrovato recentemente di fronte a quest’opera che io stesso forse, ma non sono neppure sicuro, avevo visto ‘qualche’ anno fa in un Cineforum, al quale nessuno mi aveva costretto a partecipare, sia chiaro, ma francamente a parte qualche sequenza che è passata alla storia, ricordavo poco altro. Ebbene, concludo la premessa dicendo che nonostante tutto La corazzata Potëmkin mi ha piacevolmente sorpreso e beninteso non è alcun istinto masochistico a guidarmi in questo giudizio. Sarà perché a volte è lo spirito o il contesto nel quale si assiste ad un film, specie di questo genere, di certo indigesto allo spettatore ‘mordi e fuggi’ del cinema, a dare la possibilità di esprimere un più sereno ed obiettivo parere, fosse soltanto di natura storica, ma come vedremo anche dal punto di vista della tecnica di ripresa, per chi come me fosse interessato anche a tali aspetti, una volta tanto quindi senza farsi condizionare dalla prevenzione, c’è parecchio da sottolineare.

Al termine della visione, che dura poco più di un’ora e perciò è sopportabilissima nella sua lunghezza, anche se si tratta di un film muto, in bianco e nero, girato quasi cento anni fa e con i mezzi ancora limitati di quell’epoca quasi ancora sperimentale del cinema, scorrendo la ‘Lista dei Film‘ dei quali ho pubblicato la mia personalissima recensione in questo blog, mi sono reso conto che non sono molti i titoli che vi appaiono e che si possono considerare a tutto diritto appartenenti alla storia del cinema, ovvero i cosiddetti ‘Classici‘ nei vari generi di appartenenza. Ho quindi deciso di rimediare, dedicando ad alcuni di loro una sezione apposita, senza stravolgere lo stile di questo blog che ha così bene funzionato sinora, semmai cercando di arricchirlo ulteriormente, senza pretendere di scoprire chissà che, oltre quello che innumerevoli critici ed esperti di cinema hanno già scritto a proposito di tali opere.

La corazzata Potëmkin‘ è senz’altro uno dei film più famosi della storia del cinema ed anche uno dei più citati dagli artisti, non solo del cinema, di tutto il mondo, ma anche, com’è evidente da quanto scrivevo in precedenza, anche uno dei più menzionati dai detrattori dello stesso cinema come forma d’arte, perché considerato un esempio di pomposità e propaganda, quindi oggetto di ironie di vario tipo, più o meno dissacranti. La versione che propongo qui sopra è reperibile su Youtube e la si può vedere quindi anche stando seduti davanti al proprio PC. Il formato della pellicola e la qualità delle immagini, alla soglia dei quasi cento anni dall’uscita, non richiedono per forza di cose un grande schermo. I sottotitoli, che traducono le didascalie originali, comunque non molto frequenti durante lo svolgimento della trama, che è già per suo conto facilmente comprensibile, purtroppo sono in lingua inglese. Comunque, anche per chi ha una conoscenza davvero limitata o nulla di questa lingua, non è così disagevole intenderne il significato. Altrimenti è reperibile in Internet, presso altri fornitori, una versione di questo film con i sottotitoli in italiano, se proprio non si volesse ‘esagerare’ acquistandone una copia su DVD.

Sergej Michajlovič Ėjzenštejn girò La corazzata Potëmkin nel 1925, cioè l’anno dopo il suo primo lungometraggio, Sciopero‘, che ne aveva messo in risalto le qualità di regista, nonostante la giovane età (26 anni). In URSS nel frattempo è già avvenuta la ‘Rivoluzione d’Ottobre‘ che ha abbattuto lo Zar e la sua classe dirigente; il governo popolare, presieduto da Lenin ha da poco costituito l’Unione Sovietica ed ha già inteso la forza propagandistica che un mezzo come il cinema può esprimere sulle masse e la possibilità di far arrivare il suo ‘messaggio’ anche al di fuori delle grandi città, nel vasto territorio dello stato, in un’epoca nella quale i media ovviamente sono ben lungi dalle possibilità di comunicazione odierne. E’ il Comitato dell’URSS a commissionare a Ėjzenštejn, in occasione del ventesimo anniversario della rivolta del 1905, la realizzazione di un film che esalti la rivoluzione, ma il regista ben presto si rende conto che la vastità del tema richiederebbe molto più tempo di quello che ha a disposizione ed allora propone di raccontare un singolo episodio, come espressione del più ampio contesto globale, e vale a dire l’ammutinamento dei marinai della corazzata Potëmkin, che si è verificato al largo di Odessa, nell’odierna Ucraina, suscitando una rivolta popolare che si è poi estesa a tutta la città. E riesce a convincere il Comitato(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

Film: ‘Eyes Wide Shut’

EYES WIDE SHUT

Titolo Originale: Eyes Wide Shut

Nazione: Regno Unito, USA

Anno: 1999

Genere: Drammatico, Psicologico

Durata: 159’ Regia: Stanley Kubrick

Cast: Tom Cruise (Dr. William Harford), Nicole Kidman (Alice Harford), Sydney Pollack (Victor Ziegler), Todd Field (Nick Nightingale), Sky Dumont (Sandor Szavost), Louise J. Taylor (Gayle), Stewart Thorndike (Nuala), Marie Richardson (Marion), Rade Šerbedžija (Milich), Julienne Davis (Amanda ‘Mandy’ Curran), Abigail Good (Donna Misteriosa), Vinessa Shaw (Domino), Madison Eginton (Helena Harford), Thomas Gibson (Carl), Leslie Lowe (Illona Ziegler), Jackie Sawiris (Roz), Fay Masterson (Sally), Leelee Sobieski (Figlia di Milich), Alan Cumming (Portiere dell’Albergo), Leon Vitali (Ierofante Rosso), Emilio D’Alessandro (Edicolante)

TRAMA: William/Bill e Alice Harford vivono in una bella casa a Manhattan ed hanno una figlia giovanissima. Bill è un medico e Alice fa la casalinga annoiata da quando la galleria d’arte dove lavorava è fallita. Il loro tenore di vita comunque è alto ed alcuni pazienti di Bill sono personaggi altolocati, come il milionario Victor Ziegler ad esempio. Bill e Alice sono una bellissima coppia, ma fra loro parlano poco e non c’è più la passione di un tempo. Nel corso di un invito ad un party pre-natalizio, Alice beve un po’ troppo e si lascia adulare da un ‘tombeur de femme’ alla ricerca di facili avventure ma si sottrae prima di cedere ai suoi insistiti tentativi di seduzione. Bill a sua volta ha appena incontrato Nick, un suo vecchio compagno di università, che suona il piano nella band che allieta gli invitati e poi si fa lusingare da due giovani donne, ma poco prima che riescano a convincerlo a seguirle, un inviato di Victor gli chiede di raggiungerlo urgentemente al piano superiore. Dentro un bagno Victor è in compagnia di una giovane donna, completamente nuda, con la quale ha appena avuto un rapporto sessuale e che giace priva di sensi sotto l’effetto di droga e alcool. Bill l’aiuta a riprendersi e prima di andarsene garantisce all’amico la sua discrezione sull’incidente. Il giorno dopo, sdraiati sul letto, Bill e Alice stanno fumando una sigaretta di marijuana e saranno gli effetti della stessa oppure l’intrigante serata precedente che ha lasciato in lei qualche strascico a spingerla ad iniziare una discussione che diventa sempre più accesa sino al punto di rivelare di aver provato, durante una vacanza, il forte desiderio, comunque non portato a compimento, di avere un rapporto sessuale con un giovane ufficiale di Marina che non aveva mai visto prima, per il quale però non avrebbe esitato a mandare all’aria il loro matrimonio. Bill è basito, non ritiene di essere un marito disposto a tradire la moglie ma non reagisce, anche perché riceve una telefonata dalla casa di un altro suo benestante paziente con la richiesta di accorrere immediatamente. La figlia di quest’ultimo, Marion, ha avuto l’amara sorpresa di trovare il padre che era gravemente malato, già cadavere, passato dal sonno alla morte, ma pur fortemente scossa, bacia inaspettatamente Bill sulla bocca, che si ritrae sorpreso, dichiarandosi innamorata di lui da tempo, nonostante sia in procinto di essere raggiunta dal suo fidanzato. Appena giunto quest’ultimo, il medico imbarazzato coglie l’opportunità per andarsene, ma sceglie di vagare un po’ per strada ripensando gli avvenimenti appena trascorsi. Ad un incrocio lo raggiunge una prostituta di bell’aspetto e lo invita a seguirlo a casa sua, lì a pochi passi. Bill accetta, evidentemente intrigato e fuori di sé, ma quando ha già concordato la cifra e sta per lasciarsi andare, riceve una telefonata di Alice ed a quel punto riflette e decide di rinunciare. Lungo la strada passa davanti ad un locale dove vede esposto nella locandina il nome e la foto di Nick, il suo amico musicista ed entra proprio mentre la band sta per terminare l’esibizione. Nick lo raggiunge al tavolo, ma subito dopo riceve una strana telefonata e scrive la parola ‘fidelio’ su un tovagliolo. Imbarazzato, spiega a Bill che spesso viene chiamato da quella persona con un preavviso soltanto di un’ora, per andare a suonare bendato in una grande villa fuori città, dove gli invitati sono tutti mascherati e fra loro ci sono tante belle donne nude. Bill, incuriosito ed in vena di avventure, essendo già a conoscenza della parola d’ordine, riesce a convincere Nick a rivelargli anche l’indirizzo e sgravandolo al tempo stesso da ogni responsabilità. Nonostante l’ora tarda, si reca poi in un negozio che affitta costumi dove trova un maneggione che proviene dall’est Europa, che convince a servirlo grazie ad una generosa mancia. Entrando nel negozio il proprietario scopre la figlia adolescente in compagnia di due loschi figuri che tratta in malo modo. Bill ne esce dopo aver noleggiato uno smoking, un mantello e una maschera e si fa condurre da un taxi sino alla villa fuori città dove riesce ad entrare grazie alla parola d’ordine. Dentro si sta svolgendo un rituale con una sorta di sacerdote vestito di rosso che è circondato da alcune giovani donne le quali, a comando, si svestono dell’unico indumento che indossavano e subito dopo scelgono un partner fra i molti presenti, tutti mascherati, mentre Nicki bendato al pianoforte sta eseguendo una inquietante base musicale. Bill, pur mascherato a sua volta, viene però notato da una coppia sul loggione ed una delle giovani donne nude lo sceglie e mentre lo accompagna, lo avvisa di essere in pericolo e gli intima di andarsene al più presto, poi però viene condotta via da un altro personaggio. Proseguendo il percorso da solo, in altre stanze Bill si trova al cospetto di numerose orge, prima di essere raggiunto ed invitato da un altro uomo mascherato a tornare nella prima sala, nella quale l’officiante vestito di rosso, seduto su uno scranno e numerosi presenti mascherati intorno a lui, lo stanno aspettando per interrogarlo ed obbligarlo a togliere la maschera. Quando però gli viene chiesto anche di spogliarsi, la giovane donna che aveva cercato di avvisarlo poco prima, interviene e si offre di essere punita al posto suo. Il sacerdote accetta lo scambio e lascia andare Bill che torna a casa sconvolto e preoccupato per la sorte della sua salvatrice. In camera trova Alice in preda ad un incubo ed una volta sveglia gli racconta una scena non dissimile a quella che Bill ha appena vissuto nella quale lei si offriva a numerosi uomini. Bill, sempre più turbato e spaventato, dopo essere tornato al negozio ed aver riconsegnato gli abiti noleggiati, senza la maschera che sembra aver smarrito, scopre che il maneggione dell’est in realtà offre la giovane figlia, che non sembra peraltro del tutto a posto con la testa, ai suoi clienti. Quindi esce disgustato e deciso ad indagare per suo conto, annullando alcuni appuntamenti nello studio medico. Così scopre che Nicki è stato prelevato dal suo hotel all’alba ed è sparito ma anche di essere seguito da una persona. Seduto al tavolo di un bar dov’è entrato per sfuggire al suo pedinatore, legge in un giornale che una prostituta è stata trovata priva di vita, probabilmente drogata. Si reca così all’obitorio e grazie alla tessera di medico riesce a vedere il cadavere nel quale riconosce la giovane donna che aveva salvato a casa di Victor e che è certo sia anche quella che si è sacrificata per lui nella villa. La stessa sera viene invitato da Victor a casa sua e viene così a sapere che l’uomo che lo seguiva è stato ingaggiato da lui, che anche lui era presente alla villa e quindi lo invita a desistere dall’indagare ulteriormente per evitare pericoli per sé e la sua famiglia, essendo coinvolti numerosi personaggi molto potenti. Cerca anche di rassicurarlo riguardo la sorte di Nicki e addebita la morte della giovane donna ad una overdose, data la sua dipendenza da droghe ed alcol. Cerca di rassicurarlo infine riguardo le minacce che aveva subito alla villa, sostenendo che era tutta una messinscena per spaventarlo. Tornato a casa, Bill trova la moglie che dorme serenamente ma sul suo cuscino c’è la maschera smarrita. La tensione accumulata esplode in un pianto liberatorio di Bill che sveglia Alice, alla quale allora racconta tutto. Alcuni giorni dopo la coppia accompagna la figlia a fare shopping natalizio e dentro un negozio Alice spiega al marito come sia stato liberatorio per entrambi confidarsi i sogni e gli eventi vissuti e quanto sia importante che al più presto riprendano a ‘scopare’.   

VALUTAZIONE: un film di Kubrick è sempre un evento che dietro le apparenze più immediate contiene livelli di lettura che il singolo spettatore può più o meno recepire ed accettare in base alla sua sensibilità, interessi e cultura, anche cinematografica. ‘Eyes Wide Shut’ è affascinante, elegante, conturbante, intrigante, suggestivo ed ambiguo. E’ un cinema per buongustai che gli habitué dei blockbuster e quelli che prediligono l’atteggiamento passivo al cinema difficilmente possono apprezzare. Kubrick è stato un regista geniale e carismatico, anche se questo suo ultimo film per alcuni è soltanto uno sterile esercizio di stile. Come spesso accade per gli artisti di talento, provocatori ed innovativi, inevitabilmente controversi, anche quest’opera è stata rivalutata nel tempo rispetto alle perplessità generate, anche in alcuni critici, al momento della sua uscita.

Il titolo ‘Eyes Wide Shut‘ è un ossimoro. La traduzione, non strettamente letterale, porta infatti a qualcosa come ‘Occhi Aperti Chiusi‘. Cioè un’espressione che stride al solo pronunciarla, che suona indecifrabile ed appare inevitabilmente ambigua ed oscura. Di fronte ad essa si può quindi reagire in due maniere: la prima è considerarla alla stregua di uno slogan che suona bene soltanto a pronunciarlo nella lingua originale, senza porsi quindi alcun altro interrogativo sul suo significato intrinseco. La seconda invece è quella di lasciarsi guidare dalla curiosità di scoprire cosa lega quelle tre parole ed in tal caso si può cercare qualche sbrigativa informazione su Internet; oppure lasciare da parte ogni ulteriore indugio ed immergersi nella visione di questo film. In ogni caso, comunque, allo spettatore medio è probabile che qualche dubbio gli rimarrà lo stesso in sospeso, anche dopo. 

Sicuramente il significato del titolo non è univoco. Lo si può considerare, tanto per dirne una fra le possibili alternative, una sorta di esortazione ad aprire gli occhi, troppo spesso lasciati opportunamente chiusi di fronte a determinati eventi e situazioni. Ad esempio nei confronti di chi gestisce il potere con arroganza e l’inganno, qui rappresentati da una serie di personaggi equivoci, addirittura innominabili dice un personaggio, che nascondono la loro identità, più o meno metaforicamente, dietro maschere e costumi, non fidandosi evidentemente nemmeno reciprocamente fra di loro. Il che è pericoloso perché si tratta di figure altolocate della società, che si presentano pubblicamente vantando doti di grande responsabilità, equilibrio ed affidabilità, trasmettendo quindi un’immagine di fiducia al di sopra di ogni sospetto, ma in realtà circuendo l’ignaro cittadino al fine di ottenere il placet per conquistare il potere e poi fare gli affari loro.

Esse agiscono, afferma quindi Kubrick nel suo film, per perseguire sordidi obiettivi personali ed a favore di un limitato numero di persone con le quali hanno dato vita ad una sorta di setta, sconosciuta a tutti tranne che ai pochi appartenenti e complici, la quale opera subdolamente al di fuori delle regole etiche e comportamentali. Un’élite governata con fermezza, arroganza e spietatezza, per continuare a godere impunemente i propri benefici e vizi, evitando accuratamente qualsiasi collegamento o intrusione da parte di chi potrebbe minarne l’esistenza o rivelarne, anche solo casualmente, la natura. Una casta dalla quale quindi non si può più uscire, una volta entrati. Ma cosa succede a chi dovesse venirne accidentalmente a conoscenza e riuscisse ad accedervi anche solo per mera curiosità, senza rendersi conto del rischio che ciò comporta? 

William (Bill) Harford, medico di successo, rispettabile e pacifico padre di famiglia, riesce appunto ad entrarci con destrezza, usando un termine associato di solito al furto per sottolinearne la specifica natura, ma che nel suo caso è invece il risultato, qualcuno lo definirebbe anche la bravata conclusiva, di una serata molto particolare, dagli sviluppi sconcertanti. Le dinamiche della quale lo hanno portato a cercare di soddisfare un’improvviso bisogno di fuga dall’ordinario e provare l’emozione adrenalinica della trasgressione, salvo scoprire, quando però è già troppo tardi, che non si è infilato in un semplice gioco di società, ma che sta rischiando persino la pelle.

Bill infatti mai si sarebbe aspettato di scoprire che esiste un mondo parallelo, a lui totalmente sconosciuto sino a quel momento, gestito da insospettabili persone, alcune delle quali verrà a sapere in seguito che sono persino a lui molto vicine, anche se è tutt’altro che facile riconoscerne l’identità e la posizione sociale, visto che sono tutte mascherate in quell’ambiente, così che è complicato e sicuramente sospetto comprendere se agiscono in nome del bene o del male. O peggio ancora, se sono solite a passare con disinvoltura dall’uno all’altro, a seconda delle circostanze e della convenienza. Un tema tanto caro quindi a Kubrick, quello della doppiezza comportamentale, d’animo e di ruolo, insita nella maggior parte degli uomini e quindi, in senso più ampio, anche in quelli che governano e gestiscono il potere, da lui medesimo sviluppato egregiamente ad esempio in ‘Arancia Meccanica‘ (clicca sul titolo di diverso colore se vuoi leggere la mia recensione di questo film). 

Ma c’è anche almeno un altro livello di lettura di questo film, scendendo dal generale della società al particolare di una singola coppia ed è quello rappresentato dai rapporti che nel corso del tempo possono portare marito e moglie, dall’iniziale passione, simbiosi e sincerità ad un atteggiamento di fredda cortesia ed ambiguità di convenienza (‘…sa qual è il vero fascino del matrimonio? È che rende l’inganno una necessità per le due parti…‘ dice uno che sembra intendersene al riguardo). Una coppia, quella costituita da Bill (Tom Cruise) e Alice (Nicole Kidman) che, vista dal di fuori, appare felice ed invidiabile mentre al suo interno sta vivendo una condizione di disagio e sofferenza in corso di accumulo, provocati forse dalla routine o dallo scemare progressivo dell’entusiasmo e poi dalla mancanza di dialogo. La coppia, com’è generalmente noto, è un caposaldo ed un pilastro della nostra società e cultura, legittimata civilmente di fronte a testimoni e spesso persino santificata davanti a Dio.

Come credo si sia già intuito, arrivati sin qui, sono molteplici perciò i piani di lettura che emergono in quest’opera, di natura intima, psicologica e sociologica ma nonostante ciò nulla impedisce allo spettatore meno disposto a scendere negli ambiti più profondi dei medesimi, di rimanere anche soltanto al livello più immediato e superficiale dello sviluppo della crisi che improvvisamente esplode nel rapporto fra Alice e Bill, in un contesto la cui evoluzione però porta il secondo ad invischiarsi in una vicenda dai connotati inquietanti, non solo per lui e la sua famiglia, ma dai risvolti persino misteriosi…(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)  Continua a leggere…

Film: ‘Café Society’

CAFE’ SOCIETY

Titolo Originale: Café Society

Nazione: USA

Anno: 2016

Genere: Commedia, Sentimentale

Durata: 96’ Regia: Woody Allen

Cast: Jesse Eisenberg (Bobby Dorfman), Kristen Stewart (Vonnie Sybil), Steve Carell (Phil Stern), Blake Lively (Veronica Hayes), Parker Posey (Rad Taylor), Jeannie Berlin (Rose Dorfman), Stephen Kunken (Leonard), Sari Lennick (Evelyn Dorfman), Ken Stott (Marty Dorfman), Corey Stoll (Ben Dorfman), Anna Camp (Candy), Paul Schneider (Steve), Sheryl Lee (Karen Stern), Tony Sirico (Vito), Max Adler (Walt), Don Stark (Sol), Gregg Binkley (Mike), Steve Rosen (Louis), Craig Walker (Moe), Anthony DiMaria (Howard Fox), Saul Stein (Danny), Penelope Bailey (Sig.ra Diamondstein), Lev Gorn (Eddie Diamondstein), Eric Rizk (Frank)

TRAMA: Bobby Dorfman è il figlio minore di una famiglia ebrea che vive a New York. Suo fratello Ben è un gangster che si è fatto strada senza farsi tanti scrupoli ed è diventato proprietario di un locale notturno. Bobby ha deciso di cercare fortuna nella west coast, attirato dalle prospettive di Hollywood dove suo zio Phil è diventato l’agente di molte star del cinema. Phil ha un lussuoso ufficio e possiede una splendida villa dove vive con la moglie e ospita tutto il meglio del jetset. Un telefonata della sorella Rose anticipa l’arrivo di Bobby, che è un ragazzo a modo, educato, sensibile e voglioso di mettersi alla prova. Lo zio lo accoglie però come un peso e lo affida alla segretaria Vonnie affinché lo introduca nell’ambiente ed intanto gli affida lo sbrigativo ruolo di fattorino. Bobby è rimasto incantata da Vonnie sin dal primo momento in cui gli è apparsa di fronte ed attende con impazienza l’arrivo del weekend per poterla rivedere. Non immagina ancora però che lei è l’amante di Phil. Siccome quest’ultimo è spesso in viaggio di lavoro, Vonnie e Bobby passano molto tempo assieme, non solo durante il fine settimana. A Bobby sembra di non aver mai incontrato una ragazza come Vonnie: bella, dolce, umile, simpatica e sensibile ed anche lei si trova molto a suo agio con lui, ma si nega quando Bobby tenta un approccio dicendogli genericamente che è già fidanzata con un giornalista. Phil ha promesso a Vonnie di lasciare la moglie ma poi non trova mai il coraggio di mettere in pratica il proposito. Nel frattempo Bobby ha guadagnato in stima, ha conosciuto alcuni personaggi che contano nell’ambiente del cinema e Phil lo ha promosso a leggere sceneggiature. Per festeggiare, propone a Vonnie una cena in un bel ristorante ma lei si offre di cucinare nella casa di lui. Bobby ha accettato ed imbandito la tavola a lume di candela quando riceve la telefonata di lei che si scusa di non poter mantenere l’impegno. In realtà Phil è tornato prima del tempo e l’ha invitata in un ristorante dove lei gli dona una lettera d’amore che aveva scritto Valentino, ma lui imbarazzato e addolorato, le confessa che ha deciso di lasciarla. Vonnie allora torna da Bobby in lacrime, raccontandogli di essere stata appena lasciata dal suo fidanzato e lui la consola, ma la notizia ovviamente non gli ha fatto granché dispiacere. Il loro rapporto ben presto s’intensifica ed infine Vonnie accetta la corte di Phil e quando lui le confida di essere rimasto deluso dell’attività che svolge a Hollywood e di rimpiangere la più semplice e pratica città di New York, proponendole di sposarlo ed andare a vivere con lui al Greenwich Village, dove si trovano tanti poeti ed artisti, lei sembra propensa ad accettare. Phil però ha infine deciso di lasciare la moglie e si confida con Bobby. Durante il colloquio capisce a sua volta che è Vonnie la donna con la quale Bobby sta progettando di tornare a New York. Nell’ufficio di Phil poco dopo Bobby scopre in bella mostra la lettera di Valentino ed allora anche lui capisce l’imbarazzante triangolo amoroso nel quale si trovano. Vonnie ora lavora al servizio accoglienza di un locale e quando Bobby la raggiunge e le chiede spiegazioni, lei gli rivela di aver deciso di sposare Phil. Bobby allora torna a New York da solo e accetta di lavorare nel locale del fratello Ben, che è diventato nel frattempo un punto di riferimento dei personaggi più in vista della città. Bobby se la cava molto bene nel nuovo ruolo d’intrattenitore ai tavoli e nel frattempo si è sposato con Veronica, che ha conosciuto proprio lì una sera e dalla loro unione è nata una bambina. Un giorno si presentano nel locale Phil e Vonnie, assieme ad una coppia di amici e Bobby, che non l’ha mai dimenticata, imbarazzato e per una volta stranamente poco loquace, nota come è cambiata nel frattempo negli atteggiamenti, che sono diventati snob come quelli che una volta lei stessa criticava. Vonnie però trova l’occasione per rivederlo separatamente dagli altri e lo invita a passare un pomeriggio assieme, dato che Phil ha intenzione di fermarsi a New York qualche giorno ed è sempre pieno d’impegni. Gli incontri fra loro si ripetono anche nei giorni successivi, come se fossero tornati indietro nel tempo e nonostante siano entrambi felicemente coniugati e le scelte di un tempo li abbiano portati a vivere vite separate, ammettono a vicenda di non aver mai smesso di pensare l’una all’altro. Ben, nel frattempo, è finito sulla sedia elettrica perché i suoi crimini sono stati scoperti. Ma fra Vonnie e Bobby la storia è davvero finita?  

VALUTAZIONE: nonostante abbia superato gli ottant’anni, Woody Allen non ha perso la voglia di fare cinema di qualità. In quest’opera sono riassunte tutte o quasi, come in un riepilogativo della sua carriera autoriale, le doti che lo contraddistinguono: la contrapposizione fra gli anni ruggenti di Hollywood e le atmosfere compassate di New York, i dialoghi brillanti, le battute fulminanti e l’ironia delle situazioni, l’eleganza formale delle scenografie e della fotografia, le immancabili note della musica jazz e la capacità di saper scegliere ogni volta gli interpreti ideali. Una garanzia insomma, con Kristen Stewart che entra di diritto nel novero dei personaggi che fanno innamorare, non solo il partner nella finzione scenica, ma anche lo spettatore. Un’opera godibilissima ed un’altra prova di gran classe da parte di un maestro della settima arte.

 ‘Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo e un giorno ci azzeccherai…  

Dopo quasi cinquanta film da lui diretti in altrettanti anni circa, Woody Allen alla veneranda età di ottantatré primavere sembra ancora un giovanotto, perlomeno dal punto di vista autoriale e deve aver fatta sua la frase riportata qui sopra (ambiguità inclusa rispetto al banale significato letterale della stessa: ci avrà azzeccato il destinatario quando arriverà, ed è inevitabile, l’ultimo giorno? Oppure ci azzeccherà – a raggiungere i suoi obiettivi – lavorando ogni giorno come se fosse l’ultimo?), che Rose Dorfman (interpretata da Jeannie Berlin) scrive al figlio Bobby. Non solo, imperterrito, l’attore/regista newyorchese dirige ancora un film all’anno, ma non mostra neppure il minimo cedimento e continua a sfornare opere di ammirevole gusto estetico e di gradevole impianto narrativo. ‘Café Society‘ ne è il terzultimo esempio e sulle diverse interpretazioni degli eventi che si susseguono ha fissato il senso stesso della sua opera.

Il film ha inaugurato il Festival di Cannes del 2016 ed è il primo girato in digitale da Woody Allen. Inizia alla stregua di un romanzo: ‘C’era una volta…‘ e la voce fuori campo del narratore che presenta alcuni dei personaggi e l’ambientazione. Il mondo dorato di Los Angeles, abbinato a quello spesso frivolo del cinema Hollywoodiano, messo a confronto della più seriosa e compassata New York degli anni ruggenti post crisi del 1929 e che fanno da cornice ad una vicenda che contiene, come una sorta di riassunto autoriale, molti dei connotati tipici del cinema di Woody Allen e che ce lo hanno fatto apprezzare nel corso della sua lunga carriera. Che pure ha visto varie fasi, anche abbastanza lunghe e parecchio distanti fra loro, dal punto di vista stilistico, umorale e dei contenuti.

Basta scorrere velocemente la sua filmografia per rendersi conto del divario che corre, di genere e dal punto di vista dei toni fra opere come ‘Prendi i Soldi e Scappa‘, ‘Io e Annie‘, ‘Interiors‘, ‘Manhattan‘, ‘La Rosa Purpurea del Cairo‘, ‘Alice‘, ‘Accordi e Disaccordi‘, ‘Match Point‘ e ‘Midnight in Paris‘ (clicca sui titoli di diverso colore se vuoi leggere il mio commento al film relativo) e persino quella in oggetto, con l’attore/regista capace di svariare dal comico, alla satira; dalla commedia, al dramma; dallo psicologico/cerebrale, al giallo/thriller, senza però mai eccedere in posizioni troppo esagerate e pretenziose. Sempre però fedele ad una costante, ovvero la battuta fulminante, che riesce a sintetizzare, in una o poche parole, pensieri e considerazioni anche molto profonde, oppure a cogliere con ironia alcune contraddizioni sociali e caratteriali, nelle quali prevale di volta in volta la nota amarognola, quella beffarda, quella geniale, senza però mai scendere sul piano del volgare oppure dell’esasperazione ideologica.

Un’altra inconfondibile caratteristica del cinema di Woody Allen è quella di saper cogliere il lato satirico di eventi e situazioni che nei fatti sono invece di solito molto seri, di origine sociologica o religiosa, o peggio ancora addirittura drammatici, non esclusi persino quelli di natura criminale. Mi riferisco, ad esempio e nel caso dell’opera in oggetto, a come il regista newyorchese riesca con ammirevole sintesi tragicomica, a rappresentare, senza mai sottovalutarne, o peggio ancora sminuirne, gli aspetti più deteriori, i tratti caratteriali di Ben, il fratello maggiore del protagonista Bobby ed i momenti più sanguinosi contenuti nella trama che riguardano almeno due omicidi a sangue freddo ed altrettanti assassinii che si concludono con la sparizione dei cadaveri sotto una colata di asfalto del manto di una strada in costruzione.

Bobby e Ben rappresentano, fra l’altro, due estremi caratteriali all’interno della stessa famiglia di origine ebrea, che però non si scontrano mai fra loro, quasi fossero in fondo complementari l’uno all’altro. Di certo Bobby, che è un giovane onesto e di belle speranze, sensibile e dolce, con lo sguardo da ‘cervo abbagliato dai fari…‘, come gli sussurra ad un certo punto e con il sorriso sulle labbra la bella Vonnie, non è così ingenuo da ignorare che genere di attività svolge il fratello ed in che modo sia riuscito a diventare proprietario di un locale che presumibilmente ha richiesto l’investimento di tanti bei bigliettoni verdi, come spesso vengono definiti nel gergo i dollari.

Anche la madre Rose, qualche dubbio ce l’ha eccome sulle attività del figlio, ma quando Ben le regala millecinquecento dollari, quasi si trattasse di pochi spiccioli e spillandoli quasi distrattamente dal robusto mazzo di banconote che tiene in tasca, perché lei e il marito vadano a trascorrere una vacanza in Florida, lei fedele al motto che ‘…ci sono domande di cui non vuoi sapere la risposta…‘, le bastano due parole di rassicurazione del figlio perché non li rifiuti affatto, facendo finta di credere che siano il prodotto di un’attività lecita. Convivono spesso quindi nel cinema di Woody Allen la cruda realtà e la caricatura della stessa…(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

Libro: ‘Dracula (1897)’ e Film: ‘Nosferatu il Vampiro (1922)’ – ‘Nosferatu, Principe della Notte (1979)’ – ‘Dracula di Bram Stoker (1992)’

DRACULA

Di Bram Stoker

Anno di 1^ Edizione 1897; 1^ Edizione Italiana 1922

Pagine 624, Costo € 8,08

Ed. Giunti (collana ‘Y Classici’)

Traduttrice: Marianna D’Ezio

NOSFERATU IL VAMPIRO

Titolo Originale: Nosferatu, eine Symphonie des Grauens

 Nazione: Germania

Anno:  1922

Genere: Horror, Allegoria

Durata: 84’ Regia: Friedrich Wilhelm Murnau

Cast: Gustav von Wangenheim (Hutter), Max Schreck (Conte Orlok), Greta Schröder (Ellen Hutter), Alexander Granach (Knock), Georg H. Schnell (Harding), Ruth Landshoff (Annie), John Gottowt (Professor Bulwer), Gustav Botz (Dottor Sievers), Max Nemetz (Capitano del Demeter), Wolfgang Heinz (Primo Marinaio), Albert Venohr (Secondo Marinaio), Guido Herzfeld (Oste), Hardy von Francois (Medico dell’Ospedale)

NOSFERATU, PRINCIPE DELLA NOTTE

Titolo Originale: Nosferatu: Phantom der Nacht

 Nazione: Germania, Francia

Anno:  1979

Genere: Horror

Durata: 107’ Regia: Werner Herzog

Cast: Klaus Kinski (Conte Dracula), Isabelle Adjani (Lucy Harker), Bruno Ganz (Jonathan Harker), Roland Topor (Renfield), Walter Ladengast (Dr. Van Helsing), Carsten Bodinus (Schrader), Martje Grohmann (Mina), Dan Van Husen (Guardiano), Jan Groth (Comandante del Porto), Ryk de Gooyer (Funzionario), Clemens Scheitz (Ufficiale Giudiziario), Lo van Hensbergen (Ispettore), John Leddy (Cocchiere), Margiet van Hartingsveld (Donna di Servizio), Jacques Dufilho (Capitano)

DRACULA DI BRAM STOKER

Titolo Originale: Bram Stoker’s Dracula

 Nazione: USA

Anno:  1992

Genere: Horror, Sentimentale

Durata: 122’ Regia: Francis Ford Coppola

Cast: Gary Oldman (Vlad Ţepeş/Dracula), Winona Ryder (Mina Murray Harker/Elisabeta), Anthony Hopkins (prof. Abraham Van Helsing/Sacerdote Cesare/Narratore), Keanu Reeves (Jonathan Harker), Richard E. Grant (Dott. Jack Seward), Cary Elwes (Lord Arthur Holmwood), Bill Campbell (Quincey P. Morris), Sadie Frost (Lucy Westenra), Tom Waits (Thomas Renfield), Monica Bellucci (Prima Sposa di Dracula), Michaela Bercu (Seconda Sposa di Dracula), Florina Kendrick (Terza Sposa di Dracula), Jay Robinson (Sig. Hawkins), I.M. Hobson (Hobbs), Laurie Franks (Serva di Lucy), Maud Winchester (Serva), Octavian Cadia (Diacono), Robert Getz (Sacerdote), Dagmar Stanec (Suor Agatha), Eniko Oss (Suor Sylvia), Daniel Newman (Strillone)

TRAMA: A Jonathan Harker il suo datore di lavoro Hawkins affida l’incarico di recarsi in Transilvania perché lo sconosciuto ma facoltoso conte Dracula vorrebbe acquistare una dimora a Londra, dove ha intenzione di trasferirsi. Hawkins ritiene che possa fare al caso del cliente un’antica villa con una cappella sconsacrata e vasto giardino intorno, adiacente proprio all’abitazione di Jonathan. Il quale sta per sposarsi con Mina Murray, ma preoccupata per la distanza e le dicerie riguardo il luogo di destinazione, vorrebbe che il fidanzato declinasse il compito, mentre dal canto suo le prospettive di un lauto guadagno spingono Jonathan a partire senz’altro indugio. Il viaggio è lungo ed all’arrivo in Transilvania scopre che la superstizione degli abitanti locali è molto forte. Il solo pronunciare il nome di Dracula evoca paure ed allusioni raccapriccianti. Convinto che si tratta soltanto di dicerie, Jonathan prosegue il suo viaggio, ma quando giunge al castello e si trova di fronte al conte, si rende conto troppo tardi che la sua peggiore fama è veritiera. Dracula è davvero un essere immondo che di notte si nutre con il sangue alle sue vittime e di giorno giace dentro una bara, al riparo dalla luce. Non solo, assoggettate e sue complici, nel castello ci sono anche tre giovani donne vampiro. Jonathan non sa se ritenersi vittima di un incubo oppure di un infernale incantesimo. Perciò scrive ogni giorno un resoconto su un diario, perché possa essere utile anche a futura memoria, avendo inteso con terrore di essere prigioniero e vittima sacrificale del conte. Dracula lo costringe nel corso di un mese a scrivere lettere rassicuranti a Hawkins e Mina ed intanto si prepara a partire, nascosto dentro una delle cinquanta bare piene di terra da trasportare per nave fino a Londra. Jonathan si rende conto con raccapriccio di ciò che sta per accadere in Inghilterra se Dracula riuscisse nel suo proposito e cerca il modo di fuggire per anticiparlo, lanciare l’allarme ed impedirgli di attraccare. Mina intanto è andata a Whitby, una località sul mare, ospite della sua amica Lucy, che è contesa da ben tre pretendenti: lo psichiatra John Seward, il ricco texano Quincey P. Morris e Arthur Holmwood, prossimo a diventare Lord Godalming alla morte del padre. Quest’ultimo è il prescelto e Seward, per lenire la delusione amorosa, si concentra a tempo pieno nella sua professione, in particolare sul paziente R.M. Renfield che mostra stranissimi comportamenti alimentari ed accenna ad un ‘maestro che sta per venire’. Jane soffre di sonnambulismo e Mina si ritrova a vegliare su di lei perché non corra pericoli. Una terribile tempesta spinge la nave che trasporta le bare proprio nel porto di Whitby, seppure a bordo non c’è traccia dei marinai ed il comandante si è legato al timone prima di morire. Sul diario di bordo ha riportato la scomparsa, uno alla volta, dei suoi marinai, alcuni dei quali sostenevano di aver visto una terrificante figura sotto coperta. Un cane rabbioso intanto è fuggito dalla nave appena giunta in porto e Lucy, una notte che è affetta un’altra volta da sonnambulismo, esce addirittura di casa come seguisse un richiamo e diventa vittima del vampiro. Jonathan intanto è riuscito in maniera rocambolesca a fuggire dal castello e si trova, febbricitante ma salvo, in un convento di suore a Budapest. Mina riceve una lettera da una certa suor Agata che la invita a raggiungerlo ed appena si riprende, si sposano. Lucy invece è diventata sempre più debole ed il Dottor Seward, chiamato al suo capezzale, non trovando una causa evidente ad una così grave anemia, invia una richiesta di aiuto al professor Van Helsing di Amsterdam, suo mentore, il quale accorre immediatamente. Quest’ultimo ben presto intuisce la verità, ma nonostante alcune trasfusioni ed accorgimenti messi in atto affinché Dracula non possa più avvicinarsi a lei, infine Lucy viene vampirizzata in maniera letale assieme alla vecchia madre. Lucy in realtà è diventata una ‘non morta’ e fra l’incredulità di Seward, Quincey e del disperato Howard Goldaming, il professore Van Helsing li convince ad agire immediatamente, specie dopo aver letto sul giornale la notizia che alcuni bambini sono misteriosamente scomparsi nelle adiacenze del cimitero dove giace anche la tomba di Lucy. Così, dopo avere avuto riprova visiva della nuova natura di Lucy, i quattro uomini bloccano la sua tomba ed il giorno seguente, guidati dal professore, liberano l’anima della povera ‘non morta’, piantandole un paletto nel petto e mozzandole la testa. Dopo aver letto il diario di Lucy e la sua corrispondenza con Mina, Van Helsing si mette in contatto con la sua amica e Jonathan, così ha modo di leggere anche i diari di quest’ultimo. In essi risulta evidente che Dracula non è più in Transilvania ma è giunto in Inghilterra. Si tratta quindi di unire le loro forze per contrastarlo e distruggerlo, anche se ciò significa mettere a repentaglio le loro stesse vite. Il compito è difficile, rischioso e lungo. Inizia a Londra ma prosegue sino al castello in Transilvania, dove Dracula cerca di trovare rifugio e dove però bisogna fare i conti anche con i suoi  terribili alleati: le tre donne vampiro ed i lupi che rispondono ai comandi del loro padrone.  

VALUTAZIONE: un classico della letteratura fantastica che ha impressionato ed affascinato generazioni di intemerati appassionati e non, strutturato come un romanzo epistolare a più soggetti coinvolti. Nella mirabile prima versione cinematografica di Murnau il racconto ha assunto anche forti connotazioni allegoriche sulla nascente repubblica di Weimar e la deriva nazista. Il remake, quasi letterale nella trama, diretto egregiamente oltre cinquant’anni dopo da Herzog, ne riprende la vena espressionista e ne suggerisce inoltre le componenti esistenziali e sensuali. La trasposizione ultima di Coppola invece, permeata da uno stile marcatamente gotico, esalta i temi romantici della figura del più famoso vampiro della storia letteraria, con una fortissima carica sentimentale ed erotica. In ogni caso, un personaggio che, piaccia o no, impressionante o no, sintetizza metaforicamente le paure dell’uomo sull’ignoto, le sue ataviche ossessioni sull’aldilà in assenza della fede ed il timore di restare infine eternamente costretto a mezza strada fra la vita e la morte, senza speranze, calore ed amore.

Non so le generazioni ultime, ma perlomeno la mia e quelle immediatamente precedenti e successive credo siano state fortemente impressionate dalla figura fantastica ed inquietante di Dracula, uscita dalla penna di Bram Stoker, il quale con l’opera omonima, a detta di molti, ha realizzato il suo capolavoro letterario ed ha ispirato in campo cinematografico numerose versioni incentrate sulla figura del celeberrimo vampiro, in epoche anche molto distanti fra loro e con risultati e stili profondamente diversi. La stessa trama descritta qui sopra si riferisce al romanzo, perché nei tre film presi a campione, fra i molti realizzati a proposito del famigerato conte, le divagazioni, le modifiche, anche sostanziali e persino le interpretazioni o premonizioni storiche in forma di allegoria, sono molteplici.

…Sua moglie ha un bellissimo collo…‘ (da ‘Nosferatu il Vampiro‘ di F.W. Murnau)

Su Youtube è interamente visibile l’opera muta ma tuttora sorprendentemente affascinante, che il regista tedesco Friedrich Wilhelm Murnau ha realizzato nel 1922, con Max Schreck nei panni del conte Orlok. Un film che, rivisto oggi e nonostante sia passato quasi un secolo dalla sua realizzazione, colpisce ancora per l’eleganza formale, l’equilibrio e l’efficacia narrativa, le atmosfere inquietanti, le puntuali didascalie, la tecnica di ripresa ed il gusto della prospettiva. E malgrado il regista abbia dovuto necessariamente sintetizzare, oppure sorvolare, alcuni aspetti narrativi del romanzo, aggiungendone però altri non meno intriganti e significativi. Un libero adattamento, come suol dirsi.

E pensare, che soltanto un miracolo ha consentito a questa pellicola di giungere sino ai nostri giorni perché, seppure Murnau abbia usato nomi e luoghi diversi da quelli del romanzo, per non essere costretto a pagare i diritti relativi, come sostengono alcuni; oppure perché gli eredi di Stoker non gli volevano concedere l’autorizzazione a girare il film, dicono altri; la causa che gli stessi gli hanno intentato, per le evidenti analogie della pellicola con il racconto scritto, si è conclusa con una condanna della stessa al rogo. Solo poche copie, inclusa una, per fortuna nascosta e conservata dallo stesso Murnau, sono giunte sino a noi e ci permettono di poterne ammirare l’espressività delle sequenze ed il loro evidente significato allegorico, al di là delle ragioni insite nel contenzioso. Quella proposta qui di seguito, sembra la versione più completa, posseduta da un collezionista tedesco, Jens Guetebrueck, a differenza di altre che durano dieci ed anche venticinque minuti di meno. 

Sulla figura di Dracula, come accennavo precedentemente, la cinematografia conta molte versioni e tipologie: da ‘Dracula‘ di Tod Browking, interpretato da Bela Lugosi del 1931, a ‘Vampyr‘ di Carl Theodor Dreyer del 1932, che completano con il ‘Nosferatu‘ di Murnau una trilogia, la prima sul tema dei vampiri; dalla celebre serie della casa cinematografica di produzione inglese Hammer che in ‘Dracula il Vampiro‘ del 1958 e ‘Dracula, Principe delle Tenebre‘ del 1966, inframmezzate da alcune altre opere sullo stesso soggetto, vede emergere la statuaria figura di Christopher Lee; alla rappresentazione ironica di Roman Polanski in ‘Per Favore, Non Mordermi sul Collo!‘ del 1968 e via di questo passo. Insomma, a voler approfondire il tema, c’è da perdercisi, sia nel cinema che in letteratura, sino ad arrivare a forme più popolari, sentimentali e decisamente ‘aggiustate’ nelle specifiche vampiresche, incluse evidenti finalità commerciali, della serie di romanzi ‘Twilight‘ di Stephenie Meyer, trasposta a sua volta al cinema, oppure a caratterizzazioni grottesche come il nostrano ‘Fracchia contro Dracula‘ di Neri Parenti del 1985.

Nosferatu è un nome che ha varie origini: dallo slavo ‘nosufur-atu‘, a sua volta derivante dal greco ‘nosophoros‘ che significa ‘portatore di calamità‘, al rumeno ‘nesuferitu‘ riferito ad una persona maledetta. Bram Stoker nel suo romanzo utilizza ampi cenni storici per collocare l’origine del personaggio di Dracula, che il regista Francis Ford Coppola ha poi in parte ripreso, adattandoli a sua volta. La zona di origine viene così descritta da Jonathan Harker nel suo diario, durante il viaggio in treno per raggiungere il castello del conte Dracula: ‘… si trova all’estremità orientale del paese, al confine fra tre stati, la Transilvania, la Moldavia e la Bucovina, proprio al centro dei monti Carpazi: si tratta di una delle zone più selvagge e meno conosciute di tutta l’Europa…‘. E riguardo alle popolazioni che le abitano, così prosegue, a riassumere le informazioni che ha raccolto prima di partire: ‘…gli abitanti della Transilvania appartengono a quattro nazionalità diverse tra loro: a sud si trovano i Sassoni, mescolati ai Valacchi, che a loro volta discendono dai Daci. Poi ci sono i Magiari a ovest e i Siculi d’Ungheria sia a est che a nord. È lì che sono diretto, tra i Siculi ungheresi, i quali sostengono di essere i discendenti di Attila e degli Unni…‘.

Lo stesso conte poi completa il quadro etnico vantando origini che risalgono addirittura ai vichinghi: ‘…proprio qui, nel crogiolo dei popoli d’Europa, la tribù degli Ugri ha portato con sé dall’Islanda lo spirito ribelle ricevuto da Thor e Odino e i loro feroci guerrieri ne hanno dato prova con incredibile violenza su tutte le coste d’Europa e oltre, fino in Asia e in Africa, al punto che trovandoseli di fronte le popolazioni locali pensavano che fossero arrivati i lupi mannari…‘. Per chiudere infine il cerchio d’ispirazione genealogica dicendo che: ‘…i Siculi d’Ungheria, e con loro i Dracula che sono il sangue che fa battere il loro cuore, e i loro cervelli, e le loro spade, possono ben vantare gli onori di gesta che stirpi cresciute troppo in fretta come gli Asburgo e i Romanov non potranno mai eguagliare. I giorni della guerra sono finiti. Il sangue è troppo prezioso in questi tempi di pace senza onore, e la gloria delle grandi casate ormai è solo una storia già raccontata…‘…(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)Continua a leggere…

Film: ‘I 4 Figli Di Katie Elder’

I 4 FIGLI DI KATIE ELDER

Titolo Originale: The Sons of Katie Elder

 Nazione: USA

Anno:  1965

Genere: Western

Durata: 122’ Regia: Henry Hathaway

Cast: John Wayne (John Elder), Dean Martin (Tom Elder), George Kennedy (Curley), Michael Anderson Jr. (Bud Elder), Martha Hyer (Miss Mary Gordon), Dennis Hopper (Dave Hastings), Earl Holliman (Matt Elder), Jeremy Slate (Vice-sceriffo Ben Latta), Paul Fix (Sceriffo Billy Wilson), James Gregory (Morgan Hastings), Strother Martin (Jeb Ross), Sheldon Allman (Harry Evers), John Litel (Minister), Strother Martin (Jeb Ross), James Westerfield (Mr. Vennar)

TRAMA: In occasione del funerale di Katie Elder a Clearwater si ritrovano dopo molto tempo i suoi quattro figli, il più anziano dei quali è John, un pistolero e l’ultimo, Matt, è ancora molto giovane. Katie era una donna indipendente ed altruista, capace e stimata da tutti, che ha pensato persino di mettere da parte i soldi per il suo funerale, per non pesare su nessuno. Il ranch che un tempo era di proprietà degli Elder è però finito in mano del cinico Morgan Hastings, il quale lo ha trasformato nel frattempo in un negozio di armi, espandendo le sue proprietà terriere in previsione di una futura speculazione nella zona. Sembra che il padre dei quattro figli si sia giocato a carte il suo ranch, mentre era sbronzo come suo solito e la stessa notte è rimasto ucciso in circostanze mai chiarite. Katie però non aveva messo al corrente i figli dell’accaduto, onde evitare che potessero mettersi nei guai per farsi giustizia. John insospettito dalle reticenze dello sceriffo Billy, inizia ad indagare assieme al fratello Tom e fra l’altro scoprono che la madre si era messa in contatto con un allevatore di cavalli e l’aveva così positivamente colpito, da accettare di affidarle a credito una mandria di duecento capi. Il suo obiettivo era quello di rivenderli per trovare i soldi necessari per mantenere agli studi il figlio Matt. L’affare però non è mai andato a buon fine perché Katie è morta nel frattempo ed allora i figli, per onorarne la memoria, propongono allo stesso allevatore di portare a termine l’impresa. Nel frattempo Hastings ha assoldato un killer, Curley, temendo la reazione di John. Lo sceriffo, preoccupato che s’inneschi una escalation di violenza, vorrebbe che quest’ultimo se ne andasse al più presto, mentre il vice sceriffo Jeremy è giovane e impulsivo ed ha scoperto che Tom Elder è ricercato per omicidio. Per evitare una sparatoria, il vecchio sceriffo Billy si reca lui stesso a casa degli Elder per arrestare Tom, ma Hastings coglie l’occasione per tendere un agguato a quest’ultimo, uccidendolo proprio davanti alla casa dei fratelli Elder. I quattro fratelli però nel frattempo sono andati a ritirare la mandria dei cavalli e quindi non erano in casa quando è avvenuto l’assassinio. In paese l’uccisione dello sceriffo crea sconcerto e collera fra gli abitanti, aizzati da Morgan Hastings. Viene così organizzata una battuta, durante la quale i quattro fratelli sono raggiunti e facilmente costretti ad arrendersi, anche perché all’oscuro dalle accuse per la morte dello sceriffo. Condotti in carcere nella stessa Clearwater, subiscono le invettive della folla riunita fuori, nella quale monta sempre più la rabbia ed il desiderio che venga fatta giustizia. Per evitare che l’assembramento si trasformi in un linciaggio, il vice sceriffo Jeremy si convince infine a condurre i prigionieri a Laredo perché siano giudicati dallo sceriffo della contea. Hastings però non è della stessa idea e punta ad eliminare definitivamente i fratelli Elder e con essi gli ostacoli alle sue ambizioni. Organizza perciò un agguato che però non ottiene i risultati sperati, perché John, intuito cosa sta per succedere, riesce a saltare per tempo dal carro dove è seduto incatenato con i fratelli e bloccato appositamente su un ponticello lungo un corso d’acqua, un attimo prima che un’esplosione con la dinamite lo faccia crollare. Ne consegue una sparatoria, con il vice sceriffo, rimasto all’oscuro della trama, che viene disarmato dagli uomini di Hastings e poi ucciso dallo stesso sotto gli occhi impietriti del figlio Dave. Jeremy infatti, avendo inteso di essere stato vittima di un raggiro, stava per unirsi alla difesa dei quattro fratelli. I quali sono riusciti ad impossessarsi di una cassa di armi e rispondono al fuoco da dietro le macerie del ponte crollato. Bud Elder però è rimasto ucciso a causa dello scoppio ed anche il killer Curlin viene colpito a morte da John, mentre Matt è ferito a sua volta. I sopravvissuti all’agguato, temendo il peggio, a quel punto fuggono, ma John per far curare il fratello da un medico non esita a tornare in paese, dove è inevitabile la resa dei conti con Morgan Hastings.        

VALUTAZIONE: nella fase che segue i grandi capolavori dei western classici alla John Ford e precede quelli della rivisitazione (Sergio Leone e ‘spaghetti western’ in primis) e del filone crepuscolare, Henri Hathaway, solido e poliedrico regista, ha realizzato un’opera che mantiene l’ossatura dei primi ma lascia anche presagire, nei secondi, la fine di un’epoca gloriosa ed un inevitabile mutamento interno allo stesso genere di appartenenza. Ne è uscito un film piacevole, a volte persino divertente sino alla caricatura, in altri momenti spettacolare e persino curioso, dato che tutto gira intorno alla memoria della donna del titolo, che è già morta. I personaggi sono quelli tipici, suddivisi per carattere, interessi e principi morali. La coppia John Wayne e Dean Martin funziona ancora a meraviglia.

Sarà pure una sterile curiosità ma a volte è inevitabile chiedersi le motivazioni che hanno spinto la distribuzione nostrana a differenziarsi dal titolo originale aggiungendo un numero, per quanto pertinente e neppure proposto in lettere, cioè ‘I 4 Figli di Katie Elder‘, rispetto a ‘The Sons of Katie Elder‘. Sarà per l’immagine della locandina, oppure per qualche altro oscuro scopo subliminale che non è facile ma neppure indispensabile comprendere, sia chiaro. Sta di fatto che il film di Henry Hathaway, prodotto nel 1965, lo si può considerare al tempo stesso appartenente a quelli a struttura classica, così come una sorta di avvisaglia di un cambiamento stilistico in atto, che di lì a breve si delineerà essenzialmente in due distinte correnti del genere western: quella della rivisitazione da un lato e quella del disincanto o del cosiddetto ‘crepuscolo’ dall’altro.

Girato fra Stati Uniti e Messico, in classiche location intorno a Durango, come San Vincente de Chupaderos, negli studi cinematografici di Churubusco a Città del Messico oppure in panorami spettacolari come El Saltito, con le sue tre maestose cascate che appaiono sullo sfondo, poco prima della lunga sparatoria a seguito dell’agguato fra il corso d’acqua ed il ponticello, il film di Hathaway propone ancora una volta la coppia di successo di ‘Un Dollaro d’Onore‘ e ‘El Dorado‘ di Howard Hawks (clicca sul titolo di diverso colore se vuoi leggere il mio commentoed alcune altre opere che li ha visti affiancati uno all’altro. Mi riferisco ovviamente a John Wayne e Dean Martin che in questa occasione sono i fratelli maggiori dei quattro figli, appunto, di Katie Elder.

Il titolo del film è curiosamente riferito ad una donna che non appare mai nel corso dello stesso perché la poveretta, per quanto ammirevole figura e stimata da tutti i suoi concittadini, nel frattempo è deceduta e di lei non rimane neppure una foto, ma solo un funerale al quale il figlio maggiore John sembra essere l’unico assente, atteso invano dagli altri tre alla fermata del treno, mentre in realtà lo vediamo assistere, non visto dall’alto di una roccia posta di fronte allo scarno cimitero e prima di ricongiungersi con i fratelli, agli ultimi atti della cerimonia ed all’elogio accorato del prete. L’atteggiamento circospetto e prudente è una scelta di John perché essendo un pistolero famoso vuole evitare, almeno davanti alla tomba della madre, di attirare l’attenzione di qualche provocatore in cerca di gloria. Scende soltanto quando tutti gli altri se ne sono già andati ed allo sceriffo che gli chiede perché sia entrato in paese dalla ‘porta di servizio’ e se teme qualche fastidio, risponde pacatamente: ‘…c’è sempre qualcuno che ne va in cerca. Clearwater non è diversa dalle altre città. Ma se c’è una cosa che non voglio, Billy, sono i fastidi…‘. La fama che lo precede infatti non è delle più lusinghiere, persino in quel paese abitato da poche anime dal quale in fondo proviene.

Il comportamento dei quattro figli, specie i primi tre, nei confronti della loro madre non si può di certo dire che sia stato esemplare. La povera Katie Elder ne andava lo stesso orgogliosa di loro ma spesso mentiva dicendo che riceveva soldi e lettere che in realtà non arrivavano mai. La sua amica Mary Gordon lo rinfaccia senza tanti giri di parole ai quattro i fratelli, quando li raggiunge a bordo di un calesse nella casa in cui la loro madre aveva trascorso gli ultimi mesi della sua vita. Katie aveva espresso a Mary il desiderio che portasse loro del cibo quando fossero tornati e lei aveva acconsentito per il rispetto e l’affetto che provava per quella donna. La quale era solita dire: ‘…Il Texas è una donna, una bella, magnifica donna selvaggia. Si alleva un figlio e, appena è grande abbastanza, arriva il Texas che gli bisbiglia all’orecchio con un bel sorriso: “vieni via con me e divertiamoci”. È già difficile allevare i figli, ma quando c’è di mezzo il Texas una madre non può farcela…’(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)

Nonostante fossero passati nel frattempo già sei mesi, John ignorava che la madre avesse dovuto lasciare il ranch di famiglia perché il loro padre lo aveva perso giocando a carte, come sostiene Morgan Hastings ed era stato ucciso quella stessa sera, in maniera troppo sospetta per definirlo un caso. Lo sceriffo Billy non è stato in grado di scoprire il colpevole, seppure non era poi così difficile immaginare chi potesse essere, forse per vigliaccheria o semplicemente per quieto vivere nei confronti dell’oramai dominante Hastings. Una curiosità riguardo il figlio Dave di quest’ultimo, interpretato da un ancora giovane Dennis Hopper.

John Wayne invece interpreta il personaggio che porta il suo stesso nome ma con misurata pacatezza e prudenza, diversamente dalla carismatica figura de ‘L’uomo Che Uccise Liberty Valance‘ oppure dal cocciuto padre de ‘Il Fiume Rosso‘ o l’irriducibile inseguitore dei pellerossa ne ‘Sentieri Selvaggi‘ (la prima e l’ultima opera sono state dirette da John Ford, mentre quella di mezzo da Howard Hawks). Forse la responsabilità, pur tardiva, del ruolo di fratello maggiore che diventa una sorta di padre alla morte di entrambi i genitori, lo spinge ad essere cauto, pur essendo un pistolero al quale il fratello minore Matt chiede subito con curiosità mista ad ammirazione quanti uomini abbia ucciso. John evita al funerale della madre di offrire il fianco ad eventuali speculatori. E difatti risponde con le armi soltanto per difendersi dal proditorio agguato durante il quale il fratello Bud resta ucciso e Matt seriamente ferito.

E’ un mutamento di ruolo, che non incide sulla sua autorevolezza ma che testimonia, al di là del film in oggetto, come certi tratti della sua figura di cowboy, di vagabondo e giustiziere siano oramai inevitabilmente tramontati, al pari di quella di uomo tutto d’un pezzo che per anni ha rappresentato in molti film western. Anche se il personaggio e la struttura del film proposti da Henry Hathaway comunque mantengono molte delle peculiarità che hanno generato l’epopea del genere di appartenenza. Un canovaccio, per intenderci, che non disdegna ad esempio le battute argute e divertenti, nonostante la brutalità di molte situazioni e la palese rozzezza dei protagonisti rappresentati. I momenti che a volte sono al limite della comicità. Le belle donne che vivono in paesi sperduti e misteriosamente non si sono ancora maritate, anche se non sono più giovanissime, ma che non si fanno intimidire dagli uomini, neppure quelli che si portano appresso la fama di duri e che spesso si rivelano totalmente imbranati a gestire i rapporti con il gentil sesso, quanto al contrario sono abili invece con le pistole ed a sbrigarsela nelle scazzottate e nei duelli con i fuorilegge; poi ovviamente se ne innamorano. Oppure lo scapestrato e fallito di turno, ma in fondo buono, che non sa neppure lui di essere tanto coraggioso, il quale trova l’occasione di redimersi e riscattare la propria vita, sprecata sino a quel momento, interpretato in questo caso ed ancora una volta da Dean Martin. Infine ovviamente il prepotente di turno che si fa beffe della legge e si circonda di killers prezzolati che eseguono il lavoro sporco per lui, in barba allo sceriffo, il più delle volte succube oppure dallo stesso stipendiato.

Insomma non manca nulla ne ‘I 4 Figli di Katie Elder‘ delle caratteristiche che hanno determinato il successo del genere western classico, regalandoci perle ed autori che sono passati alla storia del cinema. Henry Hathaway non sarà fra i nomi più carismatici dei registi che hanno reso immortale questa tipologia di film, dai già citati John Ford ad Howard Hawks, da John Sturges a Fred Zinnemann, da Robert Aldrich a Delmer Daves ad Anthony Mann, da Sam Peckinpah e Sergio Leone, per citarne solo alcuni, ma è un autore che si è distinto in vari generi cinematografici con opere come ‘Rommel, la Volpe del Deserto‘, ‘Niagara‘ (che ha rivelato una certa Marilyn Monroe), ‘Il Bacio della Morte‘, ‘I Lanceri del Bengala‘, ‘Pugni, Pupe e Pepite‘ e nella parte finale della sua carriera ha girato una predominante di film western che oltre a quello in oggetto, annovera titoli significativi come ‘La Conquista del West‘, ‘Nevada Smith‘ e ‘Il Grinta‘ che è valso l’Oscar a John Wayne, con il quale peraltro ha girato un sostanzioso numero di film in carriera oltre a questo.

I 4 Figli di Katie Elder‘, escludendo l’originale premessa del funerale di un personaggio, per giunta una donna, che poi non appare mai nel corso di un film che appartiene ad una categoria quasi sempre votata al maschile, per il resto ha una trama abbastanza prevedibile, che rispecchia i canoni tipici, con il prepotente che fa il bello e cattivo tempo nel piccolo paese dove la legge, anche se non direttamente al servizio suo, è comunque impotente di fronte al suo strapotere, sinché non giunge, anche se non espressamente richiesto, l’uomo che con il suo carisma, coraggio e determinazione, restituisce dignità, libertà e legalità agli oppressi. Un personaggio a sua volta circondato spesso da una fama non irreprensibile, anzi spesso al limite se non addirittura al di fuori della legge, che però è animato da principi morali che trovano finalmente la loro consacrazione proprio in quell’azione di giustizia, di altruismo e di ripristino della legge.

In questo caso John e Tom agiscono per un’evidente ragione personale e gli abitanti di Clearwater non si mostrano mai benevoli nei loro confronti, anzi quando Hastings uccide il vecchio sceriffo Billy proprio davanti a casa loro mentre sono assenti, facendo apparire l’assassinio come se fosse opera dei fratelli (perché lo sceriffo era andato ad arrestare Tom avendo ricevuto comunicazione di un suo reato pregresso), i quattro hanno rischiato persino il linciaggio. Il regolamento dei conti finali quindi va a vantaggio della comunità del posto, anche se nessuno s’è ancora reso conto della verità, eccetto per ironia della sorte, proprio il figlio Dave di Hastings, che non immaginava che il padre fosse addirittura un assassino senza scrupoli sinché non lo ha visto uccidere a bruciapelo il vice sceriffo, a sua volta per molto tempo ostile agli Elder ma che ha avuto modo di ricredersi, seppure troppo tardi.

Il momento più divertente del film, battute a parte che ogni tanto risaltano pungenti, è la scazzottata fra i quattro fratelli che avviene seguendo il cosiddetto effetto domino: un tassello che colpisce quello successivo, facendolo cadere, quello seguente a sua volta e così via, naturalmente senza ferite evidenti per i quattro ed i danni sono limitati al massimo a qualche sedia rotta e una sgangherata porta sfondata. Dal punto di vista spettacolare invece sicuramente la lunga scena della sparatoria conseguente l’agguato al ponte sul corso d’acqua, in uno scenario naturale suggestivo, che coinvolge oltre a quattro fratelli anche numerosi altri partecipanti, quasi tutti al soldo di Morgan Hastings.

La fotografia di un solido professionista come Lucien Ballard e la colonna sonora di Elmer Bernstein (autore anche delle musiche de ‘I Magnifici 7‘ di John Sturges), seppure il motivo principale da lui composto, di coinvolgente impatto emozionale, alla lunga risulta utilizzato sin troppo frequentemente nel corso della trama, aggiungono prestigio ad un’opera che non possiamo considerare fra le maggiori del genere di appartenenza ma che non sfigura e si lascia vedere con piacere per gli amanti del western.

Siamo lontani dal lirismo di opere come ‘Il Cavaliere della Valle Solitaria‘ di George Stevens, dal rigore di ‘Mezzogiorno di Fuoco‘ di Fred Zinnemann o ‘Lo Sperone Nudo‘ di Anthony Mann, ma anche dal freddo cinismo celebrativo e dall’ironia degli ‘spaghetti western‘ dei tre Sergio nostrani, cioè Leone, Sollima e Corbucci. La distanza si fa poi siderale rispetto alle opere ed agli autori del cosiddetto ‘western crepuscolare‘, come ‘Gli Spietati‘ di Clint Eastwood, oppure quello che viene considerato il prototipo di questo sottogenere, ‘Il Mucchio Selvaggio‘ di Sam Peckinpah. Si veda quindi anche all’interno di un genere apparentemente definito, come il western, quante diramazioni è possibile trovare ed altre ancora se ne potrebbero citare, ma ognuna di esse ha caratteristiche proprie, pregi e la sua ragion d’essere, esattamente come quest’opera di Henry Hathaway.

Documentario: ‘Punto di NON Ritorno – Before the Flood’

PUNTO DI NON RITORNO – BEFORE THE FLOOD

Titolo Originale: Before the Flood

 Nazione: USA

Anno:  2016

Genere: Documentario

Durata: 96′

Regia: Fischer Stevens

Commento Parlato: Leonardo Di Caprio (doppiato da Francesco Pezzulli)

VALUTAZIONE: un significativo ed impressionante reportage sui cambiamenti climatici provocati dall’azione sconsiderata e dal menefreghismo interessato di alcune organizzazioni, multinazionali e governi. Le immagini e le parole degli intervistati testimoniano ciò che sta avvenendo, a dispetto dalla lentezza di chi dovrebbe agire concretamente o, peggio ancora, dai negazionisti che mirano solo al loro tornaconto personale. Al netto della pubblicità che questa iniziativa e l’incarico di ‘ambasciatore’ ricevuto dall’ONU hanno procurato a Leonardo Di Caprio, che però ci ha messo anche la faccia, la condivisione di questo documentario è utile, se ce ne fosse bisogno, per comprendere il valore della posta in palio e quindi premere su chi di dovere, anche attraverso il voto, almeno laddove è possibile, perché ne consegua l’indispensabile inversione di tendenza.

Chi mi conosce personalmente e chi frequenta da tempo questo blog ritengo che mi possa riconoscere, se non altro, lo sforzo di cercare di essere il più possibile equidistante, evitando posizioni, come si dice nei casi di peggiore estremismo, da ‘talebano’, nel commentare film, serie TV e romanzi, dai quali traspaiono inevitabilmente anche mie opinioni personali che superano, in senso stretto, l’opera specifica sulla quale scrivo il mio commento. 

Mi interessa molto il settore dei documentari naturalistici e non ho creato una apposita sezione soltanto perché ahimè tutto non si può fare, vedere e neppure scrivere, e quindi bisogna imporsi dei limiti, ma a volte capitano temi particolari di denuncia sui quali tacere diventa un boomerang, se non proprio una sorta di connivenza. Specie se, come in questo caso, in gioco c’è la salute del bene più prezioso che possediamo, in quanto esseri umani. Vale a dire il pianeta Terra che abitiamo, così ben descritto in tutta la sua bellezza e straordinarietà dalla Serie TV ‘One Strange Rock – Pianeta Terra’  (clicca sul titolo di diverso colore se vuoi leggere il mio commento), della quale mi sono sentito in dovere qualche tempo fa di esaltarne le qualità sotto tutti i punti di vista, uscendo perciò dagli ambiti circoscritti di questo blog. 

Una simile necessità si è ripresentata assistendo a questo documentario (interamente visibile su Youtube, cliccando sull’immagine qui sopra), che non è da considerare in un’ottica di pura contemplazione, di valutazione tecnica, di bravura attoriale o semplicemente di compiacimento per ciò che il credente riconosce a Dio nella sua rappresentazione attraverso Madre Natura, bensì perché ‘Punto di NON Ritorno – Before the Flood‘ mostra una serie d’immagini che parlano da sole e di prove inoppugnabili che richiedono azioni concrete già tardivamente e colpevolmente disattese. E purtroppo, rispetto alla data di realizzazione di quest’opera, che è del 2016, ci sono tuttora strati della società internazionale ed importanti uomini politici che continuano a fare orecchie da mercante, o peggio ancora a negare persino l’evidenza.

Le ragioni non dipendono né da ignoranza e tanto meno da superficialità, quanto semmai da una lucida malafede, fondata su interessi economici di parte, nello sminuire sistematicamente le prove inconfutabili fornite dalla scienza e dai segnali sempre più allarmanti che provengono in tutto il mondo sui cambiamenti del clima, irresponsabilmente attribuiti da costoro ai cicli della natura. Come d’altronde e nel nostro piccolo, alla data di questo fine ottobre 2018, abbiamo visto anche nella mia cara e natale Liguria, così come in altre regioni del centro Nord Italia, dai danni causati dal passaggio di un vero e proprio uragano, che non si può certo definire usuale a queste coordinate geografiche. Il quale segue eventi sempre più frequenti di calamità dovute a presunte ‘cause naturali’, seguendo il mantra dei ‘negazionisti’, oltre alle catastrofi che di suo, l’uomo contribuisce a creare, vedi ponte Morandi a Genova.

Il NON maiuscolo nel titolo quindi l’ho aggiunto io, per dare maggiore risalto al fatto che non si sta parlando di un effetto transitorio per il quale è sufficiente stringere i denti, lasciarlo passare e poi tornare alla normalità, ma qualcosa di ben più grave, che si verifica sempre più spesso in una escalation che, alla stessa stregua dell’estinzione di una specie animale, superato il punto di non ritorno, poi non c’è il modo di tornare indietro, di recuperare ciò che è andato perduto. Il documentario è prodotto, fra gli altri, da Leonardo Di Caprio, il quale ci guida con lucidità, efficacia e disponibilità a sentire anche le diverse ed opposte opinioni, in una sorta di tour degli orrori in giro per il mondo. Il celebre attore vuole rimarcare proprio questo aspetto, cioè il perseverare di tale azzardato gioco con il fuoco, per così dire, contando sull’illusione che il nostro pianeta possieda risorse illimitate di resistenza agli attacchi che da più parti ed in maniera sempre più estesa e proditoria gli vengono portati…(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’).Continua a leggere…

Film: ‘Arriva un Cavaliere Libero e Selvaggio’

ARRIVA UN CAVALIERE LIBERO E SELVAGGIO

Titolo Originale: Comes a Horseman

 Nazione: USA

Anno:  1978

Genere: Western, Drammatico

Durata: 120’ Regia: Alan J. Pakula

Cast: Jane Fonda (Ella Connors), James Caan (Frank), Jason Robards (Ewing), Richard Farnsworth (Dodger), George Grizzard (Neil), Macon McCalman (Hoverton), James Kline (Ralph), James Keach (Emil Kroegh), Basil Hoffman (George), Clifford A. Pellow (Acquirente Bestiame), Mark Harmon (Billy), Jim Davis (Julie)

TRAMA: Ella Connors ha ricevuto in eredità dal padre un appezzamento di terreno che confina con uno ancora più grande di proprietà di Ewing, un uomo privo di scrupoli che ha abbandonato l’allevamento del bestiame per inseguire le sirene del petrolio che sembra sia estraibile dal sottosuolo della zona, ma intanto si è indebitato con la banca che era stata fondata da suo nonno. Ella è cresciuta come un cowboy, aiutata alla morte del padre dall’oramai anziano ma sempre fido Dodger. Anche per lei non è facile ogni anno ricavare il necessario per pagare i debiti con la banca, ma nonostante ciò non ha mai voluto vendere la sua terra (sulla quale, fra l’altro, scorre la migliore acqua della zona) a Ewing, al quale non consente di effettuare trivellazioni, anche se è proprio sotto il suo terreno che sembrano esserci le migliori prospettive riguardo il petrolio. Ella odia profondamente Ewing perché quando aveva solo sedici anni si era approfittato di lei ed allorché suo padre ne era venuto a conoscenza aveva ricevuto probabilmente un colpo decisivo per la sua salute e lei ne sente ancora il rimorso. Per resistere alla pressioni della banca, Ella ha venduto una piccola parte del suo terreno a Frank e Billy, due cowboys tornati da poco illesi dalla Seconda Guerra Mondiale, dove invece è morto l’unico figlio di Ewing. Per evitare di avere ulteriori concorrenti con i quali dover fare i conti, quest’ultimo ordina ad alcuni suoi complici di sistemare i due ultimi arrivati e mentre Billy resta ucciso, Frank se la cava, uccidendo a sua volta il sicario, ma rimanendo gravemente ferito. Soccorso il giorno dopo da Dodger e portato al ranch di Ella, la donna non si sottrae dal garantirgli ricovero e cure con l’intento però, che appena si sarà ripreso, se ne vada. Ewing raggiunge Frank e gli offre un assegno per cedergli la sua terra ed andarsene, che lui però rifiuta. Una volta guarito, si offre di ricambiare Ella aiutandola nel suo lavoro ma lei inizialmente rifiuta, poi accetta e Frank, giovane e forte dimostra a lei e Dodger quanto possa essere capace ed utile, permettendole di governare e far crescere la mandria di bestiame, anche quando Dodger, a seguito di una caduta da cavallo, muore. Ewing tenta in tutti i modi di rendere dura la vita a quelli che sono diventati fra loro nel frattempo due soci, roso anche dalla gelosia perché fra Frank ed Ella, che ha rifiutato più volte le sue proposte di matrimonio, nel frattempo è sbocciato qualcosa di più di un sodalizio di lavoro. Dopo qualche tempo Frank convince Ella a vendere il bestiame, cresciuto di numero e divenuto troppo complicata da gestire. Dopo una lunga e serrata trattativa con un acquirente, riescono ad ottenere un buon prezzo, abbracciandosi felici per l’affare concluso, appena uscito di casa. Quando Ewing non può più opporsi affinché la banca diventi proprietaria dei suoi terreni, decide di passare all’azione e di schiacciare quelli che lui definisce ‘i cani’ che gli stanno intorno. Sempre con l’aiuto dei suoi complici manomette l’aereo di Neil, l’uomo d’affari che prima lo ha finanziato e poi ha fatto il gioco della banca. Il velivolo precipita, ma come se si fosse trattato di un malaugurato guasto. Quindi convoca Hoverton, il direttore della stessa banca e lo uccide barbaramente. Si introduce infine nella casa di Ella ed aspetta il suo ritorno, mentre Frank è in città e dopo averle proposto un’ultima volta di sposarlo, al suo ennesimo rifiuto, la lega e la chiude nello sgabuzzino dove pende il cadavere sanguinante di Hoverton e quindi aspetta il ritorno di Frank. Ignaro a sua volta di quello che sta accadendo, quest’ultimo viene facilmente immobilizzato e rinchiuso a sua volta, svenuto, assieme a Ella e quindi viene dato fuoco alla casa. Ewing ed i suoi due complici, convinti di aver completato il lavoro se ne stanno andando, ma Frank rinviene e riesce a liberare anche Ella, quindi ad uscire dalla casa. Ewing ed i suoi complici se ne accorgono e tornano indietro ma Frank ed Ella armati di fucile riescono ad uccidere i tre attentatori. Anche se la casa è andata completamente distrutta, la ricostruzione sembra significare un futuro di speranza davanti a loro.   

VALUTAZIONE: western assolutamente atipico, una sorta di capitolo finale di una epopea, che Alan J. Pakula mette in scena con efficacia, pur mantenendo tutte o quasi le caratteristiche distintive del genere di appartenenza e nonostante gli allevamenti di bestiame stiano per essere sostituiti dai giacimenti petroliferi ed i cavalli dalle automobili, come mezzo di trasporto. Jason Robards, pur non essendo l’attore protagonista, si distingue nel confronto attoriale con James Caan e Jane Fonda, comunque splendida ed a suo agio in un ruolo per buona parte espresso a nervi tesi, mentre Caan interpreta un personaggio che è tagliato a sua misura. Un’opera che non aggiunge nulla al western classico, che non si può definire neppure ‘crepuscolare’, inevitabilmente lenta in alcuni momenti ed anche intuibile negli sviluppi, ma meritevole di rispetto ed attenzione. Il titolo italiano è inutilmente roboante ed ingannevole. 

Comes a Horseman‘ (un titolo originale molto più aderente alla figura del personaggio cui è riferito ed allo stile dell’opera, rispetto a quello ad effetto, scelto dalla distribuzione nostrana), è ambientato in una zona degli Stati Uniti posta fra il Colorado e l’Arizona, all’epoca della Seconda Guerra Mondiale, quando la Germania nazista stava per capitolare.

Una delle prime sequenze vede i due amici Frank (James Caan) e Bill (Mark Harmon) cavalcare allegramente, mentre conducono la loro piccola mandria di bestiame verso la terra che hanno appena acquistato da Ella Connors (Jane Fonda) e subito dopo fermarsi, con rispetto e partecipazione (togliendosi anche il cappello), al rumore degli spari di un drappello di militari proveniente da un promontorio non molto distante da loro, nel corso della cerimonia di tumulazione di un giovane soldato americano deceduto in guerra, rallegrandosi di essere tornati da Anzio sani e salvi. Qualcosa che non ti aspetteresti in un contesto completamente differente e rispetto allo stesso paesaggio intorno. La vittima era l’unico figlio del più grande proprietario terriero della zona, Jacob J.W. Ewing (Jason Robards), al quale i vicini, se così si può dire di un territorio a perdita d’occhio, esprimono le loro condoglianze, scorrendo davanti a lui uno alla volta prima di accomiatarsi. Inclusa Ella, seppure lo scambio degli sguardi fra lei e Jacob è glaciale, per quanto si sia sentita in dovere anche lei di partecipare al suo lutto. Ed ovviamente c’è una ragione pregressa.

Sembra l’ambientazione di un western classico, ma già al passaggio dei due cowboy con le loro bestie dentro un piccolo villaggio, sulla sinistra dell’inquadratura, quasi nascosta, appare un’auto parcheggiata. Ancora più in evidenza, quando la ripresa si apre dalla soggettiva di Ewing, si vede in campo lungo una serie di auto parcheggiate sullo sfondo di un panorama sconfinato ed ancora agreste ma nel quale è evidente che molti cambiamenti sono già avvenuti o stanno per avvenire rispetto all’epoca dei film interpretati da attori come John Wayne, James Stewart e Gary Cooper.

Il film di Alan J. Pakula è catalogato come western ma al tempo stesso non lo è più nella sostanza, nel senso che è ambientato in anni che hanno già ampiamente superato persino il crepuscolo dell’epopea resa famosa, fra gli altri, da grandi autori come John Ford, Howard Hawks, John Sturges ed anche il nostro Sergio Leone. Gli appassionati del genere di appartenenza possono forse essere tentati, nonostante ciò, di considerare questa opera ancora assimilabile a quel filone definito non a caso ‘crepuscolare‘, che annovera fra i suoi esempi più significativi film come ‘Il Mucchio Selvaggio‘ di Sam Peckinph, ‘Corvo rosso non avrai il mio scalpo‘ di Sydney Pollack, ‘I cavalieri dalle lunghe ombre‘ di Walter Hill, ‘Gli Spietati‘ di Clint Eastwood e quelli del suo stesso maestro e mentore Sergio Leone, il quale si pone come ideale spartiacque fra le due tipologie, se così si può dire.

Arriva un cavaliere libero e selvaggio‘ non si può però neppure annoverare in quest’ultima ‘corrente di pensiero’, perché è un caso a sé stante, di confine: un po’ western, un po’ dramma sociologico e generazionale dell’America post ‘Grande Depressione‘, teso a mettere in evidenza i mutamenti di una società nella quale i fucili e le pistole regolano ancora, in alcuni casi ed al di là della legge, alcuni conflitti personali ma nella quale il vincente, ammesso che sia dalla parte della ragione, è destinato comunque a rinunciare nel breve-medio periodo a ciò per cui ha lottato sino a quel momento ed il perdente, pur rimanendo tale per aver calpestato il rispetto dei principi di giustizia, pagando per ciò duramente, come nel caso di Jacob Ewing, viene comunque prontamente rimpiazzato da personaggi e lobby che in forme analoghe o anche formalmente diverse, hanno finalità persino peggiori. Vediamo perché.

La protagonista femminile, come si diceva, è Jane Fonda. Una donna indurita dalla vita, eppure indomita, ancora avvenente ma senza aver mai dato all’aspetto fisico la minima importanza e valenza per ottenere un qualsiasi vantaggio pratico. Una bellezza peraltro sempre nascosta e soffocata dentro gli abiti rustici del cowboy. D’altronde Jane Fonda (le cui origini affondano anche su lontane radici italiane, sia da parte del bisnonno genovese, che della madre i cui avi provenivano da Vicenza) negli anni sessanta era diventata un’icona sexy ma al tempo stesso e forse anche per non rimanere rinchiusa in quell’icona, era una donna impegnata in grandi battaglie civili. Le quali ben si sposano con il personaggio anticonvenzionale che interpreta nel film di Alan J. Pakula, regista che sei anni prima le ha permesso di vincere l’Oscar per ‘Una squillo per l’ispettore Klute‘ ed un anno dopo lo ha rivinto con ‘Tornando a casa‘ di Hal Ashby. Ella è cresciuta da mandriana ed indossando sin dalla più tenera età indumenti maschili perché nella proprietà del padre non c’erano tempo e soldi per le bambole e neppure per i sogni tipici di una ragazza di campagna…(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’).Continua a leggere…

Film: ‘Il Lato Positivo – Silver Linings Playbook’

IL LATO POSITIVO – SILVER LININGS PLAYBOOK

Titolo Originale: Silver Linings Playbook

 Nazione: USA

Anno:  2012

Genere: Commedia

Durata: 117’ Regia: David O. Russell

Cast: Bradley Cooper (Pat Solitano), Jennifer Lawrence (Tiffany), Robert De Niro (Pat Solitano Sr.), Jacki Weaver (Delores Solitano), Chris Tucker (Danny), Anupam Kher (Dott. Cliff Patel), Brea Bee (Nikki), Shea Whigham (Jake), Julia Stiles (Veronica), John Ortiz (Ronnie), Paul Herman (Randy), Dash Mihok (Agente Keogh), Matthew Russell (Ricky D’Angelo), Cheryl Williams (Madre di Tiffany), Patrick McDade (Padre di Tiffany), Regency Boies (Regina), Phillip Chorba (Jordie), Anthony Lawton (Dott. Timbers), Patsy Meck (Nancy), Jeff Reim (Jeffrey), Fritz Blanchette (Fritzy), Ted Barba (Doug Culpepper), Tiffany Green (Tanya)

TRAMA: Tornato a casa ad un orario inaspettato, Pat Solitano ha trovato sparsi per casa vestiti e capi intimi, e poi la moglie Nikki dentro la doccia assieme ad un collega in atteggiamento esplicito. La reazione l’ha mandato fuori di testa ed ha menato così brutalmente il rivale che è stato poi costretto ad un ricovero presso un centro psichiatrico per curare quella che è stata diagnosticata, confermata da precedenti segnali, come una forma di bipolarismo. Che si sia ripreso completamente da allora non si può dire: parla a voce alta con se stesso; quando sente la canzone del suo matrimonio reagisce violentemente ed inoltre sveglia i genitori alle quattro di notte per discutere il finale di un libro di Hemingway che ha letto in modo compulsivo e non ha apprezzato. Nonostante ciò è determinato a recuperare il rapporto con la moglie ed appena può evita di prendere le pastiglie antidepressive che sostiene gli tolgano lucidità. Quando la madre dopo otto mesi ottiene il permesso di riportarlo a casa, lui è convinto di essere sulla strada giusta, nonostante i divieti ambientali, incluso quello di cercare ed avvicinarsi a Nikki che nel frattempo però ha venduto la casa e se n’è andata. Il padre Pat Senior non è molto convinto riguardo la sua guarigione ma considera il figlio un portafortuna quando guardano assieme in TV le partite di football americano della squadra degli Eagles, dei quali è un accanito fan e registra su videocassette le partite, sulle quali scommette pure cifre sempre più pesanti, nonostante abbia perso il lavoro. Allo stadio non può più andarci però, perché è considerato un tifoso pericoloso dopo aver partecipato ad alcune risse. Da quando è tornato a casa, Pat va spesso a correre per mantenersi in forma e scaricare le sue frustrazioni che cerca di convertire in positività. Un vecchio amico lo invita a cena e la moglie di quest’ultimo gli presenta la sorella, Tiffany, a sua volta appena uscita da una cura psichiatrica conseguente la morte del marito in un incidente, dalla quale ha reagito andando a letto con una dozzina di colleghi, sinché il suo capo l’ha licenziata. Durante la serata, Tiffany ha una brusca reazione ad alcune parole della sorella e chiede a Pat di accompagnarla a casa e poi si offre pure a lui, che però rifiuta dichiarandosi sposato e fedele alla moglie. Nei giorni successivi, mentre Pat mentre sta facendo footing, a sorpresa viene raggiunto da Tiffany che lo rimbrotta, lo stuzzica, sinché lui le chiede di farsi da tramite per consegnare una sua lettera alla moglie. Lei però in cambio gli impone di farle da partner in una gara di ballo. Nonostante Pat cerchi di negarsi, infine è costretto ad accettare. Si ritrovano così in un box arredato e coibentato da Tiffany stessa, dove Pat scopre gli effetti benefici che gli trasmette questo esercizio di concentrazione, di condivisione e di responsabilizzazione, anche se torna a casa stanco morto. La madre ed il padre sono sorpresi di vederlo così impegnato e positivo. Pat Sr., conoscendo Tiffany e la sua storia, vorrebbe che il figlio gli dedicasse più tempo per portargli fortuna con le partite degli Eagles. Intanto Tiffany gli consegna una lettera di risposta di Nikki e Pat non sa come interpretare il contenuto del testo di stampo interlocutorio. Una domenica suo padre gli chiede di andare a vedere la partita allo stadio, nonostante Pat gli dica che ha un’importante sessione di prova con Tiffany per mettere a punto alcuni passi in vista dell’oramai imminente gara di ballo. Ancora prima di entrare allo stadio però scoppia una rissa durante la quale Pat è costretto ad intervenire per salvare il fratello maggiore dai colpi di alcuni tifosi. Il risultato è che entrambi vengono allontanati dai poliziotti e quando tornano a casa il padre li accoglie come se ciò fosse la causa della sconfitta degli Eagles. Tiffany, che era rimasta invano ad aspettare Pat, lo raggiunge a sua volta ed a Pat Sr., che la tratta con sufficienza, mostra tutto il suo disappunto ma anche la sua competenza sportiva, convincendolo dati alla mano sull’assurdità delle sue conclusioni scaramantiche. Ne consegue una scommessa fra Pat Sr. e l’amico Randy che si tramuta poi in una martingala: nella partita degli Eagles contro i Cowboys, che coincide nei giorni successivi  al Natale con la gara di ballo, non solo la sua squadra dovrà vincere ma anche con un scarto di almeno dieci punti punti ed al tempo stesso la coppia Tiffany/Pat dovrà raggiungere almeno una valutazione della giuria di 5 su 10. Le sorprese però non sono ancora finite nel corso della giornata del 28 dicembre che pur promettendo un probabile insuccesso, diventa decisiva non solo per Pat Sr. ma anche per la coppia Tiffany e Pat Jr..        

VALUTAZIONE: una storia che inizia come un dramma di natura sociale, con una forte connotazione psicologica e comportamentale, per trasformarsi in seguito in una vicenda di riscatto e di rivincita, non solo sentimentale, dal finale prevedibile, ma che riesce miracolosamente ad evitare le sdolcinature e la retorica tipica del genere. Jennifer Lawrence ha vinto l’Oscar per questa interpretazione ma non meno convincenti sono Bradley Cooper e Robert De Niro. I dialoghi del film sono crudi a volte ma molto efficaci dal punto di vista del significato narrativo. Il film di David O. Russell per molti versi si rivela una piacevole sorpresa ed interessante anche dal punto di vista sociologico.   

E’ proprio vero che a volte capita d’imbattersi casualmente in un film dal quale non ti aspetti granché ed invece dopo un po’ ti ritrovi ad alzarti sempre più dalla posizione quasi sdraiata assunta sul divano di casa, scoprendo che la storia ed i personaggi che appaiono sul TV meritano ben altra attenzione e partecipazione. Innanzitutto, ma non solo quello, c’è il tema del bipolarismo che a volte affligge persone che mai ti aspetteresti ne siano affette e che magari salta fuori improvvisamente, in circostanze molto particolari, in alcuni casi ahimè anche drammatiche. Ne sa qualcosa Pat Solitano, il protagonista maschile de ‘Il Lato Positivo – Silver Linings Playbook‘.

Evitando di addentrarmi troppo in un ambito che è di natura psichiatrica e quindi va lasciato a chi ne è effettivamente competente, basti sapere in maniera molto semplicistica che il disturbo bipolare è una patologia che si può manifestare in alcune varianti ma più in generale comporta repentini cambi d’umore che portano chi lo manifesta a passare da stati di esagerata esaltazione ad altri di profonda depressione. Come se due distinte persone convivessero dentro una sola, anche in maniera latente ed il sopravvento dell’una sull’altra si scatena solo in particolari circostanze.

Ora, non conosciamo bene il suo regresso, se non per qualche ammissione dello stesso Pat di fronte al suo psicologo, ma di certo un forte e comprensibile choc lo ha subito quando è tornato a casa ed ha trovato la moglie e l’amante che se la spassavano dentro la doccia sulle note di una canzone che a lui ricorda il giorno del suo matrimonio. Qualcosa di violento è scattato in Pat e siccome il fisico non gli fa difetto, ha assalito il rivale e l’ha quasi massacrato di botte. Questo aspetto dormiente della sua personalità, seppure fortemente condizionato da un’evidente provocazione, è esploso in quel momento facendo emergere un disturbo bipolare, rispetto alla natura mite che l’aveva contraddistinto sino ad allora.

La degenza in una struttura psichiatrica e le medicine che è stato costretto ad assumere hanno assopito ma non pienamente risolto il deragliamento mentale che ha subito Pat. Nonostante ciò, è riuscito ad incanalare quel disturbo bipolare nel senso del titolo del film, tratto dal romanzo ‘L’orlo argenteo delle nuvole‘ di Matthew Quick. Il suo proposito infatti è molto chiaro: uscire da quel triste posto per riconquistare la moglie tenendo come barra del timone questo motto: ‘…sai cosa farò? Prenderò tutta questa negatività e la userò come carburante per trovare il lato positivo! È questo che farò! Non è una stronzata…Ci vuole impegno!…‘.

La madre riesce a farlo uscire dopo qualche mese, nonostante Pat non sia ancora del tutto a posto: parla ad alta voce con se stesso; legge in modo compulsivo i romanzi che gli aveva consigliato la moglie Nikki prima del fattaccio e poi di notte riemergono nella sua mente vari fantasmi, come il voler rivedere a tutti i costi la cassetta del video del matrimonio e mettersi ad urlare svegliando tutto il vicinato perché non la trova. Oppure presentarsi in camera dei genitori alle quattro di notte per spiegare loro la ragione per cui il romanzo ‘Addio alle Armi’ di Hemingway che ha appena terminato e l’ha scaraventato in giardino rompendo il vetro della finestra, ha un finale che lo ha molto deluso. Di giorno poi non va meglio: quando si reca dal suo psichiatra, nel rispetto delle regole stabilite per la sua libertà condizionata e quest’ultimo lo mette alla prova, invero un po’ provocatoriamente, dà in escandescenze quando sente diffondere in sala d’aspetto ancora una volta quella musica che ha udito in casa il giorno in cui è tornato all’orario ed al momento sbagliato…(leggi il resto del commento cliccando qui sotto su ’Continua a leggere’)  Continua a leggere…